Gaudete et exultate: materiale per una conferenza sul 1* capitolo dell'esortazione sulla Santità


Sabato terrò una conferenza alle suore della Compassione. Questo è il materiale che utilizzerò per presentare il primo capitolo dell'Esortazione di Papa Francesco sulla Santità:


Dalla CATECHESI DEL CARD. VICARIO ANGELO DE DONATIS SULL’ESORTAZIONE APOSTOLICA “GAUDETE ET EXSULTATE” BASILICA DI SAN GIOVANNI IN LATERANO - 8 OTTOBRE 2018 con aggiunte personali.

Preghiera allo Spirito Santo del santo Papa Paolo VI

Vieni, o Spirito Santo
e donami un cuore puro,
pronto ad amare Cristo Signore
con la pienezza, la profondità e la gioia
che tu solo sai infondere.
Donami un cuore puro,
come quello di un fanciullo
che non conosce il male
se non per combatterla e fuggirlo.
Vieni, o Spirito Santo
e donami un cuore grande,
aperto alla tua parola ispiratrice
e chiuso ad ogni meschina ambizione.
Donami un cuore grande e forte
capace di amare tutti,
deciso a sostenere per loro
ogni prova, noia e stanchezza,
ogni delusione e offesa.
Donami un cuore grande,
forte e costante fino al sacrificio,
felice solo di palpitare con il cuore di Cristo
e di compiere umilmente, fedelmente
e coraggiosamente la volontà di Dio.
Amen.

Papa Francesco ha donato alla chiesa universale un’esortazione apostolica, la terza dopo Evangelii gaudium (2013) e Amoris lætitia (2016), sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. Questa esortazione porta significativamente il titolo Gaudete et exsultate, dunque è un invito alla gioia e all’esultanza rivolto a tutti i cristiani. Anche solo in questo titolo risuona un’urgenza evangelica alla quale Papa Francesco è molto attento, perché la ritiene decisiva nella vita dei discepoli di Gesù: l’urgenza della gioia, che è gioia del Vangelo, letizia dell’amore, esperienza gioiosa della comunione con il Signore Gesù.
Conosciamo i rimproveri rivolti a noi cristiani in particolare da Friedrich Nietzsche all’inizio del secolo scorso, sul nostro volto che sovente appare triste, stanco, depresso, astenico e addirittura cinico. Siamo schiacciati dal peso dei precetti, in profonda contraddizione con il messaggio del Vangelo che è “buona notizia”, annuncio che dovrebbe destare gioia ed esultanza: la gioia che nasce da un incontro che dà senso all’esistenza; la gioia della scoperta di un tesoro incalcolabile; la gioia della liberazione, della pienezza di vita che il Signore offre a chi accoglie il suo amore, che mai deve essere meritato. I cristiani dimenticano purtroppo che la gioia è un comando apostolico, rivolto da Paolo alla chiesa: «Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi!» (Filippesi 4, 4). Dimenticano che la gioia è un esercizio da compiersi nella lotta contro l’acedia, contro la tristezza mondana; che la gioia è una confessio laudis che canta l’azione di Dio in noi e nella storia; che la gioia è il dono del Risorto che niente e nessuno può rubare (cfr. Giovanni 15, 11; 16, 20-22). È significativo che già Paolo VI aveva avuto l’audacia di scrivere un’esortazione apostolica intitolata Gaudete in Domino (1975), chiedendo ai cristiani che la loro vita fosse capace di mostrare la gioia della fede, della speranza e dell’amore che abitano nei loro cuori[1].
Perché Papa Francesco ha scritto un'Esortazione apostolica sulla santità?
Non credo che sfugga a nessuno di noi che parlare oggi di "chiamata alla santità" rappresenta una sfida. "Santità" è una parola desueta, lontana dal linguaggio comune. ln genere anche noi cristiani non la usiamo, non diciamo tanto (come nel passato) frasi come "il mio scopo nella vita è diventare santo".
