Altro fatto rilevante di cronaca ecclesiale di questi ultimi giorni è scaturito dalla decisione di papa Francesco di ritoccare il Catechismo della Chiesa Cattolica (modificando il punto numero 2267) eliminando ogni possibilità di giustificare il ricorso alla pena di morte. Ecco il commento su Aleteia che lo descrive come atto dovuto a cui molti hanno reagito in maniera esagitata:
da un lato quelli che inneggiavano a “gesto epocale”, dall’altro quelli che si stracciavano le vesti per “l’ennesimo scardinamento dottrinale”. Va da sé, ma a questo punto meglio ribadirlo, che nessuna delle due definizioni è calzante: come ha ben scritto il cardinal Ladária, si tratta sì di “un autentico sviluppo della dottrina”, ma pure di uno sviluppo autentico, cioè vero e proprio, congruo alla sostanza trattata e conforme all’autorità responsabile.
E – come spiega bene il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – si tratta di una modifica postulata già da tempo, perlomeno dalla Evangelium vitæ di Giovanni Paolo II (25 marzo 1995), che seguì di tre anni la prima redazione del Catechismo della Chiesa Cattolica. Desta stupore in effetti come certuni considerino intoccabile un testo (autorevolissimo, sì, ma) per sua natura compilativo: l’autorità del Catechismo deriva infatti da quella della Chiesa (ciò che non vale – non allo stesso modo, ad essere precisi – per la Scrittura), e se il supremo legislatore della Chiesa intende intervenire a ritoccarlo, è suo preciso diritto (e dovere) farlo.
Ma come e perché ciò accada avevo provato a spiegarlo già ieri, con un rapido commento sui social. Lì osservavo che la “Dottrina” si divide in varie branche, tra cui distinguiamo per comodità:
- De fide (tutto ciò che riguarda il contenuto del depositum fidei)
- De fide revelata (ad esempio il Regno di Dio)
- De fide definita (ad esempio la consustanzialità del Figlio al Padre)
- De fide revelata et definita (ad esempio il dogma cristologico calcedonese).
Poi ci sono questioni di morale e di disciplina, che dipendono più o meno direttamente dalle questioni de fide, e che sono tanto più riformabili quanto più sono distanti dai contenuti veri e propri della fede cattolica.
Chiunque vede bene che la moralità della pena di morte è molto (ma molto) distante da qualsivoglia contenuto della fede cristiana: desta stupore che si debba spiegare che è il diritto alla legittima difesa a doversi conciliare con il decalogo e col comandamento nuovo… e non il contrario.
A chi poi sappia anche leggere un poco i documenti sarà evidente che già Giovanni Paolo II fece tutto quanto poteva, dopo l’abolizione della pena capitale nello Stato Pontificio (Paolo VI), scrivendo nel Catechismo che nelle attuali condizioni dello stato civile e sociale la pena di morte resta solo teoricamente ammissibile ma praticamente sempre da scartare. Dopo di questo Benedetto XVI si fece più audace nel chiedere addirittura alla comunità degli Stati di abolire in toto la pena di morte, e dunque il rescritto di Francesco, col quale si ritocca quel (nient’affatto irriformabile) articolo del CCC, è non solo lecito ma un esito naturale e prevedibile del recente trend magisteriale. Si potrebbe ravvisare in questo caso un esempio pratico dell’ermeneutica della riforma nella continuità di cui parlava Benedetto XVI nel celeberrimo discorso di Natale alla Curia Romana del 2005. (...)
Vedi anche l'articolo di UCCR