Le radici e la crisi dell'Europa: il libro di Rumiz ("Il filo infinito") e l'articolo di Galli della Loggia
In questo dibattito si inserisce in particolare Paolo Rumiz con un saggio di recente uscita per Feltrinelli ("Il filo infinito. Viaggio alle radici dell'Europa", in cui riscopre l'importanza dei benedettini in una Europa allo sfascio) e un articolo dell'editorialista di punta del Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia, che scrive, a partire dalle reazioni "biparti-san" all'incendio di Notre Dame : "Le radici dell'Europa riscoperte tardi".
Paolo Rumiz, nei monasteri benedettini ho trovato le radici dell'Europa
«Tutto è cominciato per caso. Non sapevo nulla di Benedetto, nemmeno quando era vissuto. Mi ero persino dimenticato che fosse il patrono d’Europa. Nell’aprile 2017, durante la traversata a piedi della linea di faglia del terremoto nell’Italia centrale, scendo a piedi verso Norcia e la trovo seduta sulle sue rovine. In mezzo a questa devastazione, vedo la statua di Benedetto, illuminata dalle fotoelettriche, intatta. È stato allora che ho cominciato a chiedermi quale fosse la metafora dietro questa figura intatta, benedicente in mezzo alle rovine. La prima risposta nasceva dai miei dubbi: forse il santo ci sta indicando le macerie prossime venture. Poi mi sono detto: e se invece fosse vero il contrario? E cioè che l’idea benedettina è più forte delle macerie, se il santo stesse dando un segno di fiducia, di rinascita, in un momento pessimo, che per la prima volta vede l’Italia centrale, da sempre sismica, abbandonata a se stessa, piegata da un terremoto che provoca esodi senza ritorno. Un momento che, sulla stessa battigia, accomuna i destini dei migranti italiani a quelli che arrivano da oltreoceano».
Nasce da questa esperienza il nuovo libro di Paolo Rumiz, “Il filo infinito-Viaggio alle radici d’Europa”, dal 21 marzo 2019 in libreria edito da Feltrinelli (pagg. 176, euro 15,00), che l’autore presenterà al teatro Miela di Trieste il 2 aprile in un reading con accompagnamento di canti gregoriani eseguiti da artiste slovene.Perchè il filo? Perchè Benedetto e i suoi monaci - spiega il giornalista e scrittore triestino - riuscirono a salvare l’Europa negli anni di violenza assoluta e di anarchia che seguirono alla caduta dell’impero romano, ricolonizzarono lande inselvatichite, abbandonate, crearono con i monasteri un network ante-litteram che salvò una cultura millenaria. Con una formula semplicissima, ora et labora, con la forza della fede e la seduzione profonda di una liturgia che coinvolge tutti i sensi, cristianizzarono orde di barbari spietati e violenti e li resero europei. Costruirono un’Europa della preghiera, della cultura, dell’agricoltura, in secoli che furono tutt’altro che bui.
Da una domanda è partito il viaggio di Rumiz, di cui il libro dà testimonianza. E la ricerca di una risposta l’ha portato in alcuni monasteri benedettini, indipendenti e diversissimi tra loro, maschili e femminili, di Italia, Svizzera, Francia, Belgio, Germania, Austria, Ungheria, per poi tornare a Norcia e all’isola di San Giorgio a Venezia, a conoscere da vicino quel “disordine organizzato”, come l’ha definito un abate, che ha custodito nei secoli un’idea oggi messa in pericolo da chiusure e sovranismi.
«Da laico e mangiapreti - dice Rumiz - mi sono convinto che quel fondamento cristiano è pilastro dell’identità europea. E ho voluto capire se nei 73 punti della regola benedettina, ci sia qualcosa che può servire a raddrizzare l’Europa di oggi, a tenerne in piedi l’ideale. L’idea di Europa nasce nei momenti di disperazione. Le più grandi prese di posizione a suo favore, nell’800 e nel XX secolo, sono state fatte quando il nazionalismo trionfava. Pensiamo a Victor Hugo, deriso e fischiato all’Assemblea nazionale francese perchè parlava di stati europei, pensiamo a quello che ha detto Stefan Zweig, suicidatosi a causa del nazismo, parole che sono una stella polare per chi vuole riavvicinarsi all’Europa, nonostante Bruxelles e i burocrati».