E’ come se ci fosse appiattiti su un benessere umano, accontentandoci di stare meglio possibile qui, sentendo sempre più vaga e lontana la promessa della vita eterna.
Eppure Il concilio Vaticano Il aveva fatto dell'universale chiamata alla santità uno dei punti più qualificanti del suo insegnamento, ribadendo che tale chiamata è rivolta a tutti:
"muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste" (LG 1)
Per questo Papa Francesco ha deciso di regalarci questa Esortazione: ha voluto mostrare l'attualità perenne della santità cristiana, presentandone il contenuto, così come è narrato dalla Scrittura (ad esempio nelle beatitudini), in modo da poterla proporre a tutti come meta desiderabile del proprio cammino umano. Papa Francesco sintetizza così: la santità è "la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati" (GeE1). Il contrario della santità non è soltanto una vita nel peccato, ma è prima di tutto "l'accontentarsi di un'esistenza mediocre, annacquata e inconsistente" (GeE1). Essere cristiani significa ricevere da Dio il dono di una vita bella, ricca di senso, piena di gusto, mettersi in un cammino che renda "più vivi e più umani" (GeE32). Contro il male di vivere o l'accettazione (falsamente pacificata) del non senso della realtà per limitarsi ad abitare il proprio frammento di esistenza, Dio offre un cammino di santità, coraggioso e umanizzante, da vivere nella sequela di Cristo e nella rete delle relazioni con gli altri. Dio è il tre volte Santo, e riversa sugli uomini la sua stessa vita divina: "Siate santi, perché io il Signore, sono santo" (LV 1 1 ,44), trasfigurando l'esistenza dell'uomo e rendendola sempre più ad immagine e somiglianza di quella del Signore Risorto.
È evidente che Papa Francesco con questa Esortazione vuole puntare l'attenzione su ciò che è decisivo ed essenziale nella vita cristiana e aiutarci a tenere ben largo il nostro sguardo, contro la tentazione di ridurre la visuale o di perdere l'orizzonte, di accontentarci di "vivacchiare". L'appartenenza al Signore Gesù e alla Chiesa si dissolve e si svuota di senso se non tiene ben dritta la direzione del cammino nella traiettoria della santità e fatalmente scade nella ricerca di "altro", di ciò che è funzionale al proprio "io" e che nulla ha a che fare con la costruzione del regno di Dio.
Quindi la finalità dell'Esortazione non è di offrire "un trattato sulla santità, con tante definizioni e distinzioni", "il mio umile obiettivo", scrive Papa Francesco, "è far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità" (GeE2).
In tutto questo discorso mi risuona una nota preghiera di don Tonino Bello:
DAMMI, SIGNORE, UN’ALA DI RISERVA!
Voglio ringraziarti Signore,
per il dono della vita;
ho letto da qualche parte
che gli uomini hanno un’ala soltanto:
possono volare solo rimanendo abbracciati.
A volte, nei momenti di confidenza,
oso pensare, Signore,
che tu abbia un’ala soltanto,
l’altra la tieni nascosta,
forse per farmi capire
che tu non vuoi volare senza di me;
per questo mi hai dato la vita:
Perché io fossi tuo compagno di volo,
insegnami, allora, a librarmi con Te.
Perché vivere non è trascinare la vita,
non è strapparla, non è rosicchiarla,
vivere è abbandonarsi come un gabbiano
all’ebbrezza del vento,
vivere è assaporare l’avventura della libertà,
vivere è stendere l’ala, l’unica ala,
con la fiducia di chi sa di avere nel volo
un partner grande come Te.
Ma non basta saper volare con Te, Signore,
tu mi hai dato il compito di abbracciare anche il fratello
e aiutarlo a volare.
Ti chiedo perdono, perciò,
per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi,
non farmi più passare indifferente
vicino al fratello che è rimasto con l’ala, l’unica ala,
inesorabilmente impigliata nella rete della miseria e della solitudine
e si è ormai persuaso
di non essere più degno di volare con Te.
