Gaudete et exultate: materiale per una conferenza sul 1* capitolo dell'esortazione sulla Santità
Dalla CATECHESI DEL
CARD. VICARIO ANGELO DE DONATIS SULL’ESORTAZIONE APOSTOLICA “GAUDETE ET
EXSULTATE” BASILICA DI SAN GIOVANNI IN LATERANO - 8 OTTOBRE 2018 con aggiunte
personali.
Preghiera
allo Spirito Santo del santo Papa Paolo VI
Vieni, o Spirito Santo
e donami un cuore puro,
pronto ad amare Cristo Signore
con la pienezza, la profondità e la gioia
che tu solo sai infondere.
Donami un cuore puro,
come quello di un fanciullo
che non conosce il male
se non per combatterla e fuggirlo.
Vieni, o Spirito Santo
e donami un cuore grande,
aperto alla tua parola ispiratrice
e chiuso ad ogni meschina ambizione.
Donami un cuore grande e forte
capace di amare tutti,
deciso a sostenere per loro
ogni prova, noia e stanchezza,
ogni delusione e offesa.
Donami un cuore grande,
forte e costante fino al sacrificio,
felice solo di palpitare con il cuore di Cristo
e di compiere umilmente, fedelmente
e coraggiosamente la volontà di Dio.
Amen.
e donami un cuore puro,
pronto ad amare Cristo Signore
con la pienezza, la profondità e la gioia
che tu solo sai infondere.
Donami un cuore puro,
come quello di un fanciullo
che non conosce il male
se non per combatterla e fuggirlo.
Vieni, o Spirito Santo
e donami un cuore grande,
aperto alla tua parola ispiratrice
e chiuso ad ogni meschina ambizione.
Donami un cuore grande e forte
capace di amare tutti,
deciso a sostenere per loro
ogni prova, noia e stanchezza,
ogni delusione e offesa.
Donami un cuore grande,
forte e costante fino al sacrificio,
felice solo di palpitare con il cuore di Cristo
e di compiere umilmente, fedelmente
e coraggiosamente la volontà di Dio.
Amen.
Papa
Francesco ha donato alla chiesa universale un’esortazione apostolica, la terza
dopo Evangelii gaudium (2013) e Amoris lætitia (2016),
sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. Questa esortazione porta
significativamente il titolo Gaudete et exsultate, dunque è un
invito alla gioia e all’esultanza rivolto a tutti i cristiani. Anche solo in
questo titolo risuona un’urgenza evangelica alla quale Papa Francesco è molto
attento, perché la ritiene decisiva nella vita dei discepoli di Gesù: l’urgenza
della gioia, che è gioia del Vangelo, letizia dell’amore, esperienza gioiosa
della comunione con il Signore Gesù.
Conosciamo
i rimproveri rivolti a noi cristiani in particolare da Friedrich Nietzsche
all’inizio del secolo scorso, sul nostro volto che sovente appare triste,
stanco, depresso, astenico e addirittura cinico. Siamo schiacciati dal peso dei
precetti, in profonda contraddizione con il messaggio del Vangelo che è “buona
notizia”, annuncio che dovrebbe destare gioia ed esultanza: la gioia che nasce
da un incontro che dà senso all’esistenza; la gioia della scoperta di un tesoro
incalcolabile; la gioia della liberazione, della pienezza di vita che il Signore
offre a chi accoglie il suo amore, che mai deve essere meritato. I cristiani
dimenticano purtroppo che la gioia è un comando apostolico, rivolto da Paolo
alla chiesa: «Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi!» (Filippesi 4,
4). Dimenticano che la gioia è un esercizio da compiersi nella lotta contro
l’acedia, contro la tristezza mondana; che la gioia è una confessio
laudis che canta l’azione di Dio in noi e nella storia; che la gioia è
il dono del Risorto che niente e nessuno può rubare (cfr. Giovanni 15,
11; 16, 20-22). È significativo che già Paolo VI aveva avuto l’audacia di
scrivere un’esortazione apostolica intitolata Gaudete in Domino (1975),
chiedendo ai cristiani che la loro vita fosse capace di mostrare la gioia della
fede, della speranza e dell’amore che abitano nei loro cuori[1].
Perché Papa
Francesco ha scritto un'Esortazione apostolica sulla santità?
Non credo che
sfugga a nessuno di noi che parlare oggi di "chiamata alla santità"
rappresenta una sfida. "Santità" è una parola desueta, lontana dal
linguaggio comune. ln genere anche noi cristiani non la usiamo, non diciamo
tanto (come nel passato) frasi come "il mio scopo nella vita è diventare
santo".
E’
come se ci fosse appiattiti su un benessere umano, accontentandoci di stare
meglio possibile qui, sentendo sempre più vaga e lontana la promessa della vita
eterna.
