I figli dei figli del '68 a 50 anni di distanza


Il 50° anniversario della "rivoluzione" sessantottina è riletto attraverso due articoli interessanti: il primo, di Gianfranco Morra, mette in evidenza come i frutti del '68 siano i giovani attuali, meno arrabbiati, ma più disperati. Il secondo articolo, pubblicato su Settimana news, è 
la prima parte della relazione di Franco Garelli, docente di sociologia presso l’università di Torino, presentata il 19 maggio al Sisri (Scuola internazionale superiore per la ricerca interdisciplinare) di Roma. La scuola è legata alla Pontificia università della Santa Croce (Roma). Dopo un sommario bilancio di cosa è stato il ’68 e che cosa è rimasto di quel periodo, l’autore si sofferma in particolare sui riflessi che esso ha avuto nell’ambito della religione e della pratica religiosa.
Così Morra per Italia Oggi:
 L’inquietante crescita della criminalità giovanile, da Napoli a Torino, è un fenomeno complesso, dovuto a molte cause e condizioni. Essa tuttavia può essere capita meglio se riferita ad un evento, del quale quest’anno ricorre il cinquantenari: la contestazione giovanile del 1968.
In quell’anno, l’Italia viveva in un clima di ricostruzione e di benessere, raggiunti non senza duri sacrifici dall’intera popolazione. La sua morale era ancora quella tradizionale, liberale per le classi colte e cattolica per le masse popolari. Nel corso della sua storia, l’Italia non aveva mai avuto una rivoluzione culturale o sociale. Nel ’68 accolse il grido di rivolta di Parigi e Berkeley. Per la prima volta, esplose una rivoluzione, di tipo antropologico, che mirava a rifiutare il «perbenismo» della società cristiana e borghese per realizzare una convivenza fondata sul «niente proibito e tutto subito».
I partiti e i sindacati cercarono di gestirla e di servirsene, in realtà ne furono travolti. La parola d’ordine del movimento non era «creare una società più attiva ed efficiente», era di mandare «la fantasia al potere». Non fu una rivoluzione politica, ma antropologica. Freud ha battuto Marx, Prometeo è stato sconfitto da Orfeo e Narciso. E la rivoluzione fece fuori i tre vecchi e fastidiosi «padri».
Il padre fisico venne eliminato, visto che era un «padrone» o almeno un «padrino», che spadroneggiava in una famiglia repressiva e maschilista. Occorreva una «società senza padre», oramai era avvenuta la «morte della famiglia» (titoli di best-sellers dell’epoca). La politica e la legislazione si adattarono subito a questo antifamilismo, con leggi che hanno finito per distruggere, in nome del dialogo, ogni autorità familiare. Oggi nella maggioranza delle famiglie il colloquio è spento, anche perché gli strumenti social lo rendono difficile. Quella educazione che un tempo la famiglia dava, anche dove oggi non manca, si è fatta tenue e difficile. Non più comunità, la casa è diventata piuttosto un rifugio notturno.
Anche il padre culturale venne ghigliottinato: il maestro. Declassato a «compagnon» al quale si dà del tu, in una scuola ludica e fantasiosa, dove si poteva fare tutto, anche studiare. Purché non vi fossero né merito né selezione («voto di gruppo»). Era nata la scuola del pensiero «unico e vuoto»: che non trasmetteva più princìpi, valori e imperativi, ma indicava perentoriamente le cose alle quali occorreva opporsi (fascismo, razzismo, xenofobia, maschilismo, discriminazione, omofobia). Una scuola che insegnava ai giovani non ciò che dovevano, ma ciò che non dovevano essere: tu sei qualcuno fin che ti opponi possibilmente a tutto.
Il terzo padre si è estinto: «Dio è morto». La religione, la parrocchia, il catechismo facevano parte della educazione dei giovani. Dal ’68 essi scoprono come il Dio Padre fosse autoritario, maschilista e sessuofobo, aiutati in ciò da un clero in crisi di numero e di prestigio, che cerca di stare a galla assumendo e battezzando tutto l’armamentario della secolarizzazione anticristiana. Qualcuno lo attende ancora, ma Godot è scomparso senza lasciare traccia. Anche Gesù non è più Cristo, ma un Superstar che aiuta a superare le nevrosi o un Che Guevara della Palestina che lotta contro i poteri forti.