Soprattutto per questo fratello sfortunato dammi, o Signore,
un’ala di riserva.

La santità della porta accanto
Prima di tutto il Papa vuole dirci che la santità non è un'altra cosa rispetto alla vita che facciamo tutti i giorni, ma è esattamente questa stessa nostra esistenza ordinaria vissuta in maniera straordinaria, perché resa bella dalla grazia di Dio, dall'azione dello Spirito Santo ricevuto nel battesimo. Il frutto dello Spirito è infatti una vita vissuta nella gioia e nell'amore, e in questo consiste la santità.
Non ci sono condizioni particolari: la santità non è appannaggio di chi vive dedicando molto tempo alla preghiera o allo studio teologico o esercitando un particolare ministero nella Chiesa, ma è quella vita nuova che per dono di Dio è concretamente possibile a tutti, "nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove ciascuno si trova" (GeE14). Francesco ricorda le parole del Cardinale vietnamita Van Thuan, nei lunghi giorni del carcere: non passo il tempo ad aspettare di essere liberato dal carcere, ma "vivo il momento presente, colmandolo di amore" (GeE17)[2].
Il Papa fa volutamente esempi di santità prendendoli dalla vita ordinaria: "i genitori che crescono con tanto amore i figli, gli uomini e le donne che lavorano per portare il pane a casa, i malati, le religiose anziane che continuano a sorridere"(GeE7). Sono i santi "della porta accanto", o "la classe media della santità" (titolo di un libro di Joseph Malegue) (GeE7).
Per questo, Papa Francesco ad un certo punto cambia stile e si rivolge direttamente al suo interlocutore, a chi lo sta leggendo, per dirgli che la santità, cioè la vita vera e felice, è davvero possibile anche a te:
"Lascia che la grazia del tuo battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare perché hai la forza dello Spirito Santo affinché sia possibile e la santità in fondo è il frutto dello Spirito nella tua vita" (GeE15; ma il tu comincia anche al numero 10,14, ecc). Il Concilio, nel brano già citato di LG I, diceva: tutti sono chiamati, "ognuno per la sua via". Non si tratta di copiare le opere dei santi, perché in definitiva ognuno ha la sua vita e il suo posto nel mondo; si tratta invece, "sotto l'impulso della grazia di Dio, di costruire con tanti gesti quella figura di santità che Dio ha voluto per noi" (GeE18). Anche se la mia vita fosse sprofondata nel peccato o nel fallimento, la chiamata alla santità mi raggiunge dove sono per donarmi una ripartenza e una possibilità di riscatto.
La santità come partecipazione alla santità del popolo di Dio
La santità non è possibile da soli. L'individualismo e la pretesa di autosufficienza non portano alla vera vita. Abbiamo bisogno degli altri, abbiamo necessità di sentire che la nostra vita è inserita in quella del Popolo di Dio, nel quale lo Spirito di Dio riversa la sua santità.
Questo vale ancor più per noi che abbiamo seguito la chiamata di vivere in una comunità proprio per aiutarci a farci santi insieme, reciprocamente custodirci e stimolarci, anche attraverso le difficoltà che l’altro mi causa con il suo carattere e il suo modo diverso di vedere la vita (religiosa). Così mette alla prova (e rinforza) la pazienza: 
ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,3-5).
Non è tuttavia sufficiente la Comunità Religiosa: questa deve essere sempre aperta al popolo di Dio, alla Chiesa locale ed universale, agli ultimi che bussano e disturbano la nostra quiete, ma accogliendo i quali, accogliamo Dio stesso che si identifica in loro.
Dio non ci salva da soli, ma come Lui si è voluto rivelare entrando nella storia di un popolo, in "una dinamica popolare", scrive il Papa (GeE6), così anche il nostro percorso di avvicinamento al Signore e di crescita nella fede è possibile solo dentro "la complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana" (GeE7). Francesco cita qui l'omelia per l'inizio del ministero petrino di Papa Benedetto: "Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo": il santo Popolo di Dio "mi sostiene, mi sorregge e mi porta".