Eppure Il
concilio Vaticano Il aveva fatto dell'universale chiamata alla santità uno dei
punti più qualificanti del suo insegnamento, ribadendo che tale chiamata è
rivolta a tutti:
"muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste" (LG 1)
Per questo
Papa Francesco ha deciso di regalarci questa Esortazione: ha voluto mostrare
l'attualità perenne della santità cristiana, presentandone il contenuto, così
come è narrato dalla Scrittura (ad esempio nelle beatitudini), in modo da
poterla proporre a tutti come meta desiderabile del proprio cammino umano. Papa
Francesco sintetizza così: la santità è "la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati"
(GeE1). Il contrario della santità non è soltanto una vita nel peccato, ma è
prima di tutto "l'accontentarsi di
un'esistenza mediocre, annacquata e inconsistente" (GeE1). Essere
cristiani significa ricevere da Dio il dono di una vita bella, ricca di senso,
piena di gusto, mettersi in un cammino che renda "più vivi e più umani" (GeE32). Contro il male di vivere o
l'accettazione (falsamente pacificata) del non senso della realtà per limitarsi
ad abitare il proprio frammento di esistenza, Dio offre un cammino di santità,
coraggioso e umanizzante, da vivere nella sequela di Cristo e nella rete delle
relazioni con gli altri. Dio è il tre volte Santo, e riversa sugli uomini la
sua stessa vita divina: "Siate
santi, perché io il Signore, sono santo" (LV 1 1 ,44), trasfigurando
l'esistenza dell'uomo e rendendola sempre più ad immagine e somiglianza di
quella del Signore Risorto.
È evidente
che Papa Francesco con questa Esortazione vuole puntare l'attenzione su ciò che
è decisivo ed essenziale nella vita cristiana e aiutarci a tenere ben largo il
nostro sguardo, contro la tentazione di ridurre la visuale o di perdere
l'orizzonte, di accontentarci di "vivacchiare". L'appartenenza al
Signore Gesù e alla Chiesa si dissolve e si svuota di senso se non tiene ben
dritta la direzione del cammino nella traiettoria della santità e fatalmente
scade nella ricerca di "altro", di ciò che è funzionale al proprio
"io" e che nulla ha a che fare con la costruzione del regno di Dio.
Quindi la
finalità dell'Esortazione non è di offrire "un trattato sulla santità, con tante definizioni e distinzioni",
"il mio umile obiettivo",
scrive Papa Francesco, "è far
risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel
contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità"
(GeE2).
In tutto questo discorso mi
risuona una nota preghiera di don Tonino Bello:
DAMMI, SIGNORE, UN’ALA DI
RISERVA!
Voglio ringraziarti Signore,
per il dono della vita;
ho letto da qualche parte
che gli uomini hanno un’ala soltanto:
possono volare solo rimanendo abbracciati.
A volte, nei momenti di confidenza,
oso pensare, Signore,
che tu abbia un’ala soltanto,
l’altra la tieni nascosta,
forse per farmi capire
che tu non vuoi volare senza di me;
per questo mi hai dato la vita:
Perché io fossi tuo compagno di volo,
insegnami, allora, a librarmi con Te.
Perché vivere non è trascinare la vita,
non è strapparla, non è rosicchiarla,
vivere è abbandonarsi come un gabbiano
all’ebbrezza del vento,
vivere è assaporare l’avventura della libertà,
vivere è stendere l’ala, l’unica ala,
con la fiducia di chi sa di avere nel volo
un partner grande come Te.
Ma non basta saper volare con Te, Signore,
tu mi hai dato il compito di abbracciare anche il fratello
e aiutarlo a volare.
Ti chiedo perdono, perciò,
per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi,
non farmi più passare indifferente
vicino al fratello che è rimasto con l’ala, l’unica ala,
inesorabilmente impigliata nella rete della miseria e della solitudine
e si è ormai persuaso
di non essere più degno di volare con Te.
Soprattutto per questo fratello sfortunato dammi, o Signore,
un’ala di riserva.
per il dono della vita;
ho letto da qualche parte
che gli uomini hanno un’ala soltanto:
possono volare solo rimanendo abbracciati.
A volte, nei momenti di confidenza,
oso pensare, Signore,
che tu abbia un’ala soltanto,
l’altra la tieni nascosta,
forse per farmi capire
che tu non vuoi volare senza di me;
per questo mi hai dato la vita:
Perché io fossi tuo compagno di volo,
insegnami, allora, a librarmi con Te.
Perché vivere non è trascinare la vita,
non è strapparla, non è rosicchiarla,
vivere è abbandonarsi come un gabbiano
all’ebbrezza del vento,
vivere è assaporare l’avventura della libertà,
vivere è stendere l’ala, l’unica ala,
con la fiducia di chi sa di avere nel volo
un partner grande come Te.
Ma non basta saper volare con Te, Signore,
tu mi hai dato il compito di abbracciare anche il fratello
e aiutarlo a volare.
Ti chiedo perdono, perciò,
per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi,
non farmi più passare indifferente
vicino al fratello che è rimasto con l’ala, l’unica ala,
inesorabilmente impigliata nella rete della miseria e della solitudine
e si è ormai persuaso
di non essere più degno di volare con Te.
Soprattutto per questo fratello sfortunato dammi, o Signore,
un’ala di riserva.
La santità
della porta accanto
Prima di
tutto il Papa vuole dirci che la santità non è un'altra cosa rispetto alla vita
che facciamo tutti i giorni, ma è esattamente questa stessa nostra esistenza
ordinaria vissuta in maniera straordinaria, perché resa bella dalla grazia di
Dio, dall'azione dello Spirito Santo ricevuto nel battesimo. Il frutto dello
Spirito è infatti una vita vissuta nella
gioia e nell'amore, e in questo consiste la santità.