Nelle chiese non mancano i vecchi, anche se non sono più tanti, ma pochissimi sono i giovani. Il loro triangolo educativo (famiglia, scuola, religione) si è dunque dissolto nella nebulosa del tutto è possibile e niente è vietato. Senza che essi abbiano assunto i miti logorroici del politicamente corretto, che ignorano e anche deridono: l’antifascismo e la resistenza, la tolleranza e la società multietnica. Il ’68 ha veramente rivoluzionato la morale individuale e sociale. Si dirà che è accaduto dovunque. Ma altri paesi lo hanno frenato e anche cancellato. Mentre da noi è giunto, sino al culmine del 1977, alla P38. Tuttavia il terrorismo, per fortuna quasi scomparso, fu in fondo l’esito meno preoccupante della contestazione. Ben più negative le conseguenze antropologiche, ancora vive e diffusissime oggi, mezzo secolo dopo.
Di cui la delinquenza giovanile (accompagnata dalla tossicodipendenza) è una delle più gravi. La contestazione non è più «movimento», ma «istituzione», meno rabbia e più disperazione. Un riflusso, filantropico e pacifista, spompato e nichilista, non un superamento. I suoi «valori» sono immutati: individualismo, spoliticizzazione, rifiuto della famiglia e dei figli, disinteresse per il lavoro e la carriera, vita alla giornata.
Quelle che, con un termine eufemistico e giocoso, vengono chiamate «baby gang» non sono fatti casuali. Non le spiegano certo le superficiali e ciarlatanesche prediche di Saviano («tutta colpa della società»), né potranno essere combattute dalle utopie buoniste dei magistrati («non è colpa loro, non vanno puniti ma rieducati»). Magari fosse così. Nella realtà la baby gang diventa per molti l’unica socializzazione possibile dopo la distruzionedella agenzie di formazione compiuta dalla contestazione. E spesso è solo un apprendistato per arrivare al diploma della grossa criminalità.
Questi giovani che feriscono e uccidono per uno smart o per un giaccone, come gli altri che, per noia, tirano i sassi sulle autostrade o bruciano i barboni, sono i figli dei figli del ’68. Minniti manderà cento uomini per controllarli. Ce ne vorrebbero centomila. Li abbiamo creati noi, dovremo tenerceli a lungo. 
Garelli:"A cinquant'anni dal '68"
Che ne è del ’68 cinquant’anni anni dopo? Quale bilancio “culturale” si può avanzare di un evento che – nel bene o nel male – ha segnato nel profondo le nostre società occidentali?
Non tutti gli studiosi e gli osservatori, ovviamente, guardano con le stesse lenti agli avvenimenti di quel periodo, che ha rappresentato comunque uno spartiacque tra due epoche diverse. Anche i suoi detrattori, anche quanti sono convinti che la pretesa di rivoluzione abbia avuto gambe corte, ammettono che il ’68 è stato un fenomeno di grande portata, perlomeno per le macerie che ha lasciato in eredità.
Tra le accuse più spinte c’è chi parla di una stagione che ha fatto degenerare il valore della libertà in licenza, anarchia, assenza di regole; di un movimento nato per combattere un conformismo ripugnante e finito per crearne subito uno più soffocante.
Per contro, altri osservatori riconoscono le molte discontinuità emerse in quegli anni ruggenti, la domanda di cambiamento, la rottura dei rapporti di potere consolidati (nell’università, nelle fabbriche, in famiglia, tra le generazioni), la voglia di rivalsa e di protagonismo delle classi sociali più deboli. Per altri ancora è stata una fase fondamentale per la crescita civile, che ha dato il via alla stagione dei diritti.
Insomma, il dibattito è ancor oggi assai vivace intorno al ’68, al suo significato, ai fattori che l’hanno innescato, al suo lascito, se abbia avuto più meriti o più colpe. Tuttavia – al di là delle valutazioni contrastanti – non si può negare il fatto che sia stato un periodo intriso di schieramenti e di contrapposizione ideologiche, di conflitto generazionale, di utopie, di mescolamento di classi sociali, di intensa partecipazione collettiva: tutti aspetti che ne celebrano la distanza rispetto al tempo attuale, che non manca certo di tensioni ma che appare al confronto assai più grigio e feriale.
Del resto, per illustrare il clima di allora, è sufficiente richiamare alcuni slogan tipici del periodo, che fanno ormai parte della nostra memoria/archeologia storica, e illustrano gli imperativi culturali di quegli anni impetuosi. Erano i warning di allora, oggi diremmo i tweet o gli hastag di un’epoca che non conosceva ancora gli smartphone; messaggi che – a seconda dei casi – hanno colorito o reso minacciosi i muri delle fabbriche o delle università, che costituivano la “sacra volta” dei lunghi cortei, gridati in ogni dove da giovani che lottavano per un mondo “sottosopra”.