C’è qui da fare una lunga parentesi su quella che è stata chiamata dal Santo Papa Giovanni Paolo II, la spiritualità o ecclesiologia di comunione. Si tratta ciòè, dice Giovanni Paolo II, di far nascere e crescere una capacità di sentire il fratello nella fede (anche il fratello con il quale la comunione non è piena) come un appartenente al corpo di Cristo, un mio fratello, con cui deve esserci conoscenza reciproca e condivisione. Nello spazio cristiano, infatti, l’altro non è “l’inferno” (come affermava Sartre), ma è “dono di Dio”, “dono per me”; è ciò che mi manca e che mi rivela la mia insufficienza. 
Non è possibile essere cristiani e non solo non volere l’unità, ma non fare tutto ciò che è possibile per la comunione. Chi agisce e vive per la comunione con Cristo non può, simultaneamente, non agire e non vivere per la riconciliazione e la comunione con i suoi fratelli, membra del suo stesso corpo. 
La comunione è ricerca di unità nel rispetto delle differenze (unità nella distinzione), in una pluralità di forme che si vanno armonizzando in una comune ricerca di bene e in una condivisione che mi fa sentire l’altro parte di me. La condizione più importante della diversità è che essa non distrugga l’unità, che prevalga la carità, che si cerchi, su tutti e su tutto, la regalità di Cristo. Si riconoscono carismi differenti a condizione che siano finalizzati al bene comune, a costruire e non a distruggere.
Giovanni Paolo II ha parlato della “spiritualità della comunione” come del fattore caratterizzante il nuovo millennio: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia(…). Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione[3].
Secondo Benedetto XVI “La ‘comunione’ è il rimedio donatoci dal Signore contro la solitudine che oggi minaccia tutti, è la luce che fa risplendere la Chiesa come segno innalzato fra i popoli[4]. Karl Rahner afferma:
Noi anziani siamo stati spiritualmente degli individualisti, data la nostra provenienza e la nostra formazione(…). Io penso che in una spiritualità del futuro l’elemento della comunione spirituale fraterna, di una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinante, e che lentamente ma decisamente si debba proseguire lungo questa strada[5].
La spiritualità di comunione ci apre ad una santità di popolo in cui ciascuno desidera la santità dell’altro come la propria e ci si aiuta reciprocamente ad essere sempre nella carità che è il vincolo della perfezione.  Nota Tillard: “Nuove forme di “comunità cristiane”, nate ordinariamente non da iniziative gerarchiche, ma dalla creatività “della base”, germinano un po’ dappertutto”[6].
Nei primi secoli del cristianesimo si pensava che per arrivare all’unione con Dio si dovessero dire preghiere, fare penitenze, digiuni, rinunzie, fuggire dai fratelli; tutte cose che la singola persona compiva da sola come se il fratello non esistesse. Poi, il fratello, è diventato oggetto di carità, di opere di misericordia, di elemosina. Lo Spirito ci spinge oggi verso la comunione: il fratello non è più un ostacolo, o solo oggetto di carità, ma diviene la strada privilegiata per trovare Dio, per vivere l’unione con Dio.
Già nell’antico testamento i profeti alzavano la loro voce perché il popolo non riducesse il rapporto con Dio alle pratiche liturgiche. Esse sarebbero diventate una scusa per credersi a posto, mentre l'essenza della religione doveva portare all'amore del prossimo: "Voglio l'amore e non il sacrificio" (Os. 6.6) diceva Dio per bocca di Osea. 
