Pandemia: due riflessioni recenti di Cosentino e Maggi
Dopo la pandemia, 5 parole per ricominciare: Risurrezione
Don Francesco Cosentino
Durante la pandemia, la paura di tutte le paure si è affacciata sulle nostre vite: la paura di morire. Il potenziale rischio del contagio e la malattia così come si è presentata specialmente nella prima fase e per una certa fascia di persone, ci hanno messo dinanzi alla consapevolezza di non avere il controllo della vita, ci hanno travolto in una spirale di ansie generali e ci hanno messo a contatto con la parte più vulnerabile di noi.
Anche questo fa tutto sommato bene: non sentirsi invincibili è una grande conquista della vita e un grande guadagno in umanità. Non ruotiamo più intorno ai nostri deliri di onnipotenza e accogliamo serenamente la nostra fragilità. Il “ricordati che devi morire” del cristianesimo, in fondo serviva a questo: a porre l’uomo dinanzi alla sua verità di creatura che non è in pianta stabile su questa terra, ma si muove verso l’incontro con Dio sua meta eterna e, nell’attesa di questo abbraccio, cammina con desiderio e impegno verso di Lui. Un ricordo che, così, diventa anche un monito.
Tuttavia, bisogna anche essere onesti nel dire che, spesso, il canto funebre ha avuto la meglio sulla danza della gioia anche nel cristianesimo e, in parte, è ancora così anche nelle nostre Chiese. Nel cristianesimo, invece, a essere centrale non è la morte, ma la risurrezione. Non è il peccato, ma la grazia. E se siamo chiamato a morire per amore è solo perché crediamo fermamente, sulla Parola e a partire dalla vita di Gesù, che il chicco di grano che muore porta frutto e chi perde la propria vita vive per sempre.
La quinta e ultima parola del nostro percorso, allora, è Risurrezione. Qui ci riferiamo subito non tanto e non solo alla risurrezione di Gesù, quanto alla promessa che Egli ci ha fatto di risorgere con Lui. E – altra importante precisazione che spesso noi cristiani dimentichiamo – non ci riferiamo solo alla risurrezione finale che avverrà nel momento della nostra morte e poi alla fine dei tempi, ma all’essere già risorti con Cristo qui e ora, nel bel mezzo delle vicende talvolta oscure della vita e nell’odore di morte che segna spesso le situazioni della nostra storia. Dentro questo cammino, noi tutti portiamo dentro l’anelito dell’infinito, la nostalgia di una vita piena, un seme di risurrezione oltre ogni morte che da sempre portiamo nel cuore essendo stati creati a immagine del Cristo.
E, così, anche in questo tempo di pandemia, la risurrezione che ci segna e in cui crediamo per fede, ci sospinge a ricominciare la nostra vita, le nostre attività lavorative e la nostra vita sociale in un modo nuovo. Abbiamo bisogno di una rinascita interiore, morale, culturale e sociale, oltre che spirituale.
Se i mesi più difficili della pandemia e del lockdown hanno in qualche modo rappresentato un essere “chiusi nella tomba”, esposti alla fragilità e al rischio e sballottati dalla paura, questo ricominciare della vita sociale può avere il sapore di una vera e propria risurrezione; in fondo, scendendo nella tomba e toccando con mano la fragilità e il rischio della morte, lasciamo andare molte cose di noi e del nostro mondo che ci accorgiamo non essere così necessarie e importanti. Qualcosa, come sempre nella nostra vita, muore per lasciare spazio a nuove creazioni o possibilità.
La cosa più importante nella vita, infatti, è non rimanere a giacere nella tomba per troppo tempo. Anche Gesù si ferma nella tomba, ma il suo è solo un passaggio – per l’appunto la Pasqua – di tre giorni. Anche noi spesso giacciamo nel sepolcro della nostra paura, della nostra rassegnazione o autocommiserazione. Ciò che ci trattiene nella tomba sono anche le nostre attese esagerate nei confronti della vita, il nostro perfezionismo, la paura della sconfitta, il giudizio severo verso noi stessi, le nostre fragilità che forse in questa pandemia si sono perfino ingrandite e palesate. Tuttavia, il Cristo che risorge dalla morte spezzando le catene del sepolcro e uscendo dalla tomba, ci incoraggia a chiederci: che cosa posso lasciare morire dopo questa pandemia? Cosa posso lasciare andare? Cosa può riprendere e ricominciare in modo totalmente nuovo? Quale macigno posso spostare? Quale rigidità? Cosa posso fare con i miei fallimenti, le delusioni, gli insuccessi, le ferite? Posso farne una nuova opportunità per ricominciare? Dovremmo deporre tutto questo nella tomba e lasciarcelo, permettere che Cristo Risorto lo guarisca.
