La censura iconoclasta contro Montanelli, Via col vento, i Moretti...
Statue abbattute e revisione storica. Tutti quei crimini che oggi incominciamo a vedere
Un busto danneggiato del re del Belgio Leopoldo II
Nella complessa geografia politica dell’Africa le aree centrali del grande continente sono fra le più difficili da decifrare perché emergono – a poco a poco e solo da poco – dalla grande nebulosa che chiamiamo, collettivamente, Congo, e che ha dato vita a diversi Stati venuti fuori dai domini coloniali all’indomani della seconda guerra mondiale. Fra questi l’antico Congo belga oggi Repubblica Democratica del Congo, rimasta sotto il dominio di Bruxelles dal 1908 al 1960: ma prima di allora, tuttavia, la corona belga con il sovrano Leopoldo II aveva già giocato un ruolo importante nell’area.
Torniamo a parlarne oggi perché ad Anversa una statua del sovrano è stata rimossa da una piazza a seguito del movimento che, tra Stati Uniti e Europa, sta abbattendo o imbrattando le statue di personaggi che sono venerati come simboli della nazione, ma che allo stesso tempo si sono macchiati di crimini coloniali e schiavisti.
In Belgio il movimento Réparons l’Histoire ha lanciato una petizione chiedendo di rimuovere tutte le statue di Leopoldo II. Intendiamoci: è chiaro che la storia non si 'ripara' e non è compito degli storici giudicare il passato; il loro ruolo è studiarlo, comprenderlo e insegnarlo. Tuttavia, non bisogna neppur credere ingenuamente che la realtà politica e il pensiero etico si esprimano e si esauriscano tutti e solo all’interno delle aule universitarie e dei seminari accademici: l’iconoclastia, cioè l’abbattimento dei simboli di potere o la cancellazione delle immagini, sono una costante della nostra storia; e la dimensione simbolica di tale azione non può nemmeno essere posta alla stregua di una qualche conferenza erudita.
A Londra una statua di Winston Churchill è stata imbrattata con uno scritta che accusa lo statista inglese di essere stato un razzista, il che è noto è comprovato: Churchill definiva 'bestie' gli indiani e diceva che gli espropri dei Nativi americani e degli aborigeni australiani erano giustificati dalla necessità del trionfo della razza bianca; e fece anche di peggio, come quando durante la Seconda guerra mondale non permise alle derrate alimentari di raggiungere il Bengala, sotto il controllo britannico, affetto da una grave carestia, preferendo stornarle verso i suoi compatrioti: un’azione che portò alla morte di quattro milioni di persone.
Eppure per gli inglesi Winston Churchill significa la vittoria contro il nazifascismo: ecco che, dinanzi all’assenza di una memoria condivisa e al fenomeno per cui l’eroe secondo alcuni è un aguzzino secondo altri, la rabbia iconoclasta si propone come una risposta antropologicamente pregnante.
L’ha benissimo spiegato, a proposito di altre iconoclastie, David Freedberg nel suo apprezzatissimo Il potere delle immagini. Nel caso di Leopoldo II la storia è forse meno nota. Nel 1876, il re belga organizzò l’Associazione Internazionale Africana con la collaborazione dei principali esploratori sul continente e il sostegno di diversi governi europei per la promozione dell’esplorazione e della colonizzazione dell’Africa. Dopo che Henry Morton Stanley aveva esplorato la regione in un viaggio che si concluse nel 1878, Leopoldo corteggiò l’esploratore e lo assunse per sostenere i suoi interessi nella regione e, dal momento che il governo belga mostrava scarso interesse per l’impresa, il sovrano decise di portare avanti la questione per conto proprio.
La rivalità europea in Africa centrale condusse presto però a tensioni diplomatiche, in particolare per quanto riguardava il bacino del fiume Congo che nessuna potenza europea aveva ancora rivendicato. Nel novembre 1884 Otto von Bismarck convocò a Berlino una conferenza di 14 nazioni per trovare una soluzione pacifica alla crisi congolese. Nel corso di essa, pur senza formale approvazione delle rivendicazioni territoriali delle potenze europee in Africa centrale, ci si accordò su una serie di regole per garantire una pacifica spartizione dell’area. Esse riconoscevano il bacino del Congo come 'zona di libero scambio' (un eufemismo splendido!). Leopoldo II uscì dai lavori della dalla Conferenza con una grande quota di territorio a lui assegnata come 'Stato libero del Congo, organizzato come un’impresa corporativa privata gestita direttamente da lui attraverso un 'libero sodalizio', l’Association Internationale Africaine, appunto.