Il Concilio, i Papi, i teologi, tutti spingono ormai ad approfondire la dimensione del rapporto con i fratelli, con tutti gli uomini, per divenire sempre di più una famiglia, una comunità. Dunque la conversione che dobbiamo fare è rovesciare la visione del fratello: da oggetto di attenzioni, di atti di carità, diviene il primo benefattore perché ci permette di entrare subito nella carità, nel regno dei cieli. Scrive s. Giovanni: “Siamo passati dalla morte alla vita perché abbiamo amato i fratelli”.(1Gv 4)
Nella Chiesa trovo la testimonianza degli altri, dei santi canonizzati, delle persone più umili, di chi "con costanza va avanti giorno dopo giorno" (GeE7); nella Chiesa "trovi tutto ciò di cui hai bisogno per crescere verso la santità: la Parola, i Sacramenti, i santuari, la vita della comunità, la testimonianza dei santi, e una multiforme bellezza che procede dall'amore del Signore" (GeE15).
Nel Popolo di Dio è presente uno stile maschile e uno femminile di vivere la santità, tutti e due "indispensabili per riflettere la santità di Dio in questo mondo" (GeE12). Papa Francesco ricorda il "genio della santità al femminile" e le figure di alcune grandi sante: santa Ildegarda di Bingen, santa Brigida, santa Caterina da Siena, santa Teresa d'Avila o Santa Teresa di Lisieux, ma soprattutto, come è nel suo stile, vuole richiamarci alla memoria quelle figure di donne sante che hanno segnato la nostra vita personale: madri, nonne, "donne sconosciute o dimenticate le quali, ciascuna a modo suo, hanno sostenuto e trasformato famiglie e comunità con la forza della loro testimonianza".
E ancora: il Papa aggiunge che fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti, lo Spirito suscita "segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo" (GeE9, citando Novo millennio ineunte). Ricorda che il martirio ha un significato ecumenico altissimo, perché i cristiani sono stati perseguitati e uccisi indipendentemente dalla loro appartenenza ad una confessione cristiana specifica, ma a motivo della sola testimonianza resa a Cristo.
Come si comprende, la spiritualità cristiana è essenzialmente comunitaria, ecclesiale, profondamente diversa e lontana da una visione elitaria o di eroismo individuale della santità.
Se guardiamo al cammino della storia umana, in realtà, noi vediamo che la santità è quella corrente misteriosa e nascosta attraverso la quale è Dio stesso che guida le vicende umane. La comunione dei santi fa sì che la santità di ciascuno porti frutto nella vita degli altri e nel cammino di tutti. Francesco ricorda santa Teresa Benedetta della Croce[7]:
Nella notte più oscura sorgono i più grandi profeti e i santi. Tuttavia, la corrente vivificante della vita mistica rimane invisibile. Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato”.
La sorgente e la meta della santità
La sorgente da cui scaturisce la santità è il Signore Gesù, la meta a cui tende è la storia umana, la trasformazione della storia nel regno di Dio. Questo è un punto centrale. Scrive il Papa che ogni uomo che viene in questo mondo ha "bisogno di concepire la totalità della sua vita come una missione" (GeE23). Quando mi chiedo: "perché sono nato? Perché vivo e a che serve la mia vita? Qual' è il mio contributo alla crescita di questo mondo?", mi sto interrogando su quale sia la mia missione. Ebbene, "ogni santo è una missione" (GeE19) cioè è uno inviato dal Padre per incarnare e rendere presente Cristo, l'uomo nuovo, nel mondo. Gesù è infatti la sorgente di ogni santità: lo Spirito Santo non fa altro che riprodurre oggi, in noi, i lineamenti del volto di Cristo. Però, ciascuno in un modo diverso: ci sono santi che riproducono la sua vita nascosta a Nazareth, altri la sua vicinanza agli ultimi; gli sposi divengono sacramento di Cristo sposo, i presbiteri sacramento del Cristo buon pastore... "Contemplare i misteri della vita di Cristo ci orienta a renderli carne nelle nostre scelte e nei nostri atteggiamenti" (GeE20).