Non ci sono
condizioni particolari: la santità non è appannaggio di chi vive dedicando
molto tempo alla preghiera o allo studio teologico o esercitando un particolare
ministero nella Chiesa, ma è quella vita nuova che per dono di Dio è
concretamente possibile a tutti, "nelle
occupazioni di ogni giorno, lì dove ciascuno si trova" (GeE14).
Francesco ricorda le parole del
Cardinale vietnamita Van Thuan, nei lunghi giorni del carcere: non passo il
tempo ad aspettare di essere liberato dal carcere, ma "vivo il momento presente, colmandolo di
amore" (GeE17)[2].
Il Papa fa
volutamente esempi di santità prendendoli dalla vita ordinaria: "i genitori che crescono con tanto amore i
figli, gli uomini e le donne che lavorano per portare il pane a casa, i malati,
le religiose anziane che continuano a
sorridere"(GeE7). Sono i santi "della porta accanto", o
"la classe media della santità" (titolo di un libro di Joseph
Malegue) (GeE7).
Per questo,
Papa Francesco ad un certo punto cambia stile e si rivolge direttamente al suo
interlocutore, a chi lo sta leggendo, per dirgli che la santità, cioè la vita
vera e felice, è davvero possibile anche a te:
"Lascia che la grazia del tuo battesimo
fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal
fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare perché hai la
forza dello Spirito Santo affinché sia possibile e la santità in fondo è il
frutto dello Spirito nella tua vita" (GeE15; ma il tu comincia anche
al numero 10,14, ecc). Il Concilio, nel brano già citato di LG I, diceva: tutti
sono chiamati, "ognuno per la sua
via". Non si tratta di copiare le opere dei santi, perché in
definitiva ognuno ha la sua vita e il suo posto nel mondo; si tratta invece,
"sotto l'impulso della grazia di
Dio, di costruire con tanti gesti quella figura di santità che Dio ha voluto
per noi" (GeE18). Anche se la mia vita fosse sprofondata nel peccato o
nel fallimento, la chiamata alla santità mi raggiunge dove sono per donarmi una
ripartenza e una possibilità di riscatto.
La santità
come partecipazione alla santità del popolo di Dio
La santità
non è possibile da soli. L'individualismo e la pretesa di autosufficienza non
portano alla vera vita. Abbiamo bisogno degli altri, abbiamo necessità di
sentire che la nostra vita è inserita in quella del Popolo di Dio, nel quale lo
Spirito di Dio riversa la sua santità.
Questo vale ancor più per noi che abbiamo
seguito la chiamata di vivere in una comunità proprio per aiutarci a farci
santi insieme, reciprocamente custodirci e stimolarci, anche attraverso le
difficoltà che l’altro mi causa con il suo carattere e il suo modo diverso di
vedere la vita (religiosa). Così mette alla prova (e rinforza) la pazienza:
“ci
vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce
pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.La speranza poi non
delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo
dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,3-5).
Non è tuttavia sufficiente la Comunità Religiosa: questa deve essere
sempre aperta al popolo di Dio, alla Chiesa locale ed universale, agli ultimi
che bussano e disturbano la nostra quiete, ma accogliendo i quali, accogliamo
Dio stesso che si identifica in loro.
Dio non ci
salva da soli, ma come Lui si è voluto rivelare entrando nella storia di un
popolo, in "una dinamica popolare",
scrive il Papa (GeE6), così anche il nostro percorso di avvicinamento al
Signore e di crescita nella fede è possibile solo dentro "la complessa trama di relazioni
interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana" (GeE7). Francesco
cita qui l'omelia per l'inizio del ministero petrino di Papa Benedetto: "Non devo portare da solo ciò che in realtà
non potrei mai portare da solo": il santo Popolo di Dio "mi sostiene, mi sorregge e mi porta".
C’è qui da fare una
lunga parentesi su quella che è stata chiamata dal Santo Papa Giovanni Paolo
II, la spiritualità o ecclesiologia di
comunione. Si tratta ciòè, dice Giovanni Paolo II, di far nascere e crescere
una capacità di sentire il fratello nella fede (anche il fratello con il quale
la comunione non è piena) come un appartenente al corpo di Cristo, un mio
fratello, con cui deve esserci conoscenza reciproca e condivisione. Nello
spazio cristiano, infatti, l’altro non è “l’inferno” (come affermava Sartre),
ma è “dono di Dio”, “dono per me”; è ciò che mi manca e che mi rivela la mia
insufficienza.
Non è possibile essere cristiani
e non solo non volere l’unità, ma non fare tutto ciò che è possibile per la
comunione. Chi agisce e vive per la comunione con Cristo non può,
simultaneamente, non agire e non vivere per la riconciliazione e la comunione
con i suoi fratelli, membra del suo stesso corpo.
La comunione
è ricerca di unità nel rispetto delle differenze (unità nella distinzione), in
una pluralità di forme che si vanno armonizzando in una comune ricerca di bene
e in una condivisione che mi fa sentire l’altro parte di me. La condizione più importante della diversità è che essa non
distrugga l’unità, che prevalga la carità, che si cerchi, su tutti e su tutto,
la regalità di Cristo. Si riconoscono carismi differenti a condizione che siano
finalizzati al bene comune, a costruire e non a distruggere.
Giovanni Paolo II ha parlato della “spiritualità della
comunione” come del fattore caratterizzante il nuovo millennio: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida
che ci sta davanti nel millennio che inizia(…). Prima di programmare iniziative
concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione”[3].
