Ai sacerdoti, ai religiosi e a coloro che vogliono vivere una vita più religiosa


Due contributi per vivere più in profondità la vita religiosa (o per vivere una vita più religiosa). Il primo viene da Maurizio Patriciello che, su Avvenire, propone i "4 pilastri della vita di noi sacerdoti e consacrati" (il secondo, in basso, da un documento sulla formazione dei sacerdoti, "Lievito di fraternità"): 
Le indicazioni di papa Francesco sono chiare: preghiera, vita comunitaria, studio e apostolato per costruire la "casa sulla roccia".
Quattro pilastri. Il Papa indica a noi sacerdoti e consacrati quattro pilastri su cui edificare la nostra vita. Non inventa niente, Francesco, ma attinge dall’antico tesoro della Chiesa la sapienza per non smarrire la strada intrapresa.
Preghiera, innanzitutto. Chi ama sente il bisogno di rimanere cuore a cuore con la persona amata. Il linguaggio degli innamorati è unico, irripetibile, personale. Vale per quella coppia non per le altre. Quando si è soli, si comunica con la parola e col silenzio; con gli occhi, i gesti, le coccole. Chi consacra la sua vita a Dio lo fa perché di Dio si è perdutamente innamorato e sente il bisogno di rimanere solo con lui. Hanno da dirsi cose che gli altri potranno solo immaginare. Pregare per un consacrato non è facoltativo, ma più necessario del respiro. La preghiera dilata il cuore, purifica le intenzioni, allarga gli orizzonti. Dona forza, alimenta la speranza. La preghiera ti fa sentire piccolo e grande allo stesso tempo, un figlio debole che si rispecchia in un Padre misericordioso e giusto.
Vita comunitaria. Dopo il tempo del silenzio e della solitudine viene quello dello stare insieme ai fratelli ai quali doni quello che hai ricevuto. Dai quali attingi il frutto della loro fede e delle loro fatiche. Non provare imbarazzo a dire a chi ti sta accanto:« Ho bisogno di te, fratello, dei tuoi consigli, della tua sapienza, del tuo conforto». Non siamo lavoratori autonomi, non prestiamo servizio per una multinazionale, siamo missionari che, liberamente, hanno accolto l’invito di portare al mondo un Dio che non si vede. Prima di accogliere un messaggio, giustamente, la gente chiede: che garanzie mi date? «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» ci raccomandò Gesù. Nessuna fuga in avanti, dunque, nessuna nostalgia di un passato ormai passato, nessuna tentazione di dividere ciò che Dio ha unito, ma un continuo vigilare per rimanere attaccati a Lui e alla Chiesa come i tralci alla vite. Abbiamo bisogno di rimanere insieme, per condividere le gioie e i dolori, le sconfitte e i successi; per prendere sulle nostre spalle il peso del fratello anziano, malato o troppo giovane per camminare da solo e non smarrirsi. “Ti prego, fratello, stammi accanto quando la mia vita arranca. Quando il cielo si chiude e Dio si mette a giocare a nascondino. Ricordami che proprio in quei giorni mi è più vicino di quando, felice, correvo a perdifiato. Ripetimi ancora che “se il chicco non muore il grano non cresce”». Vita comunitaria. Per spezzare insieme il pane che nutre il corpo e il Pane che fa volare l’animo.
Alla preghiera e alla vita comunitaria, il Papa aggiunge lo studio. Non sempre è facile ma tanto necessario trovare il tempo per fermarsi, riprendere i libri e mettersi a studiare. Non per uno sterile e vanitoso amore del sapere, ma per meglio servire i fratelli che Gesù mette sul nostro cammino. Sono tanti, ognuno porta i suoi problemi, i suoi dolori, la sua fede. Occorre essere capaci di comprendere chi ci sta davanti per meglio aiutarlo, perché faccia ritorno a casa più leggero, perché si senta perdonato e amato dal Signore. Studiare per rispondere alle sfide del tempo presente. Lo studio ci fa crescere, ci rende umili. Studiare vuol dire ammettere che abbiamo ancora tanto da imparare per poter arrivare a dire: so di non sapere. Studiare, quindi, per meglio servire. Studio perché amo.