Dall'altra parte Cristo è stato inviato per il Regno, per questo dice Francesco, sempre rivolgendosi a ciascuno di noi suoi lettori, anche tu "non ti santificherai senza consegnarti anima e corpo per dare il meglio di te in questo impegno" della costruzione del regno (GeE25). La santità cristiana non aliena dall'impegno per la storia umana, anzi! I santi sono pericolosi rivoluzionari, perché sono decisi a giocarsi totalmente per la missione affidatagli dal Padre. Sanno che chi perde la vita per il regno, la trova, come Gesù. Come Francesco aveva ribadito in Evangelii Gaudium (nn 87-92) dalla spiritualità cristiana non si può togliere l'incarnazione e la croce, magari per "ritagliarsi" un Dio del benessere personale e della prosperità economica, distaccato dalle vicende umane, dalla carne dolorante dei suoi figli. Non c'è santità cristiana lì dove la spiritualità prescinde dalla storia, e in nome di una comunione vaga, magari con "energie armonizzanti", dimentica la comunione con gli altri esseri umani e la ricerca del volto dell'altro, dimentica la fraternità e la rivoluzione della tenerezza.
A noi è affidato il compito di accogliere questa chiamata alla santità, fatta di imitazione di Gesù e impegno con Lui per la trasformazione della storia umana. "Voglia il cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita" (GeE24)
La santità integra tutto l'uomo
Questa proposta di vita che è la santità cristiana tende gradualmente a conformare l'uomo a Cristo unificando e integrando la sua vita. Preghiera e azione nel mondo, tempi di silenzio e tempi di servizio, vita familiare e impegno del lavoro, "tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo ed entra a far parte del cammino di santificazione" (GeE26).
La ricerca di momenti di solitudine e di silenzio, staccando dalla corsa febbrile di cui è fatta la nostra vita, è in funzione di questa unificazione interiore sotto lo sguardo di Dio. ln questo spazio personale, a contatto finalmente con la verità di noi stessi, potremo vivere un dialogo sincero con il Signore e farci invadere da Lui. "Non avere paura di puntare più in alto, di lasciarti amare e liberare da Dio. Non aver paura di lasciarti guidare dallo Spirito Santo. La santità non ti rende meno umano perché è l'incontro della tua debolezza con la forza della sua grazia" (GeE 34).

ESORTAZIONE APOSTOLICA GAUDETE ET EXSULTATE DEL SANTO PADRE FRANCESCO
SULLA CHIAMATA ALLA SANTITÀ NEL MONDO CONTEMPORANEO

INDICE 
Controcorrente [65-66]



[1] E. Bianchi, L’urgenza della gioia in L’Osservatore Romano, 28.05.2018
[2]  Il cardinale vietnamita François Xavier Nguyên Van Thuân, presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace è morto a Roma il 16 settembre 2002 a 74 anni.
Ha il martirio nel suo dna: tutta la famiglia materna (ad eccezione del nonno, che in quel periodo è in Malesia) nel 1885 viene sterminata con l’incendio del villaggio, dato alle fiamme perché abitato da cristiani, mentre per linea paterna innumerevoli sono i perseguitati e gli uccisi per la fede tra il 1668 ed il 1885. La loro memoria è tenuta viva in famiglia, li si rievoca quando son seduti per la preghiera della sera attorno a nonna, che non li lascia mai andare a letto senza aver fatto recitare loro il rosario per i sacerdoti. 
Non è quindi un caso che quando anch’egli sarà imprigionato per la fede, sua madre faccia pregare per lui ogni sera: non per chiedere la sua liberazione, ma piuttosto perché resti sempre fedele alla Chiesa e perchè impari a perdonare i suoi persecutori. È abbastanza normale, dunque, che in una famiglia così nasca, cresca e si formi cristianamente un personaggio che noi oggi conosciamo come il cardinale François Xavier Nguyên Van Thuân.
Nato a Huê il 17 aprile 1928, entra in seminario a 13 anni e diventa sacerdote l’11 giugno 1953. Dopo essersi laureto a Roma in Diritto Canonico nel 1959, ritorna in Viet Nam a fare il professore, il rettore del seminario e il vicario generale della diocesi di Huê. Nel 1967, ad appena 39 anni, viene eletto vescovo titolare della diocesi della diocesi di Nha Trang.