Secondo Benedetto XVI “La ‘comunione’ è il rimedio donatoci dal Signore contro la solitudine
che oggi minaccia tutti, è la luce che fa risplendere la Chiesa come segno innalzato
fra i popoli”[4].
Karl Rahner afferma:
Noi anziani siamo stati
spiritualmente degli individualisti, data la nostra provenienza e la nostra
formazione(…). Io penso che in una spiritualità del futuro l’elemento della
comunione spirituale fraterna, di una spiritualità vissuta insieme, possa
giocare un ruolo più determinante, e che lentamente ma decisamente si debba
proseguire lungo questa strada[5].
La spiritualità di comunione ci apre ad una santità di
popolo in cui ciascuno desidera la santità dell’altro come la propria e ci si
aiuta reciprocamente ad essere sempre nella carità che è il vincolo della
perfezione. Nota Tillard: “Nuove forme di “comunità cristiane”,
nate ordinariamente non da iniziative gerarchiche, ma dalla creatività “della
base”, germinano un po’ dappertutto”[6].
Nei primi secoli del cristianesimo si pensava che per
arrivare all’unione con Dio si dovessero dire preghiere, fare penitenze,
digiuni, rinunzie, fuggire dai fratelli; tutte cose che la singola persona
compiva da sola come se il fratello non esistesse. Poi, il fratello, è
diventato oggetto di carità, di opere
di misericordia, di elemosina. Lo Spirito ci spinge oggi verso la comunione: il
fratello non è più un ostacolo, o solo oggetto di carità, ma diviene la strada
privilegiata per trovare Dio, per vivere l’unione con Dio.
Già nell’antico testamento i profeti alzavano la loro voce
perché il popolo non riducesse il rapporto con Dio alle pratiche liturgiche.
Esse sarebbero diventate una scusa per credersi a posto, mentre l'essenza della
religione doveva portare all'amore del prossimo: "Voglio l'amore e non il sacrificio" (Os. 6.6) diceva Dio
per bocca di Osea.
Il Concilio, i Papi, i teologi,
tutti spingono ormai ad approfondire la dimensione del rapporto con i fratelli,
con tutti gli uomini, per divenire sempre di più una famiglia, una comunità.
Dunque la conversione che
dobbiamo fare è rovesciare la visione del fratello: da oggetto di attenzioni,
di atti di carità, diviene il primo benefattore perché ci permette di entrare
subito nella carità, nel regno dei
cieli. Scrive s. Giovanni: “Siamo passati
dalla morte alla vita perché abbiamo amato i fratelli”.(1Gv 4)
Nella Chiesa trovo la testimonianza degli
altri, dei santi canonizzati, delle persone più umili, di chi "con costanza va avanti giorno dopo giorno"
(GeE7); nella Chiesa "trovi tutto
ciò di cui hai bisogno per crescere verso la santità: la Parola, i Sacramenti,
i santuari, la vita della comunità, la testimonianza dei santi, e una
multiforme bellezza che procede dall'amore del Signore" (GeE15).
Nel Popolo di
Dio è presente uno stile maschile e uno femminile di vivere la santità, tutti e
due "indispensabili per riflettere
la santità di Dio in questo mondo" (GeE12). Papa Francesco ricorda il
"genio della santità al femminile" e le figure di alcune
grandi sante: santa Ildegarda di Bingen,
santa Brigida, santa Caterina da Siena, santa Teresa d'Avila o Santa Teresa di
Lisieux, ma soprattutto, come è nel suo stile, vuole richiamarci alla
memoria quelle figure di donne sante che hanno segnato la nostra vita
personale: madri, nonne, "donne
sconosciute o dimenticate le quali, ciascuna a modo suo, hanno sostenuto e
trasformato famiglie e comunità con la forza della loro testimonianza".
E ancora: il
Papa aggiunge che fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti, lo
Spirito suscita "segni della sua
presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo" (GeE9, citando
Novo millennio ineunte). Ricorda che il martirio ha un significato ecumenico
altissimo, perché i cristiani sono stati perseguitati e uccisi
indipendentemente dalla loro appartenenza ad una confessione cristiana
specifica, ma a motivo della sola testimonianza resa a Cristo.
Come si
comprende, la spiritualità cristiana è essenzialmente comunitaria, ecclesiale,
profondamente diversa e lontana da una visione elitaria o di eroismo
individuale della santità.
Se guardiamo
al cammino della storia umana, in realtà, noi vediamo che la santità è quella
corrente misteriosa e nascosta attraverso la quale è Dio stesso che guida le
vicende umane. La comunione dei santi fa sì che la santità di ciascuno porti
frutto nella vita degli altri e nel cammino di tutti. Francesco ricorda santa Teresa Benedetta della Croce[7]:
“Nella notte più oscura sorgono i più grandi profeti e i santi. Tuttavia, la corrente vivificante della vita mistica rimane invisibile. Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato”.
La sorgente e
la meta della santità
La sorgente
da cui scaturisce la santità è il Signore Gesù, la meta a cui tende è la storia
umana, la trasformazione della storia nel regno di Dio. Questo è un punto
centrale. Scrive il Papa che ogni uomo che viene in questo mondo ha "bisogno di concepire la totalità della sua
vita come una missione" (GeE23). Quando mi chiedo: "perché sono
nato? Perché vivo e a che serve la mia vita? Qual' è il mio contributo alla
crescita di questo mondo?", mi sto interrogando su quale sia la mia missione.