Infine, l’apostolato. Raccontare agli altri le grandi cose che Dio ha fatto e va facendo in te ti riempie di gioia. Puoi farlo con la voce, con gli scritti, con il canto, con la musica, con le opere. Lo fai con la preghiera, la Messa, lo studio, correndo da chi ha bisogno. Apostolo, cioè mandato. Non vai a nome tuo, ma a nome della Chiesa che a sua volta è stata inviata da Gesù. Non sei una monade, ma una goccia nel fiume vivo che da duemila anni scorre verso il Mare. La tua santità fa più bella la sposa di Cristo, il mio peccato la sporca, la insozza. La tua fedeltà attira gli uomini a Cristo, il mio egoismo li allontana. Con mia grande responsabilità. Chissà se nella tua vita di prete, di frate, di monaco, passerai inosservato o sarai conosciuto. Ma che importa? «Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome da gloria». Io non so suonare né so cantare ma ringrazio Dio per i fratelli che lodano il Signore con la musica e il canto. Tanti di noi non siamo mai andati, di notte, a portare il Vangelo a quelle sorelle così povere da svendere il proprio corpo, ringraziamo Dio per chi porta loro un raggio di luce. Siamo un corpo solo, quello che è mio è tuo; quello che è nostro è di tutti.
Il secondo contributo, più datato, ma sempre molto attuale, viene invece da un sussidio a cura della Segreteria generale della Conferenza episcopale italiana, intitolato Lievito di fraternità. Sussidio sul rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente. Ne propongo il 4° capitolo che stiamo meditando nella nostra comunità religiosa, ma che ha valore per ogni cristiano: 
"L'amicizia con il Signore"
 Il segreto del presbitero sta in quel roveto ardente che ne marchia a fuoco l’esistenza (papa Francesco)
     «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?» (Gv 21,16). Il dialogo tra il Risorto e Pietro, in cui culmina il Vangelo, riporta là dove tutto era iniziato, lungo le rive del lago, tra barche e reti di pescatori. Attorno al fuoco si intuisce come lo spessore della sequela, più che all’entusiasmo iniziale, sia affidato a una relazione che avvolge di misericordia i giorni dell’uomo, vincendone lontananze, povertà e tradimenti.
     «Mi ami tu?». Il presupposto e il fondamento, la stessa missione del pastore nella Chiesa, sono in continuo riferimento a questa domanda: solo nel vivere in maniera indivisa il legame con Gesù Cristo, la vita sacerdotale trova la propria terra; solo il rapporto d’amicizia e intimità con lui – volto autentico dell’uomo – abilita a servire i fratelli con la disponibilità della propria vita.
     «Mi ami tu?». La domanda non indaga, prima di tutto, competenze e abilità; e la risposta è in un umile rimettersi – «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» – che dà alla vita fondamento certo.
     Camminando su questa strada si evita di restare sedotti da promesse e proposte effimere; si smette di ruotare attorno a se stessi e ai propri interessi, fino a diventare sempre più suoi: se ne assumono i sentimenti e lo sguardo, così da vedere persone, cose ed eventi con i suoi occhi e il suo cuore, e riconoscerne l’azione nel mondo; ci si lascia plasmare dalla sua volontà, arrivando a condividerne i criteri, a partire dalla scelta preferenziale con i poveri.
     Non esiste un pascere il gregge che non sia sostanziato dall’incontro con Gesù e dal rimanere in lui, misteriosa e inestimabile ricchezza che relativizza ogni altra sicurezza, sostiene nelle responsabilità, moltiplica il fervore e le energie. Dalla qualità di questa relazione personale, coltivata nel tempo, dipende tutto il resto.
     Ne sgorga una passione grata e generosa per il popolo di Dio e una matura capacità di stare tra la gente, dove – con l’annuncio e i sacramenti – il presbitero è strumento che dischiude la possibilità di sperimentare la presenza salvifica del Risorto.
     Per evitare che l’avvicendarsi delle stagioni renda il ministero alla stregua di un mestiere, al presbitero è richiesto un serio cammino spirituale di amore a Cristo e alla sua Chiesa; un cammino che lo aiuti a far costante memoria del giorno della sua ordinazione, quando l’effusione dello Spirito e l’azione della Chiesa lo hanno raggiunto con un dono immeritato. Il presbitero-discepolo diventa così consapevole che la crescita interiore non è primariamente frutto del proprio sforzo, ma della disponibilità ad attingere continuamente alla fonte dalla quale è scaturito il suo ministero e che ha trasformato il suo desiderio di amore, rendendolo specchio dell’amore di Cristo, secondo l’azione dello Spirito del Signore (cf. 2Cor 3,18).
     Non per nulla papa Francesco osserva che, senza la conversione personale, restano inutili tutti i cambiamenti nelle strutture: la vera anima di ogni riforma sono gli uomini che ne fanno parte e la rendono possibile, rafforzando con la propria la conversione comunitaria.