I suoi guai iniziano nel 1975, dopo la nomina a vescovo di Saigon: incarcerato dai Viet Kong, resterà in cella per 13 anni, nove dei quali in isolamento, senza un processo, senza un giudizio, senza una condanna. Entrato da uomo libero nel palazzo presidenziale nel primo pomeriggio del 15 agosto 1975, ne esce alcune ore dopo come detenuto sotto scorta, senza ricambi o effetti personali.
Nei giorni successivi può chiedere un cambio di biancheria e medicine per il “mal di stomaco”, che i suoi fedeli capiscono subito nel significato recondito, fornendogli una bottiglietta di vino e ostie per la celebrazione dell’Eucaristia. Con alcune gocce di vino, tenute nel palmo della mano, e con i frammenti di ostie, ogni giorno può celebrare messa: naturalmente a memoria, perché non può tenere con sé libri e tantomeno messali. 
Da sotto la zanzariera riesce a dare la comunione ai cinque cattolici che dall’esterno hanno partecipato alla celebrazione cercando di dare nell’occhio il meno possibile. I frammenti consacrati residui sono poi conservati in un pacchetto di sigarette, che, secondo le necessità, funziona egregiamente da tabernacolo, pisside, teca per la comunione ai malati e addirittura da ostensorio, davanti al quale gruppetti di detenuti si radunano per l’adorazione. 
Riesce a comunicare con l’esterno grazie ad un bambino di 7 anni, che gli procura in carcere carta e matita e che poi con aria innocente riesce a far passare sotto il naso dei burberi carcerieri i messaggi del vescovo prigioniero alla sua comunità. A casa il bambino può contare sulla complicità di fratelli più grandi di lui, che prontamente li ricopiano e li diffondono: in questa maniera avventurosa nascono i libri del vescovo (tradotti poi anche in italiano), il cui tema dominante è la speranza.
Le autorità lo temono, perché parla di amore e perdono e rischia di “contaminare” le guardie; arrivano al punto di sostituire il picchetto ogni due settimane, ma alla fine devono arrendersi, perché quest’uomo, disarmato e impotente, con la sua sola presenza e con la sua testimonianza, risulta estremamente contagioso.
Nei duri anni di completo isolamento, oltre alla messa, non ha altra consolazione che rileggere le 300 frasi del vangelo, imparate a memoria e trascritte su pezzetti di carta e che porta sempre con sé, insieme a due puzzolenti pagine dell’Osservatore Romano, utilizzate per incartare un pesce ricevuto in dono, ma che a lui fanno sentire il legame con la Chiesa di Roma.
La sua bontà, il suo amore anche per i nemici, colpiva non poco le guardie. Chiese una volta a una guardia il permesso di tagliare un pezzetto di legno a forma di croce. E quello lo accontentò. In un'altra prigione chiese alla guardia un pezzo di filo elettrico. Temendo che volesse suicidarsi, l'agente si spaventò. Ma Van Thuân gli spiegò che voleva fare semplicemente una catenella per portare la sua croce. Dopo tre giorni la guardia ricomparve con un paio di pinze e insieme composero una catenella. Da quella croce e da quella catena Van Thuân non si separò più. Le portò sempre al collo, anche dopo la sua liberazione, avvenuta il 21 novembre 1988. E anche dopo il suo esilio forzato a Roma, nel 1991, e la sua nomina a cardinale, nel 2001. E sempre con quella povera croce sul petto è morto.
Liberato il 21 novembre 1988 ed espulso dal suo paese, si trasferisce a Roma nel 1991, quando cioè ha la certezza di non poter più rientrare in Viet Nam. Giovanni Paolo II gli affida la presidenza del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, lo chiama nel 2000 a predicare gli esercizi spirituali alla Curia Romana e nel 2001, infine lo crea Cardinale.