# Ce n’est qu’un début (è solo l’inizio)
# vietato vietare
# contro la repressione l’insurrezione
# studenti-operai stesso padrone
# io sono mia
# non liberatemi, faccio da solo
# siamo senza limiti
# prendete i vostri desideri per delle realtà
# la barricata chiude la strada per aprire la via
# la fantasia al potere
# l’immaginazione al potere
# non prendete l’ascensore, pendete il potere
# riprendiamoci il futuro
# il personale è politico
# io decreto lo stato di felicità permanente
# diffidate di chi ha più di 30 anni
E poi i numerosi slogan a sfondo sessuale, a indicare che l’impeto politico aveva profondamente investito la sfera privata.
# Amatevi gli uni sugli altri
# chi dorme due volte con la stessa donna è parte del sistema
# faites l’amour pas les magasin (des gosses).
Il lascito culturale del ’68
Che cosa intendo affermare con questa breve ricostruzione di un passato che ha prodotto molto rumore e scalpore? Che ha segnato la nostra storia?
Anzitutto che nel ’68 era forte la tensione a mettere in crisi una società ritenuta ingiusta, autoritaria, disuguale, ricca di oppressioni e di tabù; ma, nello stesso tempo, era anche assai sentita l’esigenza di operare un raccordo (una saldatura) tra la vita personale e quella politica, perché il cambio delle strutture era considerato propedeutico ad attuare un diverso modo di vivere.
In secondo luogo, che alcuni di questi slogan ci sembrano oggi del tutto velleitari e anacronistici, ad esempio per il modo ingenuo in cui i giovani d’allora pensavano di poter ribaltare i poteri forti della società e di instaurare un nuovo ordine sociale; mentre altri messaggi (la domanda di felicità, la centralità dei desideri, l’affermazione “io sono mia” – che richiama lo slogan femminista di alcuni anni dopo: “il corpo è mio e lo gestisco io” o “l’utero è mio e lo gestisco io”) sembrano aver fatto scuola nel corso degli anni, in quanto ormai parte di una cultura diffusa, che rivendica l’importanza dell’autodeterminazione personale e della libertà di espressione.
In terzo luogo, che quello era davvero il tempo dell’utopia, del primato dell’ideologia, delle “passioni forti”, della voglia di schierarsi; mentre quella attuale sembra una stagione post-ideologica, del malessere, delle passioni tristi, dell’eterno scontento, della rivendicazione impotente, dell’assenza di prospettive.
Il primo messaggio dunque che vorrei proporre riguarda proprio il lascito culturale che deriva alla nostra società (e in particolare alle nuove generazioni) dal movimento o dalla stagione del ’68.
È pur vero (come accennavo in precedenza) che, dopo la sbornia o gli eccessi della politica, molti protagonisti di quella calda stagione sono rientrati nei ranghi di un sistema sociale che è risultato più forte delle loro velleità rivoluzionarie. Dopo tante speranze tradite, dopo il caos sociale connesso ad una partecipazione disordinata, dopo gli anni cupi del terrorismo, è tornata la calma nel paese, i giovani sono scesi dalle barricate, si è innescato un lungo periodo definito da alcuni di normalità e da altri di riflusso.
Tuttavia si è trattato di una normalità più apparente che reale, in quanto il ’68 ha comunque lasciato il suo segno. L’alternativa politica è certamente fallita, ma essa è stata sostituita (come hanno rilevato Glock e Bellah) dall’alternativa degli stili di vita, da una cultura (o controcultura) che ha ereditato alcune istanze tipiche della stagione politica. Tra queste, la messa in discussione non soltanto di questa o quella autorità ma del principio stesso di autorità; la distanza e la disaffezione dalle istituzioni e dalla tradizione; la ricerca della felicità qui e ora; il prevalere di motivi autonomi e immanenti di realizzazione; l’importanza attribuita al lato soggettivo (individuale) dell’esperienza umana. Questa centralità del “sé” si manifesta a vari livelli, nel desiderio di controllare e determinare il proprio percorso di vita, nell’enfasi attribuita alla sperimentazione, nella tendenza a vivere con maggior consapevolezza.