Nel Vangelo, Gesù anticipa la sua risurrezione compiendo dei gesti straordinari nei confronti di chi è toccato dalla morte. Un giorno, nella città di Nain, si commuove profondamente nel vedere un corteo funebre che accompagna la bara di un giovane ragazzo, figlio di una donna vedova: storia familiare di dolore e di morte.
L’evangelista Luca offre una pennellata splendida nel raccontare il brano: egli descrive l’incontro di due processioni, cioè l’incontro tra la morte e la vita; si incontrano infatti due cortei, nei pressi della porta della città: uno è quello dei discepoli e di una folla che segue Gesù, il Dio della vita che sta annunciando l’esplosione della vita cioè il Regno di Dio; l’altro, invece, è il corteo della morte, un gruppo di persone che sta seguendo un feretro e sta uscendo dalla città per raggiungere il cimitero. La processione della morte e la processione della vita.
Questa è anche un’immagine della nostra vita. Questi due cortei si scontrano dentro di noi e li vediamo fronteggiarsi continuamente anche nella nostra società. Tutti noi, a volte entriamo nella pienezza della vita così come Gesù entra in questa città, altre volte siamo e ci sentiamo nella tomba.
Oggi, in questo dopo pandemia, potremmo fare prevalere il corteo funebre, il lamento per le cose che non vanno, la rassegnazione e l’apatia verso ciò che ci aspetta per ricostruire il futuro; oppure possiamo permettere al Cristo di toccare la nostra bara, di rialzarci, di darci uno sguardo nuovo sulla vita e di ricominciare con uno spirito nuovo.
Gesù comanda al giovinetto: “Alzati”. Torna alla vita! Questo è il verbo della risurrezione e può diventare la parola del dopo-pandemia: alzati, non restare nel sonno, non essere pigro, non essere privo di speranza, non smettere di lottare. Sogna, lotta e spera.
Auguri di buona rinascita e di risurrezione!
Anche questo fa tutto sommato bene: non sentirsi invincibili è una grande conquista della vita e un grande guadagno in umanità. Non ruotiamo più intorno ai nostri deliri di onnipotenza e accogliamo serenamente la nostra fragilità. Il “ricordati che devi morire” del cristianesimo, in fondo serviva a questo: a porre l’uomo dinanzi alla sua verità di creatura che non è in pianta stabile su questa terra, ma si muove verso l’incontro con Dio sua meta eterna e, nell’attesa di questo abbraccio, cammina con desiderio e impegno verso di Lui. Un ricordo che, così, diventa anche un monito.
Tuttavia, bisogna anche essere onesti nel dire che, spesso, il canto funebre ha avuto la meglio sulla danza della gioia anche nel cristianesimo e, in parte, è ancora così anche nelle nostre Chiese. Nel cristianesimo, invece, a essere centrale non è la morte, ma la risurrezione. Non è il peccato, ma la grazia. E se siamo chiamato a morire per amore è solo perché crediamo fermamente, sulla Parola e a partire dalla vita di Gesù, che il chicco di grano che muore porta frutto e chi perde la propria vita vive per sempre.
La quinta e ultima parola del nostro percorso, allora, è Risurrezione. Qui ci riferiamo subito non tanto e non solo alla risurrezione di Gesù, quanto alla promessa che Egli ci ha fatto di risorgere con Lui. E – altra importante precisazione che spesso noi cristiani dimentichiamo – non ci riferiamo solo alla risurrezione finale che avverrà nel momento della nostra morte e poi alla fine dei tempi, ma all’essere già risorti con Cristo qui e ora, nel bel mezzo delle vicende talvolta oscure della vita e nell’odore di morte che segna spesso le situazioni della nostra storia. Dentro questo cammino, noi tutti portiamo dentro l’anelito dell’infinito, la nostalgia di una vita piena, un seme di risurrezione oltre ogni morte che da sempre portiamo nel cuore essendo stati creati a immagine del Cristo.
E, così, anche in questo tempo di pandemia, la risurrezione che ci segna e in cui crediamo per fede, ci sospinge a ricominciare la nostra vita, le nostre attività lavorative e la nostra vita sociale in un modo nuovo. Abbiamo bisogno di una rinascita interiore, morale, culturale e sociale, oltre che spirituale.
Se i mesi più difficili della pandemia e del lockdown hanno in qualche modo rappresentato un essere “chiusi nella tomba”, esposti alla fragilità e al rischio e sballottati dalla paura, questo ricominciare della vita sociale può avere il sapore di una vera e propria risurrezione; in fondo, scendendo nella tomba e toccando con mano la fragilità e il rischio della morte, lasciamo andare molte cose di noi e del nostro mondo che ci accorgiamo non essere così necessarie e importanti. Qualcosa, come sempre nella nostra vita, muore per lasciare spazio a nuove creazioni o possibilità.