     L’esperienza insegna anche come non sia il contatto con la gente a indebolire la vita spirituale, ma l’emarginazione della dimensione contemplativa. Di qui l’importanza di una frequentazione puntuale della parola di Dio, in maniera orante e «gratuita»: il dialogo con il Signore rimane condizione per comprenderlo e amarlo, fino a vivere di lui. Ne è fonte e culmine la celebrazione eucaristica, nella quale l’intera esistenza presbiterale è nascosta: il sacerdote vi trova il momento di massima comunione con Cristo e si ritrova ogni giorno restituito dai gesti che compie, dalle parole che dice e che ascolta, dall’assemblea che presiede. In altre parole, fa esperienza piena del suo essere di fronte a Dio per servirlo (cf. Preghiera eucaristica II) e, proprio per questo, si riscopre servitore dei fratelli per i quali spezza il pane della vita e offre il calice della salvezza.
     Ponendo la messa al centro del suo ministero, il presbitero colloca la sua preghiera all’interno di quella di Gesù, ne assume il pensiero e gli atteggiamenti: l’amore ricevuto diventa amore donato.
     Per questa sua centralità, dal presbitero la celebrazione dell’eucaristia è preparata quale momento cardine della formazione spirituale della comunità a lui affidata. Egli cerca di coinvolgere il maggior numero possibile di persone; crea un clima di fraternità che non trascuri il carattere sacro, e un clima di preghiera che non perda il calore umano del ritrovo comunitario; cura la predicazione, perché sia «realmente un’intensa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita» (Evangelii gaudium, 135; EV 29/2241). Ancora, educa a non venire alla messa a mani vuote, ma portando la propria richiesta di perdono, le proprie intercessioni, le proprie offerte spirituali e materiali, in modo che la partecipazione a Cristo divenga effettiva; ricorda che dall’eucaristia scaturisce la missione, che impegna ogni battezzato a rendere testimonianza non solo negli ambienti parrocchiali, ma sul lavoro e nella società, e ad andare con spirito accogliente verso i lontani e gli ultimi.
     Dilatata nell’adorazione e nella liturgia delle ore, l’eucaristia diventa così la sorgente primaria della gioia del prete e della sua comunità. Più di ogni altro strumento di collaborazione o partecipazione, essa edifica la Chiesa e il presbiterio nella comunione. Quest’ultima si alimenta mediante:
la concelebrazione nelle occasioni più significative, l’armonizzazione degli orari delle liturgie, la pratica della lectio divina con i confratelli e i fedeli, la disponibilità a narrare la propria esperienza di fede; gli esercizi spirituali, quale tempo di ritiro e di distacco dalle normali occupazioni per ritrovarsi in un clima di silenzio e, quindi, di libertà.
     Il presbitero, attento a curare la propria formazione permanente, verifica il posto che queste forme ordinarie hanno nella sua vita di discepolo e pastore: ne custodisce i frutti, rivitalizzando le radici del ministero e della dedizione alla Chiesa. In questa tensione alla santità si giocano la sua identità e la stessa efficacia della sua pastorale. La vita interiore non può prescindere dal confronto costante con una guida spirituale: un ministero, quest’ultimo, di cui si avverte ancor più l’importanza, a fronte della difficoltà a individuare figure esperte che vi si dedichino pienamente.
     Tale penuria lascia un vuoto di riferimenti, espone all’indifferenza rispetto ai propri errori, crea l’alibi di sentirsi dispensati dal sacramento della riconciliazione. In realtà, solo chi evita la tentazione farisaica di ritenersi spiritualmente a posto, può sperimentare il perdono di Dio e divenirne strumento: per essere buoni confessori occorre riconoscersi umili penitenti. Il presbitero che si lascia aiutare, sa guardare ogni giorno con stupore e riconoscenza al dono ricevuto; matura la coscienza di essere un peccatore al quale è stata usata misericordia. Non fatica, quindi, a riconoscersi nel paralitico che Gesù ha liberato dalla sua infermità, nel lebbroso che egli ha mondato, nel cieco al quale ha restituito la vista, nel pubblicano che al tempio non osa alzare lo sguardo, nell’uomo incappato nei briganti e rialzato, nell’operaio accolto nella vigna all’ultima ora.
     Davanti alla frammentazione a cui il ministero oggi è particolarmente esposto, diventa ancora più preziosa l’assunzione di una «regola di vita»: essa educa il presbitero a essere con Cristo e a vivere per Cristo, secondo una gestione del tempo che consente di mettere ordine alla propria giornata, a partire dalla consapevolezza che la cura della vita interiore rimane la prima attività pastorale. Senza un sano equilibrio di preghiera e ministero, come di riposo e lavoro, si rimane esposti all’urgenza del momento e ci si riduce a reagire alle richieste che strattonano maggiormente, trascurando altre attività pastorali e lo stesso rapporto con i confratelli. Si rischia, allora, di cadere facilmente nella sfiducia e nella lamentela, prigionieri di uno sfinimento cronico che impedisce al pastore la disponibilità all’ascolto della propria gente e lo priva di quella gioia contagiosa di cui, in forza del suo incontro con il Signore Gesù, dovrebbe essere l’autentico portatore.

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