Ebbene, "ogni santo è una missione"
(GeE19) cioè è uno inviato dal Padre per incarnare e rendere presente Cristo,
l'uomo nuovo, nel mondo. Gesù è infatti la sorgente di ogni santità: lo Spirito
Santo non fa altro che riprodurre oggi, in noi, i lineamenti del volto di
Cristo. Però, ciascuno in un modo diverso: ci sono santi che riproducono la sua
vita nascosta a Nazareth, altri la sua vicinanza agli ultimi; gli sposi
divengono sacramento di Cristo sposo, i presbiteri sacramento del Cristo buon
pastore... "Contemplare i misteri
della vita di Cristo ci orienta a renderli carne nelle nostre scelte e nei
nostri atteggiamenti" (GeE20).
Dall'altra
parte Cristo è stato inviato per il Regno, per questo dice Francesco, sempre
rivolgendosi a ciascuno di noi suoi lettori, anche tu "non ti santificherai senza consegnarti anima
e corpo per dare il meglio di te in questo impegno" della costruzione
del regno (GeE25). La santità cristiana non aliena dall'impegno per la storia
umana, anzi! I santi sono pericolosi rivoluzionari, perché sono decisi a
giocarsi totalmente per la missione affidatagli dal Padre. Sanno che chi perde
la vita per il regno, la trova, come Gesù. Come Francesco aveva ribadito in
Evangelii Gaudium (nn 87-92) dalla spiritualità cristiana non si può togliere
l'incarnazione e la croce, magari per "ritagliarsi" un Dio del
benessere personale e della prosperità economica, distaccato dalle vicende
umane, dalla carne dolorante dei suoi figli. Non c'è santità cristiana lì dove
la spiritualità prescinde dalla storia, e in nome di una comunione vaga, magari
con "energie armonizzanti", dimentica la comunione con gli altri
esseri umani e la ricerca del volto dell'altro, dimentica la fraternità e la
rivoluzione della tenerezza.
A noi è
affidato il compito di accogliere questa chiamata alla santità, fatta di
imitazione di Gesù e impegno con Lui per la trasformazione della storia umana.
"Voglia il cielo che tu possa
riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire
al mondo con la tua vita" (GeE24)
La santità
integra tutto l'uomo
Questa
proposta di vita che è la santità cristiana tende gradualmente a conformare
l'uomo a Cristo unificando e integrando la sua vita. Preghiera e azione nel
mondo, tempi di silenzio e tempi di servizio, vita familiare e impegno del
lavoro, "tutto può essere accettato
e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo ed entra a far
parte del cammino di santificazione" (GeE26).
La ricerca di
momenti di solitudine e di silenzio, staccando dalla corsa febbrile di cui è
fatta la nostra vita, è in funzione di questa unificazione interiore sotto lo
sguardo di Dio. ln questo spazio personale, a contatto finalmente con la verità
di noi stessi, potremo vivere un dialogo sincero con il Signore e farci
invadere da Lui. "Non avere paura di
puntare più in alto, di lasciarti amare e liberare da Dio. Non aver paura di
lasciarti guidare dallo Spirito Santo. La santità non ti rende meno umano
perché è l'incontro della tua debolezza con la forza della sua grazia"
(GeE 34).
ESORTAZIONE
APOSTOLICA GAUDETE ET EXSULTATE DEL SANTO PADRE FRANCESCO
SULLA
CHIAMATA ALLA SANTITÀ NEL MONDO CONTEMPORANEO
INDICE
« Rallegratevi ed
esultate » [1-2]
I santi che ci
incoraggiano e ci accompagnano [3-5]
I santi della porta accanto [6-9]
Il Signore chiama [10-13]
Anche per te [14-18]
La tua missione in Cristo [19-24]
L’attività che santifica [25-31]
Più vivi, più umani [32-34]
I santi della porta accanto [6-9]
Il Signore chiama [10-13]
Anche per te [14-18]
La tua missione in Cristo [19-24]
L’attività che santifica [25-31]
Più vivi, più umani [32-34]
Una mente senza
Dio e senza carne [37-39]
Una dottrina senza mistero [40-42]
I limiti della ragione [43-46]
Una dottrina senza mistero [40-42]
I limiti della ragione [43-46]
Il Pelagianesimo
attuale [47-48]
Una volontà senza
umiltà [49-51]
Un insegnamento della Chiesa spesso dimenticato [52-56]
I nuovi pelagiani [57-59]
Il riassunto della Legge [60-62]
Un insegnamento della Chiesa spesso dimenticato [52-56]
I nuovi pelagiani [57-59]
Il riassunto della Legge [60-62]
Controcorrente [65-66]
« Beati i
poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli » [67-70]
« Beati i miti, perché avranno in eredità la terra » [71-74]
« Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati » [75-76]
« Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati » [77-79]
« Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia » [80-82]
« Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio » [83-86]
« Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio » [87-89]
« Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli » [90-94]
« Beati i miti, perché avranno in eredità la terra » [71-74]
« Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati » [75-76]
« Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati » [77-79]
« Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia » [80-82]
« Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio » [83-86]
« Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio » [87-89]
« Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli » [90-94]
Per fedeltà al
Maestro [96-99]
Le ideologie che mutilano il cuore del Vangelo [100-103]
Il culto che Lui più gradisce [104-109]
Le ideologie che mutilano il cuore del Vangelo [100-103]
Il culto che Lui più gradisce [104-109]
Sopportazione,
pazienza e mitezza [112-121]
Gioia e senso dell’umorismo [122-128]
Audacia e fervore [129-139]
In comunità [140-146]
In preghiera costante [147-157]
Gioia e senso dell’umorismo [122-128]
Audacia e fervore [129-139]
In comunità [140-146]
In preghiera costante [147-157]
Qualcosa di più di
un mito [160-161]
Svegli e fiduciosi [162-163]
La corruzione spirituale [164-165]
Svegli e fiduciosi [162-163]
La corruzione spirituale [164-165]
Il discernimento [166]
Un bisogno urgente [167-168]
Sempre alla luce del Signore [169]
Un dono soprannaturale [170-171]
Parla, Signore [172-173]
La logica del dono e della croce [174-177]
Sempre alla luce del Signore [169]
Un dono soprannaturale [170-171]
Parla, Signore [172-173]
La logica del dono e della croce [174-177]
[1] E.