Il viaggio, iniziato - racconta Rumiz - sotto i cupi presagi delle devastazioni climatiche, dei proclami anti-migranti, della Brexit, ha avuto un input preciso: l’Europa è un’idea che nasce da chi non ce l’ha e soffre per la sua mancanza. Ecco allora, nei monasteri visitati, la riscoperta degli elementi che rendono attuale il messaggio di Benedetto, a cominciare dall’ascolto dell’altro, fondamento di una leadership non violenta nè assertiva. E l’incontro con i valori della convivialità, del canto. «La scoperta del gregoriano - prosegue Rumiz - è stata destabilizzante per me, i canti sono propedeutici ad avvicinarsi alla componente invisibile della vita. In questo i monasteri, indipendenti da qualsiasi gerarchia ecclesiastica, sono rivoluzionari, danno stimoli che la chiesa non ha. La liturgia ti seduce dal punto di vista acustico, olfattivo, del gusto. Tutto è concertato per convincerti con mezzi non canonici. I barbari sono stati cristianizzati anche grazie al vino, al pane, alla birra, con l’incantamento del canto, non con una liturgia che non avrebbero capito».
Il filo è il network benedettino. Ma anche l’immagine di una suora che faceva la maglia, intravista da una porta semiaperta, nell’area claustrale dell’abbazia lombarda di Viboldone. «Quando vidi quest’anziana vergine - dice Rumiz - mi vennero in mente la parca, il filo di Arianna, il filo del destino, tutte metafore legate alle donne, e pensai all’Europa come a un qualcosa di femminile. Quando lo dissi alla badessa, lei mi accompagnò nella chiesa trecentesca del monastero: c’erano due rosoni decorati, uno con Benedetto, l’altro con sua sorella Scolastica, che teneva in mano il rocchetto e la lana. Allora ho capito che avevo toccato un punto importante della storia».
È necessario imparare di nuovo a narrare l’Europa in modo “credibile”. Questo il messaggio che Rumiz ha raccolto nel corso del viaggio. «Dobbiamo riattivare la memoria di quanto siamo stati capaci di infliggerci, per capire che l’Europa nasce quando ci si massacra di più. Ho chiesto alla badessa di Norcia, una donna con le mani distrutte dal giardinaggio, profondamente immersa nelle cose, se la situazione sia peggiore oggi o al tempo di Benedetto. Oggi, mi ha risposto, perchè abbiamo perso il contatto con l’invisibile. L’Europa non può fondarsi solo sull’idea del benessere».
Le radici dell’Europa riscoperte (tardi)
di Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera, 25 aprile 2019
Le fiamme di Parigi sono state dovute a un incidente, ma è bastata la minaccia di vedere in cenere una delle icone della cristianità del continente perché in una vasta parte dell’opinione pubblica europea si verificasse una reazione al di là di ogni tradizionale divisione politica o confessionale.
È bastato l’incendio — per fortuna solo parziale — della cattedrale di Notre-Dame per far emergere in pieno la schizofrenia ideologica e l’incertezza culturale delle classi colte e dirigenti dell’Europa. Cioè la causa forse principale della paralisi che da anni impedisce all’Unione Europea di diventare un vero soggetto politico. Le fiamme non erano ancor spente e già si levava un coro praticamente unanime. «Era una parte di noi, era la nostra storia, la nostra letteratura, il nostro immaginario, una parte del destino francese» dichiarava Emmanuel Macron; gli faceva eco all’altro capo dello schieramento politico, con toni lirici, Jean-Luc Mélenchon, capo del partito della sinistra radicale «La France insoumise», laicissimo e massone (notazione non irrilevante che traggo da Le Monde che giustamente la fornisce): «Questo edificio è un membro della nostra famiglia, la nostra cattedrale comune, il vascello, la navata che tutti ci porta sui flutti del tempo». Anche in casa nostra politici e commentatori si sono riconosciuti tutti sull’identica linea senza distinzione di orientamento politico. E così abbiamo letto che a Notre-Dame abitava «l’anima dell’Europa», che «la modernità» comincia dalla cattedrale «che diventa spazio pubblico, centro culturale, polo di aggregazione». Non solo: che il drammatico evento parigino rivelava «un sentimento comune di appartenenza», «energie nascoste», che faceva sentire «più uniti» perché rivelava a noi stessi che «condividiamo storia, cultura e religione».Tutto sacrosantamente vero: chiamato a commentare non avrei certo scritto cose diverse. Si pone però una non trascurabile questione, o meglio se ne pongono due. Primo: l’insieme delle considerazioni e affermazioni suddette e mille altre analoghe ascoltate e lette in questi giorni non alludono forse — e neppure troppo velatamente, direi anzi con grande passione argomentativa — all’esistenza di una cosa che si chiama identità? Secondo: tale identità non si rivela forse a chiare lettere essere un’identità cristiana?