L’entità definita 'Stato libero', comprendente l’intera area dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, sussisté dal 1885 al 1908: solo allora, alla morte di Leopoldo, il governo belga procedette senza entusiasmo a un’annessione (molti i voti contrari in Parlamento). Sotto l’amministrazione di Leopoldo II, lo 'Stato libero del Congo' era stato un disastro umanitario, un’autentica infame sciagura. La mancanza di dati precisi rende difficile quantificare il numero di morti causate dallo spietato sfruttamento e dalla mancanza di immunità a nuove malattie introdotte dal contatto con i coloni europei: come la pandemia influenzale del 1889-90, che causò milioni di morti anche nel continente europeo tra cui il principe Baldovino del Belgio. La Force Publique, esercito privato sotto il comando di Leopoldo, terrorizzava gli indigeni per farli lavorare come manodopera forzata per l’estrazione delle risorse. Il mancato rispetto delle quote di raccolta della gomma era punibile con la morte. Le punizioni corporali, comprese crudeli mutilazioni, erano ordinarie.
I miliziani della Force Publique erano tenuti a fornire una mano delle loro vittime come prova che 'giustizia era stata fatta'. Intere ceste di mani mozzate erano poste ai piedi dei comandanti; a volte i soldati ne tagliavano a prescindere dalle quote di gomma, per poter accelerare il congedo dal servizio militare. Nei raid punitivi contro i villaggi uomini, donne e bambini venivano impiccati e appesi alle palizzate. Il trattamento riservato agli indigeni, insieme alle epidemie, causò nel Congo di Leopoldo II una crisi demografica gravissima; anche se, come detto, le stime di morti variano, si parla di cifre che vanno tra i dieci e i venti milioni. Se tutti i regimi coloniali hanno accumulato una quota notevole di quelli che ormai definiamo 'crimini contro l’umanità', e che nella pratica significano massacri impuniti di popolazioni locali, il caso di Leopoldo II è particolarmente efferato perché il Congo, prima del 1908, era una sua proprietà personale e le leggi provenivano direttamente da lui: da un sovrano costituzionale, cattolico e liberale. Abbattere le statue dei responsabili di tali infamie non cambia certo il passato né risarcisce le vittime: semmai, chissà, forme più pesanti di damnatio memoriae sarebbero opportune soprattutto nei confronti di figuri che sino ad ieri venivano onorati come eroi civilizzatori. Il vero problema non è comunque l’iconoclastia quanto semmai il fatto che di questi crimini non si legga sui libri di scuola, che si continui a considerarli 'minori' rispetto ad altri.
Una statua sfregiata della regina Vittoria - .
Forse gli iconoclasti di oggi segnalano che finalmente è arrivato il momento di parlarne. San Giovanni Paolo II aveva fatto in merito un gesto esemplare e decisivo, quando aveva chiesto al genere umano perdono per i delitti dei cattolici nella storia. Ma quella scelta implicava anche un severo mònito: s’invitava con essa altre Chiese e religioni, altre associazioni, altri sistemi sociali a fare altrettanto. Molti risposero riduttivamente, quasi insoddisfatti: 'era ora' che la Chiesa di Roma riconoscesse i suoi crimini. Il fatto era però che altri non erano stati da meno e molti erano stati da più: e non bastava certo l’alibi dell’unanime condanna dei delitti di Hitler e di Stalin. Papa Francesco, come gesuita argentino, sa bene che la Compagnia, nel Settecento, venne disciolta soprattutto in quanto alcuni governi europei protestarono contro la sua azione in favore degli indios dell’America latina contro le razzìe e i lavori forzati loro imposti dagli schiavisti.
E non parliamo del genocidio dei native Americans che fa parte integrante della storia della costruzione della 'nazione americana' statunitense. Troppo comodo sarebbe, anche nelle scuole, continuar a condannare genericamente il colonialismo senza conoscerlo e senza studiarlo, fingendo di non sapere che esso fu parte della marcia verso il 'progresso' e l’arricchimento dell’Europa liberista. Finché non faremo radicalmente e sistematicamente tutto ciò, il lavoro di 'purificazione della memoria' indirizzato a stigmatizzare i crimini nazisti e stalinisti sarà un esercizio ipocritamente lasciato a metà strada. Non esistono crimini 'condannabili' e crimini 'giustificabili': i crimini sono crimini e basta.
MA IL PASSATO NON SI CANCELLA BUTTANDO GIÙ UNA STATUA
11/06/2020 A proposito della violenza iconoclasta di questi giorni, da Cristoforo Colombo a Indro Montanelli (di Pino Lorizio)
C’è una parola inconsueta, iconoclastia, che certo non appartiene al discorrere quotidiano, dilagante nei media di questi giorni, quando si discute sul comportamento di coloro che esprimono il loro dissenso in maniera violenta nei confronti di monumenti a personaggi ambigui, se non negativi, della storia, decapitandole o rottamandole. Ne hanno veramente diritto? Vengono in mente due riferimenti storici. Uno al dibattito postbellico sulla necessità di conservare, a perpetua memoria, i siti dei lager nazisti, almeno in forma parziale e, oserei dire, simbolica. I viaggi della memoria concorrono alla formazione civica dei ragazzi e delle ragazze delle nostre scuole. L’altro rimanda alla violenza distruttiva dei talebani nei confronti delle statue del Buddha di Bamiyan, che due anni dopo, nel 2003, vennero inserite dall’Unesco fra i patrimoni mondiali dell’umanità, cercando di recuperarle.