Bianchi, L’urgenza della gioia in L’Osservatore Romano, 28.05.2018
[2] Il cardinale vietnamita François Xavier Nguyên Van Thuân, presidente del Pontificio consiglio della
giustizia e della pace è morto a Roma il 16 settembre 2002 a 74 anni.
Ha il martirio nel suo dna: tutta la famiglia materna (ad eccezione del nonno, che in quel periodo è in Malesia) nel 1885 viene sterminata con l’incendio del villaggio, dato alle fiamme perché abitato da cristiani, mentre per linea paterna innumerevoli sono i perseguitati e gli uccisi per la fede tra il 1668 ed il 1885. La loro memoria è tenuta viva in famiglia, li si rievoca quando son seduti per la preghiera della sera attorno a nonna, che non li lascia mai andare a letto senza aver fatto recitare loro il rosario per i sacerdoti.
Non è quindi un caso che quando anch’egli sarà imprigionato per la fede, sua madre faccia pregare per lui ogni sera: non per chiedere la sua liberazione, ma piuttosto perché resti sempre fedele alla Chiesa e perchè impari a perdonare i suoi persecutori. È abbastanza normale, dunque, che in una famiglia così nasca, cresca e si formi cristianamente un personaggio che noi oggi conosciamo come il cardinale François Xavier Nguyên Van Thuân.
Nato a Huê il 17 aprile 1928, entra in seminario a 13 anni e diventa sacerdote l’11 giugno 1953. Dopo essersi laureto a Roma in Diritto Canonico nel 1959, ritorna in Viet Nam a fare il professore, il rettore del seminario e il vicario generale della diocesi di Huê. Nel 1967, ad appena 39 anni, viene eletto vescovo titolare della diocesi della diocesi di Nha Trang.
I suoi guai iniziano nel 1975, dopo la nomina a vescovo di Saigon: incarcerato dai Viet Kong, resterà in cella per 13 anni, nove dei quali in isolamento, senza un processo, senza un giudizio, senza una condanna. Entrato da uomo libero nel palazzo presidenziale nel primo pomeriggio del 15 agosto 1975, ne esce alcune ore dopo come detenuto sotto scorta, senza ricambi o effetti personali.
Nei giorni successivi può chiedere un cambio di biancheria e medicine per il “mal di stomaco”, che i suoi fedeli capiscono subito nel significato recondito, fornendogli una bottiglietta di vino e ostie per la celebrazione dell’Eucaristia. Con alcune gocce di vino, tenute nel palmo della mano, e con i frammenti di ostie, ogni giorno può celebrare messa: naturalmente a memoria, perché non può tenere con sé libri e tantomeno messali.
Da sotto la zanzariera riesce a dare la comunione ai cinque cattolici che dall’esterno hanno partecipato alla celebrazione cercando di dare nell’occhio il meno possibile. I frammenti consacrati residui sono poi conservati in un pacchetto di sigarette, che, secondo le necessità, funziona egregiamente da tabernacolo, pisside, teca per la comunione ai malati e addirittura da ostensorio, davanti al quale gruppetti di detenuti si radunano per l’adorazione.
Riesce a comunicare con l’esterno grazie ad un bambino di 7 anni, che gli procura in carcere carta e matita e che poi con aria innocente riesce a far passare sotto il naso dei burberi carcerieri i messaggi del vescovo prigioniero alla sua comunità. A casa il bambino può contare sulla complicità di fratelli più grandi di lui, che prontamente li ricopiano e li diffondono: in questa maniera avventurosa nascono i libri del vescovo (tradotti poi anche in italiano), il cui tema dominante è la speranza.
Le autorità lo temono, perché parla di amore e perdono e rischia di “contaminare” le guardie; arrivano al punto di sostituire il picchetto ogni due settimane, ma alla fine devono arrendersi, perché quest’uomo, disarmato e impotente, con la sua sola presenza e con la sua testimonianza, risulta estremamente contagioso.
Nei duri anni di completo isolamento, oltre alla messa, non ha altra consolazione che rileggere le 300 frasi del vangelo, imparate a memoria e trascritte su pezzetti di carta e che porta sempre con sé, insieme a due puzzolenti pagine dell’Osservatore Romano, utilizzate per incartare un pesce ricevuto in dono, ma che a lui fanno sentire il legame con la Chiesa di Roma.