Ecco alcune delle istanze culturali emerse a seguito della stagione politica e che hanno permeato la vita quotidiana delle nuove generazioni. Molti giovani sono stati coinvolti in modi di pensare, di vivere e di agire che erano in netto contrasto con quelli dei loro genitori e con i coetanei entrati nell’età adulta nei primi anni sessanta; le cui tracce erano individuabili anche nel loro modo di vestirsi, nei gusti musicali, nelle dinamiche del tempo libero, nelle relazioni affettive e sessuali, nel modo di stare nella società.
Per vari aspetti, questo cambiamento sotto traccia rientra nella «rivoluzione silenziosa» che – a detta di Inglehart – sarebbe avvenuta in molti paesi occidentali in quegli anni, che segnalerebbe il passaggio dai valori “materialistici” della sicurezza economica, del benessere, della carriera, del prestigio sociale, della disciplina, del successo professionale… a quelli “post-materialistici”, rappresentati dall’autorealizzazione, dalla libertà di opinione, dal senso di appartenenza “limitato”, da un modo diverso di intendere la cultura e di vivere il rapporto con la natura.
Negli ultimi 50 anni, dunque, è avvenuto qualcosa che ha modificato profondamente lo scenario culturale delle nostra società, di cui il ’68 sembra essere stato il detonatore e il simbolo iniziale.
Individualismo e autenticità
Nel sintetizzare questo cambiamento, c’è stato chi – come Taylor – ha parlato di una rivoluzione individualizzante, del diffondersi tra ampi strati di popolazione di un individualismo morale, strumentale ed espressivo che nel passato era sentito soprattutto dalle élites, mentre ora diventa un fenomeno di massa.
A molti di noi (della nostra cultura) il termine individualismo crea sconcerto, perché lo associamo in genere a una concezione egoistica della vita, al venire meno del senso della comunità, alla negazione dell’idea della solidarietà, al venir meno della fiducia negli altri.
Ma il termine – come si sa – ha un’accezione più ampia.
L’individualismo indica certamente la tendenza a ragionare perlopiù nei termini di che cosa è meglio o ottimo per me; o a misurare la bontà di un’azione più in base alla sua capacità di essere un mezzo per ottimizzare le ricompense che per il suo valore intrinseco (individualismo strumentale). Ma può contenere anche un’istanza “espressiva”, che può essere descritta come la ricerca di uno stile di vita autentico, personalizzato, a propria misura; mosso dalla convinzione che ciascun individuo ha un modo specifico di realizzare la propria umanità, e che è importante esprimere e attuare tale originalità, anziché conformarsi a un modello imposto dall’esterno (cioè dalla società, dalle generazioni precedenti, dall’autorità politica o religiosa ecc.).
Ci si distanzia, dunque, dalle società del passato ritenute omologanti e conformiste, nemiche dell’individualità e della creatività, repressive dei sentimenti e della spontaneità.
Inoltre, si è sempre meno disposti a vivere la propria vita in termini di ruoli oggettivi, di obblighi e principi che provengono dall’esterno, coltivando l’idea di decidere autonomamente i fini e le modalità della propria esistenza, orientando le proprie scelte in sintonia con il “sé intimo”.
In altre parole, il modello della “vita come”, vincolata dalla tradizione dei ruoli sociali (espressa dai modelli della moglie devota, del marito fedele, dell’impiegato diligente, del giovane sottomesso) viene surclassata dal modello della “vita soggettiva”, vissuta in accordo con la propria interiorità, dove contano i sentimenti personali, l’armonia, l’autonoma espressione. La prima sacralizza la conformità dell’individuo a un’autorità e alla tradizione, che media la sua volontà; la seconda sacralizza l’esperienza personale dell’incontro col proprio sé profondo.
Siamo qui nel cuore di quella che Charles Taylor definisce l’epoca dell’autenticità, che ha modificato per ampie quote di popolazione le condizioni di vita (e anche di credenza e di rapporto con la religione, come vedremo) nelle nostra società.
Come si vede, non tutto è negativo nel cambiamento culturale descritto. La realizzazione individuale può indebolire i tradizionali legami con la comunità, con lo Stato, i partiti politici, le classi sociali, le Chiese; ma può anche innescare nuove appartenenze collettive, connesse a particolari sensibilità, stili di vita e di consumo.
L’uscita dalla “vita come” altera i rapporti sociali, ma apre alle persone nuovi orizzonti di realizzazione. La centralità del “sé” può innescare atteggiamenti egoistici, ma indica l’importanza di essere se stessi nel mondo d’oggi, di scoprire le proprie potenzialità, di superare vincoli e schemi datati e prefissati. Insomma, non tutto viene per nuocere nell’epoca dell’autenticità.