Muore il 16 settembre 2002, dopo lunghe sofferenze per una rara forma di cancro. «Sogno una Chiesa che abbia nel cuore il fuoco dello Spirito Santo, e dove c'è lo Spirito c'è libertà, dialogo sincero con il mondo e specialmente con i giovani, con i poveri e con gli emarginati», aveva detto un giorno. Chi l’ha conosciuto sostiene che in lui questo fuoco ardeva sempre. Per questo, già dal 2007, è iniziato il processo per la sua beatificazione. L’eroicità delle sue virtù cristiane è stata riconosciuta nel maggio 2017.
[3] Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 43
[4] Benedetto XVI, Catechesi per l’udienza del 29 marzo 2006.
[5] K. Rahner, Elementi di spiritualità nella Chiesa del futuro, in Problemi e prospettive di spiritualità, a cura di T. Goffi – B. Secondin, Queriniana, Brescia 1983, pp. 440-441.
[6] J. Tillard, Davanti a Dio e per il mondo, ed. Paoline, Roma 1975, p.207.
[7] Da “Vite di Santi in breve” di P. Antonio Maria Sicari, Ed. Jaca Book, Milano 2004:
“«Ebrea, filosofa, carmelitana, martire», è conosciuta come Edith e anche come suor Teresa Benedetta della Croce. Nata a Breslavia (allora Germania, oggi Polonia) ne11891, morta ad Auschwitz nel 1942, canonizzata da Giovanni Paolo II nel 1998, proclamata co-patrona d’Europa nel 1999, è un po’ la donna-simbolo della fine del secondo millennio. «Sono tedesca ed ebrea», scriveva presentandosi all’Università. A quell’età si professava già atea. Precisò però più tardi: «La ricerca della verità era la mia preghiera». E anche: «Chi cerca la verità, lo sappia o no, cerca Dio». Sua madre era molto religiosa, mentre il resto dei familiari non lo era per niente. Sfidando le opinioni antifemministe del suo tempo, studiò psicologia, letteratura e soprattutto filosofia all’Università di Breslavia, di Gottinga e di Friburgo in Brisgovia. Seguì in particolare il «maestro» Edmund Husserl e la corrente fenomenologica. Nell’estate 1921, dopo aver ammirato la fede cristiana di un’ amica protestante rimasta vedova, si convertì al cattolicesimo leggendo la Vita di santa Teresa d’ Avila e riconoscendo al termine della lettura: «Qui è la verità!». Battezzata nel 1922, pensò subito alla vita claustrale carmelitana, ma fu trattenuta dai suoi padri spirituali perché con la sua cultura poteva giovare molto alla Chiesa nel mondo. Per un decennio insegnò in una scuola di Domenicane a Spira, non rinunciando a comporre anche testi di alta filosofia. Nel 1932 diede un corso universitario all’Istituto di Pedagogia di Munster. Tenne varie conferenze in patria e fuori (era poliglotta); parlò più volte alla radio e incontrò grandi filosofi come Maritain. Si dedicò ai grandi temi della dignità della donna e della vita di fede nella realtà quotidiana dei laici. Ne1 1933, salito Hitler al potere, dovette lasciare l’insegnamento. Entrò allora nel monastero di Colonia, dove si nascose al mondo. Sua forza spirituale erano l’Eucaristia, la Croce e l’osservanza più umile e attenta della Regola. Dopo la professione perpetua nell’aprile 1938, nel dicembre di quell’anno, a causa delle persecuzioni razziali, lasciò nascostamente il Carmelo di Colonia e si portò in quello di Echt in Olanda. Continuò gli studi suoi propri, componendo Essere finito ed Essere eterno e la notissima Scientia Crucis. Il 2 agosto 1942 fu prelevata dai nazisti, insieme alla sorella Rosa, dal monastero e finì nel Lager di Auschwitz, dove morì nelle camere a gas il 9 agosto seguente. I suoi testi, e soprattutto la sua santità di vita, sono un monumento della fede cristiana in un cuore che ha saputo recuperare le più autentiche radici dell’ebraismo”.

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