La sua bontà, il suo amore anche per i nemici, colpiva non poco le guardie. Chiese una volta a una guardia il permesso di tagliare un pezzetto di legno a forma di croce. E quello lo accontentò. In un'altra prigione chiese alla guardia un pezzo di filo elettrico. Temendo che volesse suicidarsi, l'agente si spaventò. Ma Van Thuân gli spiegò che voleva fare semplicemente una catenella per portare la sua croce. Dopo tre giorni la guardia ricomparve con un paio di pinze e insieme composero una catenella. Da quella croce e da quella catena Van Thuân non si separò più. Le portò sempre al collo, anche dopo la sua liberazione, avvenuta il 21 novembre 1988. E anche dopo il suo esilio forzato a Roma, nel 1991, e la sua nomina a cardinale, nel 2001. E sempre con quella povera croce sul petto è morto.
Ha il martirio nel suo dna: tutta la famiglia materna (ad eccezione del nonno, che in quel periodo è in Malesia) nel 1885 viene sterminata con l’incendio del villaggio, dato alle fiamme perché abitato da cristiani, mentre per linea paterna innumerevoli sono i perseguitati e gli uccisi per la fede tra il 1668 ed il 1885. La loro memoria è tenuta viva in famiglia, li si rievoca quando son seduti per la preghiera della sera attorno a nonna, che non li lascia mai andare a letto senza aver fatto recitare loro il rosario per i sacerdoti.
Non è quindi un caso che quando anch’egli sarà imprigionato per la fede, sua madre faccia pregare per lui ogni sera: non per chiedere la sua liberazione, ma piuttosto perché resti sempre fedele alla Chiesa e perchè impari a perdonare i suoi persecutori. È abbastanza normale, dunque, che in una famiglia così nasca, cresca e si formi cristianamente un personaggio che noi oggi conosciamo come il cardinale François Xavier Nguyên Van Thuân.
Nato a Huê il 17 aprile 1928, entra in seminario a 13 anni e diventa sacerdote l’11 giugno 1953. Dopo essersi laureto a Roma in Diritto Canonico nel 1959, ritorna in Viet Nam a fare il professore, il rettore del seminario e il vicario generale della diocesi di Huê. Nel 1967, ad appena 39 anni, viene eletto vescovo titolare della diocesi della diocesi di Nha Trang.
I suoi guai iniziano nel 1975, dopo la nomina a vescovo di Saigon: incarcerato dai Viet Kong, resterà in cella per 13 anni, nove dei quali in isolamento, senza un processo, senza un giudizio, senza una condanna. Entrato da uomo libero nel palazzo presidenziale nel primo pomeriggio del 15 agosto 1975, ne esce alcune ore dopo come detenuto sotto scorta, senza ricambi o effetti personali.
Nei giorni successivi può chiedere un cambio di biancheria e medicine per il “mal di stomaco”, che i suoi fedeli capiscono subito nel significato recondito, fornendogli una bottiglietta di vino e ostie per la celebrazione dell’Eucaristia. Con alcune gocce di vino, tenute nel palmo della mano, e con i frammenti di ostie, ogni giorno può celebrare messa: naturalmente a memoria, perché non può tenere con sé libri e tantomeno messali.
Da sotto la zanzariera riesce a dare la comunione ai cinque cattolici che dall’esterno hanno partecipato alla celebrazione cercando di dare nell’occhio il meno possibile. I frammenti consacrati residui sono poi conservati in un pacchetto di sigarette, che, secondo le necessità, funziona egregiamente da tabernacolo, pisside, teca per la comunione ai malati e addirittura da ostensorio, davanti al quale gruppetti di detenuti si radunano per l’adorazione.
Riesce a comunicare con l’esterno grazie ad un bambino di 7 anni, che gli procura in carcere carta e matita e che poi con aria innocente riesce a far passare sotto il naso dei burberi carcerieri i messaggi del vescovo prigioniero alla sua comunità. A casa il bambino può contare sulla complicità di fratelli più grandi di lui, che prontamente li ricopiano e li diffondono: in questa maniera avventurosa nascono i libri del vescovo (tradotti poi anche in italiano), il cui tema dominante è la speranza.
Le autorità lo temono, perché parla di amore e perdono e rischia di “contaminare” le guardie; arrivano al punto di sostituire il picchetto ogni due settimane, ma alla fine devono arrendersi, perché quest’uomo, disarmato e impotente, con la sua sola presenza e con la sua testimonianza, risulta estremamente contagioso.
Nei duri anni di completo isolamento, oltre alla messa, non ha altra consolazione che rileggere le 300 frasi del vangelo, imparate a memoria e trascritte su pezzetti di carta e che porta sempre con sé, insieme a due puzzolenti pagine dell’Osservatore Romano, utilizzate per incartare un pesce ricevuto in dono, ma che a lui fanno sentire il legame con la Chiesa di Roma.
La sua bontà, il suo amore anche per i nemici, colpiva non poco le guardie. Chiese una volta a una guardia il permesso di tagliare un pezzetto di legno a forma di croce. E quello lo accontentò. In un'altra prigione chiese alla guardia un pezzo di filo elettrico. Temendo che volesse suicidarsi, l'agente si spaventò. Ma Van Thuân gli spiegò che voleva fare semplicemente una catenella per portare la sua croce. Dopo tre giorni la guardia ricomparve con un paio di pinze e insieme composero una catenella. Da quella croce e da quella catena Van Thuân non si separò più. Le portò sempre al collo, anche dopo la sua liberazione, avvenuta il 21 novembre 1988. E anche dopo il suo esilio forzato a Roma, nel 1991, e la sua nomina a cardinale, nel 2001. E sempre con quella povera croce sul petto è morto.