Già. Il fatto è però, come si sa, che queste due parole, «identità cristiana», costituiscono un non dicibile per il discorso pubblico dell’Europa ufficiale. Per il mainstream politico-culturale del nostro continente, per la politica e per gli intellettuali che contano, per i media che ne seguono l’orientamento, grava su di esse l’interdetto del Politicamente Corretto. Non per nulla quando una quindicina di anni fa, nella premessa a un progetto di Costituzione della Ue molti proposero di menzionare tra le radici spirituali della nuova entità che si voleva fondare, accanto al retaggio greco-romano e all’Illuminismo, anche le «radici cristiane», si assistette a una vera levata di scudi. Invocando l’imprescindibile spirito laico, la complessità della storia non racchiudibile in formule, e mille altri motivi, fioccarono dubbi, cavilli e obiezioni di ogni tipo. Finché, per non dispiacere ai nostri amici ebrei (che certamente, peraltro, non se ne sarebbero affatto dispiaciuti) ma specialmente per non irritare troppo i notoriamente irritabilissimi nostri vicini e ospiti musulmani, si concluse di non farne nulla. Sostenuta da una vasta opinione di colti, l’assemblea dei costituenti decretò che l’Europa non aveva radici storico-culturali (o non poteva dire di averne), e che già solo evocare la dimensione dell’identità era qualcosa di non inclusivo, tendenzialmente razzista; pensare addirittura di accennarne nella Costituzione una pretesa irricevibile.Quando si dice il distacco delle élite dalla gente comune: tanto più quando forse in cuor loro le prime sanno bene come stanno le cose. Sanno bene, cioè, di essersi piegate a un conformismo diffuso, a un irenismo fondato sull’automortificazione che esse stesse hanno contribuito a radicare. L’incendio di Notre-Dame ha funzionato però da detonatore del deposito di materiale emotivo silenziosamente accumulatosi per anni in seguito alle centinaia di morti e feriti prodotti dagli attentati islamisti, alle decapitazioni e agli altri orrori dell’Isis. Non c’è nulla come la percezione prolungata della presenza del pericolo e di un nemico per rendere coscienti della propria identità e per sentire il bisogno di manifestarla. Certo, le fiamme di Parigi sono state dovute a un incidente, ma è bastata la minaccia di vedere in cenere una delle icone della cristianità del continente perché in una vasta parte dell’opinione pubblica europea si verificasse una reazione al di là di ogni tradizionale divisione politica o confessionale. Un sussulto di autocoscienza identitaria: «Siamo questa cosa qui, questo luogo, anche questa chiesa, e non siamo disposti a rinnegare ciò che siamo». Senza alcuna iattanza ma pure senza alcuna esitazione. Mostrando però fino a qual punto si era andato formando nell’uomo della strada europeo un sentire comune, un viluppo sentimentale e psicologico, lontani anni luce dalle idee correnti e dai pregiudizi delle élite politiche e mediatico-culturali. Le quali, peraltro, dando prova più che di opportunismo di un’impressionante schizofrenia si sono immediatamente adeguate. Quasi sempre le stesse che sulla Costituzione della Ue erano convinte che non si dovesse dire una parola sulle «radici cristiane», quasi sempre le stesse che erano andate avanti per anni bruciando granelli d’incenso sull’altare della «laicità» o predicando la necessità del rifiuto assoluto di qualsiasi tematica identitaria, si sono improvvisamente messe a declamare sulla centralità della tradizione religiosa per il nostro passato e il nostro presente.Di ogni giusto ripensamento non c’è che da rallegrarsi, naturalmente. È inevitabile chiedersi tuttavia se potrà mai essere una tale classe politico-intellettuale, così malcerta delle proprie convinzioni e così pronta ad allinearsi al mutare dello spirito pubblico, quella che riuscirà nell’ardua impresa di costruire un giorno la patria europea.