Il bilancio di questa svolta culturale non può che essere ambivalente, si compone di aspetti problematici ma anche di istanze positive. Alcuni valori e modelli tradizionali vengono messi in discussione (la famiglia, il lavoro, la moderazione, la fedeltà alle istituzioni ecc.), ma altri ideali si affermano, come quelli del rispetto della libertà individuale, dell’equità, delle pari opportunità, della tolleranza, dei diritti.
Va da sé che questa profonda trasformazione della coscienza morale ha avuto rilevanti ripercussioni nel campo religioso, che si sono manifestate sia nel rapporto con le istituzioni del sacro (con le Chiese, in particolare), sia nel modo stesso in cui oggi si interpreta l’istanza religiosa e spirituale.
Quanti hanno riflettuto su questi temi, evidenziano in particolare:
  1. La messa in discussione di una religione o di una religiosità che non sia oggetto di una specifica scelta personale, tipica di un riferimento culturale che un individuo ha ereditato quasi a sua insaputa dall’ambiente in cui vive, frutto di un’eredità o di una memoria di cui si partecipa senza sufficiente consapevolezza; molti giovani, oggi, esprimono disagio nei confronti di una fede imposta o fondata soltanto sul legame con la tradizione o con la cultura prevalente, anche se di fatto poi maturano a questi livelli vari compromessi; in tutti i casi, l’aspirazione di fondo è (a livello di fede religiosa, come in molti altri campi della vita) a non vivere più in un “mondo di destino”, ma in un “mondo di scelte”; dunque, non una fede ascritta o imposta o ereditata passivamente, ma sempre più oggetto di opzione.
  1. Il distacco o la diffidenza verso ogni forma di autorità religiosa o verso ogni fonte di significato che proviene dall’esterno della propria coscienza, e, in parallelo, la tendenza a legittimare come credibile solo ciò che viene validato in termini soggettivi e personali; l’autorità del soggetto prende dunque il sopravvento rispetto a quella delle istituzioni e delle tradizioni religiose, per la centralità attribuita appunto al sentire individuale.
  1. La refrattarietà a identificarsi con le istituzioni religiose non è solo una questione di principio, ma ha anche una ragione storico-culturale, rappresentata dal rifiuto del modo prevalente in cui le Chiese e le istituzioni religiose hanno sin qui gestito il sacro; l’insofferenza verso una proposta religiosa e morale che sembra negare la libertà e lo sviluppo personale; il disaccordo con l’etica sessuale predicata dalle Chiese; il rigetto della funzione disciplinante della religione (che prefigura autocontrollo, abnegazione ecc.); la non accettazione dell’approccio autoritario delle Chiese, la cui legge e le cui norme sembrano fisse nel tempo e non ammettere obiezioni ed eccezioni.
  1. Il distacco dai modelli religiosi tradizionali non conduce necessariamente ad un aumento dell’incredulità o all’insignificanza dei valori religiosi e spirituali; cresce nel tempo il fenomeno dell’ateismo o dell’indifferenza religiosa, ma, a fianco di esso, si delinea un forte flusso di ricerca spirituale alternativa, che in gran parte si manifesta al di fuori delle Chiese ma che per vari aspetti coinvolge anche le comunità religiose più consolidate; si diffonde dunque l’idea: che ciascuno debba seguire le proprie inclinazioni spirituali; che sia legittimo scegliere l’ambiente (comunità, gruppo, chiesa) ritenuto più significativo; che ciò che conta non sono le appartenenze formali, ma le esperienze, i percorsi, le proposte che rispondono alle mie esigenze e alimentano il vissuto; sovente queste risposte si ritrovano in itinerari spirituali “affini”, non strutturati, o in agenzie di servizio… più che nelle grandi istituzioni
Emerge qui “un nuovo modo di rapportarsi al sacro che esalta la ricerca di significato a partire dalla propria esperienza quotidiana, dai propri sentimenti/dubbi; quel fenomeno che – a seconda dei casi – è stato definito come religione fai-da-te”, religione “scegli e mischia”, “supermercato spirituale”, religione “à la carte”; o ancora, come “una via per la comprensione di sé e per la consapevolezza interiore”; “un percorso per la crescita personale”; “un veicolo per il risveglio della parte intuitiva, non-razionale, del sé”.
Questo aspetto è ulteriormente esaltato dalle espressioni più recenti di “spiritualità del sé”, “spiritualità interiore” o “spiritualità soggettiva”; espressione di un sé profondo che valorizza i propri sentimenti, il proprio corpo, le relazioni con gli altri, con la natura e il cosmo.

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