Liberato il 21 novembre 1988 ed espulso dal suo
paese, si trasferisce a Roma nel 1991, quando cioè ha la certezza di non poter
più rientrare in Viet Nam. Giovanni Paolo II gli affida la presidenza del
Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, lo chiama nel 2000 a predicare gli
esercizi spirituali alla Curia Romana e nel 2001, infine lo crea Cardinale.
Muore il 16 settembre 2002, dopo lunghe sofferenze per una rara forma di cancro. «Sogno una Chiesa che abbia nel cuore il fuoco dello Spirito Santo, e dove c'è lo Spirito c'è libertà, dialogo sincero con il mondo e specialmente con i giovani, con i poveri e con gli emarginati», aveva detto un giorno. Chi l’ha conosciuto sostiene che in lui questo fuoco ardeva sempre. Per questo, già dal 2007, è iniziato il processo per la sua beatificazione. L’eroicità delle sue virtù cristiane è stata riconosciuta nel maggio 2017.
Muore il 16 settembre 2002, dopo lunghe sofferenze per una rara forma di cancro. «Sogno una Chiesa che abbia nel cuore il fuoco dello Spirito Santo, e dove c'è lo Spirito c'è libertà, dialogo sincero con il mondo e specialmente con i giovani, con i poveri e con gli emarginati», aveva detto un giorno. Chi l’ha conosciuto sostiene che in lui questo fuoco ardeva sempre. Per questo, già dal 2007, è iniziato il processo per la sua beatificazione. L’eroicità delle sue virtù cristiane è stata riconosciuta nel maggio 2017.
[3] Giovanni Paolo II, Novo
Millennio Ineunte, 43
[4] Benedetto XVI, Catechesi per l’udienza del 29 marzo 2006.
[5] K.
Rahner, Elementi di spiritualità
nella Chiesa del futuro, in Problemi e prospettive di spiritualità, a
cura di T. Goffi – B. Secondin, Queriniana, Brescia 1983, pp. 440-441.
[6] J. Tillard, Davanti
a Dio e per il mondo, ed. Paoline, Roma 1975, p.207.
[7] Da “Vite di Santi
in breve” di P. Antonio Maria Sicari,
Ed. Jaca Book, Milano 2004:
“«Ebrea, filosofa, carmelitana, martire», è conosciuta come Edith e anche come suor Teresa Benedetta della Croce. Nata a Breslavia (allora Germania, oggi Polonia) ne11891, morta ad Auschwitz nel 1942, canonizzata da Giovanni Paolo II nel 1998, proclamata co-patrona d’Europa nel 1999, è un po’ la donna-simbolo della fine del secondo millennio. «Sono tedesca ed ebrea», scriveva presentandosi all’Università. A quell’età si professava già atea. Precisò però più tardi: «La ricerca della verità era la mia preghiera». E anche: «Chi cerca la verità, lo sappia o no, cerca Dio». Sua madre era molto religiosa, mentre il resto dei familiari non lo era per niente. Sfidando le opinioni antifemministe del suo tempo, studiò psicologia, letteratura e soprattutto filosofia all’Università di Breslavia, di Gottinga e di Friburgo in Brisgovia. Seguì in particolare il «maestro» Edmund Husserl e la corrente fenomenologica. Nell’estate 1921, dopo aver ammirato la fede cristiana di un’ amica protestante rimasta vedova, si convertì al cattolicesimo leggendo la Vita di santa Teresa d’ Avila e riconoscendo al termine della lettura: «Qui è la verità!». Battezzata nel 1922, pensò subito alla vita claustrale carmelitana, ma fu trattenuta dai suoi padri spirituali perché con la sua cultura poteva giovare molto alla Chiesa nel mondo. Per un decennio insegnò in una scuola di Domenicane a Spira, non rinunciando a comporre anche testi di alta filosofia. Nel 1932 diede un corso universitario all’Istituto di Pedagogia di Munster. Tenne varie conferenze in patria e fuori (era poliglotta); parlò più volte alla radio e incontrò grandi filosofi come Maritain. Si dedicò ai grandi temi della dignità della donna e della vita di fede nella realtà quotidiana dei laici. Ne1 1933, salito Hitler al potere, dovette lasciare l’insegnamento. Entrò allora nel monastero di Colonia, dove si nascose al mondo. Sua forza spirituale erano l’Eucaristia, la Croce e l’osservanza più umile e attenta della Regola. Dopo la professione perpetua nell’aprile 1938, nel dicembre di quell’anno, a causa delle persecuzioni razziali, lasciò nascostamente il Carmelo di Colonia e si portò in quello di Echt in Olanda. Continuò gli studi suoi propri, componendo Essere finito ed Essere eterno e la notissima Scientia Crucis. Il 2 agosto 1942 fu prelevata dai nazisti, insieme alla sorella Rosa, dal monastero e finì nel Lager di Auschwitz, dove morì nelle camere a gas il 9 agosto seguente. I suoi testi, e soprattutto la sua santità di vita, sono un monumento della fede cristiana in un cuore che ha saputo recuperare le più autentiche radici dell’ebraismo”.