La cosa più importante nella vita, infatti, è non rimanere a giacere nella tomba per troppo tempo. Anche Gesù si ferma nella tomba, ma il suo è solo un passaggio – per l’appunto la Pasqua – di tre giorni. Anche noi spesso giacciamo nel sepolcro della nostra paura, della nostra rassegnazione o autocommiserazione. Ciò che ci trattiene nella tomba sono anche le nostre attese esagerate nei confronti della vita, il nostro perfezionismo, la paura della sconfitta, il giudizio severo verso noi stessi, le nostre fragilità che forse in questa pandemia si sono perfino ingrandite e palesate. Tuttavia, il Cristo che risorge dalla morte spezzando le catene del sepolcro e uscendo dalla tomba, ci incoraggia a chiederci: che cosa posso lasciare morire dopo questa pandemia? Cosa posso lasciare andare? Cosa può riprendere e ricominciare in modo totalmente nuovo? Quale macigno posso spostare? Quale rigidità? Cosa posso fare con i miei fallimenti, le delusioni, gli insuccessi, le ferite? Posso farne una nuova opportunità per ricominciare? Dovremmo deporre tutto questo nella tomba e lasciarcelo, permettere che Cristo Risorto lo guarisca.
Nel Vangelo, Gesù anticipa la sua risurrezione compiendo dei gesti straordinari nei confronti di chi è toccato dalla morte. Un giorno, nella città di Nain, si commuove profondamente nel vedere un corteo funebre che accompagna la bara di un giovane ragazzo, figlio di una donna vedova: storia familiare di dolore e di morte.
L’evangelista Luca offre una pennellata splendida nel raccontare il brano: egli descrive l’incontro di due processioni, cioè l’incontro tra la morte e la vita; si incontrano infatti due cortei, nei pressi della porta della città: uno è quello dei discepoli e di una folla che segue Gesù, il Dio della vita che sta annunciando l’esplosione della vita cioè il Regno di Dio; l’altro, invece, è il corteo della morte, un gruppo di persone che sta seguendo un feretro e sta uscendo dalla città per raggiungere il cimitero. La processione della morte e la processione della vita.
Questa è anche un’immagine della nostra vita. Questi due cortei si scontrano dentro di noi e li vediamo fronteggiarsi continuamente anche nella nostra società. Tutti noi, a volte entriamo nella pienezza della vita così come Gesù entra in questa città, altre volte siamo e ci sentiamo nella tomba.
Oggi, in questo dopo pandemia, potremmo fare prevalere il corteo funebre, il lamento per le cose che non vanno, la rassegnazione e l’apatia verso ciò che ci aspetta per ricostruire il futuro; oppure possiamo permettere al Cristo di toccare la nostra bara, di rialzarci, di darci uno sguardo nuovo sulla vita e di ricominciare con uno spirito nuovo.
Gesù comanda al giovinetto: “Alzati”. Torna alla vita! Questo è il verbo della risurrezione e può diventare la parola del dopo-pandemia: alzati, non restare nel sonno, non essere pigro, non essere privo di speranza, non smettere di lottare. Sogna, lotta e spera.
Auguri di buona rinascita e di risurrezione!
Alberto Maggi "Quanto vale la vita di un uomo?"
Quanto vale la vita di un uomo? Che prezzo ha? Quanto si è disposti a spendere per la sua salute? La pandemia ha reso attuali i drammatici interrogativi che accompagnano la storia dell’umanità dalle sue origini. Su ilLibraio la riflessione del biblista Alberto Maggi
IL PREZZO DELL’UOMO
Quanto vale la vita di un uomo? Che prezzo ha? Quanto si è disposti a spendere per la sua salute? La pandemia ha reso attuali i drammatici interrogativi che accompagnano la storia dell’umanità dalle sue origini. I bollettini che documentavano quotidianamente l’espandersi del virus erano ogni giorno un doloroso elenco di morti, dapprima centinaia, poi migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia… una strage. Perché? Certo, su queste morti, hanno influito la sorpresa e l’aggressività di questo virus, ma bisogna domandarsi anche se le strutture ospedaliere, e tutta la sanità, anziché essere sistematicamente smantellate, con tagli al personale, ai macchinari, fosse stata negli anni potenziata, forse ci sarebbe stato un esito diverso? Si continuano a finanziare forze di morte come gli armamenti, mentre indispensabili macchinari salvavita non sono sufficienti per tutti ma solo di pochi. E i medici si sono trovati di fronte all’atroce dramma di dover decidere chi salvare e chi lasciar morire, immolato sull’altare di mamona, l’interesse che da sempre richiede sacrifici umani. Una triste conferma che quando l’economia prevale sul benessere dell’uomo, quando la Borsa è più importante della salute, quando l’attività industriale non può essere fermata, anche se si sa che causerà delle vittime, la bilancia penderà sempre a favore dell’interesse economico a scapito del bene dell’uomo. Quanto vale dunque un uomo, la sua libertà, la sua salute? Qual è il prezzo che si è disposti a pagare?