La logica che presiede questi gesti fondamentalisti è la logica binaria del vero/falso, bene/male, giusto/sbagliato, che esclude le sfumature e le contaminazioni di cui la storia è intrisa e da cui è percorsa. Se agli occhi di un islamista la religione buddhista è falsa e ogni falsità deve essere annientata e distrutta, allora dovrebbe essere annientato ogni simbolo delle altre appartenenze religiose, fra cui quella cristiana. Con questo criterio per esempio si è distrutta (a più riprese) la biblioteca di Alessandria, con enorme perdita di risorse culturali, scientifiche, filosofiche e teologiche per la storia dell’umanità. Così se, agli occhi dei distruttori di statue odierni, da quelle di Edward Colston e di Cristoforo Colombo negli USA a quella (auspicata) di Indro Montanelli a Milano, il razzismo è un male, allora bisogna annientare tutto ciò che lo richiama. Così dovremmo bruciare gli scritti di Ungaretti, Pirandello o Gentile e tanti altri, che aderirono al fascismo.
La parola “iconoclastia” ci riporta alla grande crisi che la Chiesa ha vissuto nell’VIII secolo, risolta, non senza strascichi polemici, dal Concilio II di Nicea, che si è pronunziato a favore del culto delle icone, nei confronti di quanti, fondandosi sulla tradizione ebraica e dell’Antico Testamento, ritenevano che, seguendo una delle dieci parole, nessuna immagine dovesse essere consentita, onde evitare l’idolatria, sempre incombente tentazione per i credenti.
I contesti sono certamente distanti, ma possiamo connetterli. Abbiamo bisogno di immagini, statue, rappresentazioni sia nel campo religioso che in quello laico, perché l’uomo è un animale simbolico. Quando l’immagine di un personaggio viene dipinta o scolpita e innestata nelle piazze o nelle strade delle nostre città, allora vuol dire che quella persona è diventata un mito. Ma non ogni mito è necessariamente positivo e da imitare, vi sono anche rappresentazioni che possono diventare moniti per quanti non hanno partecipato alle loro scelte per esempio razziste e per i giovani che non hanno vissuto nel loro contesto storico. In questo senso dobbiamo imparare a non idolatrare chi è rappresentato. Non siamo iconoclasti, ma neppure iconoduli (in senso idolatrico). Del resto la storia non si impara solo sui libri, ma anche attraversando le nostre città con le loro piazze e le loro strade e il passato non si cancella solo perché si abbatte una statua o si bruciano dei libri, rimane inscritto nel nostro cuore e nella nostra mente, che si ribella all’oblio anche del negativo e della sua immane potenza.
Per tornare al termine icona, pensiamo all’analogia fra le icone scolpite o disegnate delle statue e dei quadri e a quelle presenti sui nostri monitor, esse hanno in comune la capacità di portarci altrove: quelle del computer aprendoci un programma o un sito altro rispetto a quello in cui ci troviamo, quelle cittadine rappresentandoci un passato che non sempre è stato benefico o veritiero, che ha conosciuto il bene e il male, il vero e il falso, la guerra e la pace, il razzismo e la convivenza pacifica. Sta a noi allora educare ed educarci a leggere queste tracce, piuttosto che a distruggerle, attraverso una scorciatoia negazionista, che incrementa la violenza e l’intolleranza.
Io non comprendo i bianchi che buttano giù statue, che ritirano dolci dal supermercato così come Calimero e Via col Vento dai palinsesti, i binari che scrivono per asterischi che non vi dico cosa ci farei ed i magri che osannano le grasse con mise improbabili, tutti convinti di fare un grande lavoro di inclusione.
Sapete che c'è? Che a me Zerocalcare mi sta proprio sulle palle ma ho letto un giorno una sua intervista dove, parlando di Resistenza, diceva: "il punto è che ci mettiamo sempre dalla parte delle vittime. La posizione della vittima, paradossalmente, è più facile perché non crea contraddittorio. Invece dovremo metterci dalla parte dei carnefici".
Ecco, finché continueremo a porci come vittime senza riconoscere che siamo "carnefici" c'è poco da fare, continueremo con queste miopie che mi fanno incazzare a bestia e che mirano non ad includere, ma ad escluderci. Escluderci dalle responsabilità, dai privilegi.
Peccato che le battaglie per la parità le facciano sempre persone (bianche) così ottuse, perché credo che ci sarebbe molto da fare.
#fanculogliasterischi