Nella Bibbia, si legge che Giuseppe fu venduto come schiavo dai suoi stessi fratelli, per venti sicli d’argento (Gen 37,28) e, Gesù fu tradito da Giuda, un suo discepolo, per pochi di più, “trenta monete d’argento” (Mt 26,15), corrispondenti a circa quattro mesi di salario di un operaio, il valore della vita di uno schiavo (Es 21,32). Dal punto di vista meramente economico, doveva valere veramente ben poco la vita di quel Cristo dal quale siamo “stati comprati a caro prezzo” (1 Cor 6,20; 7,23).
Secondo il Libro del Levitico, è il Signore stesso che fissa il valore delle persone, definendone il prezzo, un Dio che, probabilmente, dimentico di aver creato a sua immagine sia il maschio che la femmina (Gen 1,27), decide che il valore della donna sia la metà di quello dell’uomo: “per un uomo dai venti ai sessant’anni, il valore è di cinquanta sicli d’argento… per una donna, il valore è di trenta sicli… Dai cinque ai venti anni, il valore è di venti sicli per un maschio e di dieci sicli per una femmina…” (Lv 27,3.5).
Se è vero che il cinismo della società porta a constatare che “ogni uomo ha il suo prezzo” (H. Hugues), il credente che ha accolto Gesù il suo messaggio, sa che per il Signore, come valore assoluto, prima viene il bene dell’uomo, il suo benessere, la sua salute. Per questo Gesù pone, come condizione ai suoi, per seguirlo, la rinuncia di tutti i loro averi (Lc 14,33), perché non è possibile seguire “Dio e mamona” (Mt 6,24), vivere per il bene degli altri e pensare al proprio interesse.
Ma, quanto si è disposti a dare per il benessere dell’uomo? L’evangelista Marco sviluppa questa tematica nel pittoresco episodio dell’ “uomo posseduto da uno spirito impuro” nel paese dei Gerasèni (Mc 5,1-20). Sbarcato in terra pagana, Gesù si incontra con un individuo tre volte impuro, in quanto pagano, indemoniato, e abitante nei sepolcri. Si tratta di un soggetto che non viene ritenuto un essere umano, e per questo è trattato come una bestia (“legato con ceppi e catene”), ridotto in forzata prigionia. Un individuo che si sta distruggendo, esercitando violenza su se stesso. Il personaggio è anonimo, in quanto rappresentativo di quelli che vivono la sua stessa drammatica situazione. Nello stesso tempo, l’evangelista attira l’attenzione del lettore sul fatto che nel luogo c’era “una numerosa mandria di porci al pascolo” (Mc 5,11), immagine di grande ricchezza e prosperità. Gesù è il liberatore, e come nella sinagoga di Cafàrnao, ha liberato l’uomo posseduto dallo spirito impuro (Mc 1,21-28), così in terra pagana, libera colui che aveva la sua dimora nelle tombe. Effetto della liberazione è che “gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare” (Mc 5,13). La liberazione dell’uomo implica la rovina del sistema economico, che evidentemente basava la sua fortuna sull’oppressione di chi viene sfruttato e trattato come una bestia. Sorprendentemente, non appare nessun segnale di allegria da parte della gente del luogo, che trova vestito e sano di mente colui che era stato posseduto, ma solo paura che nasce dal veder minacciato il proprio capitale dagli effetti del messaggio di Gesù. Di fatto il ritorno del posseduto alla condizione umana, e la restituzione della dignità all’individuo ha distrutto il loro enorme capitale e nuoce ai loro interessi economici, per questo “si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio” (Mc 5,17). Ironia dell’evangelista: se prima era lo spirito impuro a scongiurare Gesù di poter entrare nei porci (Mc 5,10), ora sono i proprietari dei porci che supplicano il Signore di allontanarsi. Questa loro richiesta li smaschera e manifesta che è da costoro che procedeva lo spirito impuro che imprigionava l’uomo. Dovendo scegliere tra il bene dell’uomo e il proprio capitale, senza esitazione i proprietari dei porci scelgono quest’ultimo.
Tra il Dio che libera l’uomo, e il dio denaro che lo schiavizza, preferiscono adorare mamona. Un messaggio di libertà e uguaglianza è inaccettabile per una classe sociale che deve la sua fortuna allo sfruttamento degli oppressi. I potenti antepongono sempre il loro interesse al bene dell’uomo, ma è compito dei seguaci di Gesù rovesciarli dai troni per innalzare gli ultimi (Lc 1,52), sia rinunciando a “quella cupidigia che è idolatria” (Col 3,5), sia attraverso scelte sociali e politiche che pongano la salute dell’uomo come valore assoluto.