Per Francesco
«educare è una delle arti più appassionanti dell’esistenza, e richiede
incessantemente che si amplino gli orizzonti». Su “La Civiltà Cattolica” padre
Spadaro esamina sette “colonne” del pensiero educativo del Papa maturato prima
di diventare pontefice.
La sfida
educativa è al centro dello sguardo dell’attuale Pontefice da sempre. Come
egli stesso ha rivelato in una nostra intervista del 2016, da parroco a San
Miguel si occupava di pastorale giovanile e di educazione. Quotidianamente
ospitava i ragazzini negli spazi molto grandi del Collegio annesso: «Io dicevo
sempre la Messa dei bambini e il sabato insegnavo il catechismo». E lo faceva
anche organizzando spettacoli e giochi, che in quella intervista descrive nel
dettaglio. Da qui viene la sua capacità spontanea di stare con i bambini. Ma
già da studente gesuita in formazione Bergoglio ebbe un’esperienza scolastica
che ha lasciato il segno. Fu inviato dai suoi superiori a insegnare letteratura
in due licei dei gesuiti. Egli tuttavia non si fermava alle lezioni in
cattedra: al contrario, spingeva i suoi ragazzi alla composizione creativa –
fino a coinvolgere il grande Jorge Luis Borges nelle sue attività -, ma anche
al teatro e alla musica. L’azione educativa allora era legata all’esperienza
artistica e creativa, e proprio da questa Bergoglio riusciva a far emergere la
dimensione più ampiamente umana e spirituale.
Un esempio
inedito per comprendere meglio: José Hernàn Cibils, oggi musicista in
Germania e allora alunno del ventottenne Bergoglio, conserva ancora oggi il
commento del professore di allora a una sua esercitazione sulla Hora undécima
della scrittrice Marja Esther de Miguel. L’alunno riteneva che il messaggio
finale dell’opera fosse che la negazione di sé e la mortificazione portino a
Dio. Bergoglio commentava elogiando il lavoro fatto dallo studente, ma
proponeva un cambiamento nella formulazione del messaggio finale che gli
sembrava troppo negativo; e annotava: «La dedizione è frutto dell’amore», non
della mortificazione. Concludeva tra parentesi con un messaggio personale per
José: «Chiaro che stai attraversando un periodo di negatività». L’esposizione
all’esperienza creativa o il suo esercizio generano una dinamica che coinvolge
psicologicamente e spiritualmente la persona. Questa esperienza da studente
gesuita e poi da sacerdote ha formato Bergoglio come pastore e vescovo di
Buenos Aires. Considerando questo tempo episcopale e leggendo la raccolta
completa dei suoi interventi pastorali, recentemente raccolti in un unico
volume, ci si rende conto che un terzo di essi – tra omelie, lettere e messaggi
– sono dedicati agli educatori (docenti, catechisti, animatori ecc.). Il tema
non è stato ancora adeguatamente approfondito, e bisognerebbe ricercare anche
tra le fonti e le ispirazioni che Bergoglio ha avuto presenti nello sviluppare
il suo approccio. Qui di seguito intendiamo presentare – senza voler essere
esaustivi – sette facce di questo poliedro che è l’educazione per Francesco,
così come sono maturate nel suo ministero episcopale.
Educare è
integrare
È importante
innanzitutto comprendere che l’arcivescovo Bergoglio inquadra l’educazione
sempre all’interno di una visione ampia della società, come un contesto vitale
di incontro e di assunzione di impegni comuni per la costruzione della
comunità civile.
Educare,
dunque, significa costruire una nazione: «Il nostro compito educativo ha
scritto – deve risvegliare il sentimento del mondo e della società come casa.
Educazione “per abitare”». La nazione e il mondo per Bergoglio sono innanzitutto
«casa», luogo da abitare, dimensione domestica. L’educazione non è un fatto
esclusivamente individuale, ma popolare. In un incontro con alcuni suoi ex
alunni di liceo, nel 2006, egli disse: «Spero che le loro vite facciano storia
al di là della storia personale di ognuno; che siano ricordati per quello che
hanno realizzato insieme, e che siano
di ispirazione
per altri ragazzi sul cammino della creatività». Bergoglio ha sempre
considerato la scuola come un mezzo importante d’integrazione sociale e nazionale,
uno dei pilastri principali per la costruzione del senso di comunità, del
vivere insieme. Ne troviamo la riprova in una sua riflessione sui migranti
interni all’Argentina che risale al 2002: «Il migrante dell’interno che
arrivava nella città, e finanche lo straniero che sbarcava su questa terra
hanno trovato nell’educazione di base gli elementi necessari a trascendere la
particolarità della loro origine per cercare un posto nella costruzione comune
di un progetto. Anche oggi, nella pluralità arricchente delle proposte
educative, dobbiamo tornare a scommettere tutto sull’educazione».
Il compito
educativo non è teso solamente a potenziare se stessi, ma ad aiutare le
persone a costruire un futuro insieme, una storia condivisa. Chi migra e arriva
in una nuova terra ha nell’educazione lo strumento e il contesto fondamentale
per trascendere se stesso e la propria storia e inserirsi all’interno della sua
nuova casa. Un elemento centrale di questa costruzione sociale è dunque l’integrazione.
«Lo Stato deve farsi carico del compito di integrare », scriveva Bergoglio nel
2001, in occasione delle Giornate arcidiocesane della pastorale sociale, e lo
ha ripetuto tante volte. «Integrare», del resto, è una delle chiavi importanti
per comprendere il pontificato di Francesco.
Accogliere e
celebrare le diversità
Un altro
elemento centrale per la costruzione sociale è l’accoglienza delle diversità.
Rivolgendosi a docenti cattolici, Bergoglio nel 2012 affermò: «Come docenti
cristiani vi propongo di aprire la mente e il cuore alla diversità, che è
caratteristica sempre più ricorrente delle società di questo nuovo secolo».
Che cosa significa esattamente? Bergoglio così lo spiega alle comunità
educative della diocesi: «Dialogo e amore implicano che nel riconoscimento
dell’altro come altro vi sia l’accettazione della diversità. Soltanto così è
possibile fondare il valore della comunità: non pretendendo che l’altro si
sottometta ai miei criteri e alle mie priorità, non “assorbendo” l’altro, ma
riconoscendo valido ciò che l’altro è, e celebrando quella diversità che ci
arricchisce tutti. Altrimenti si tratta soltanto di narcisismo, di mero
imperialismo, di stoltezza ». Le differenze vanno considerate come «sfide», ma
sfide positive, risorse, non problemi. E ciò ha come conseguenza immediata la
lotta a ogni forma di discriminazione: «Combattiamo, dalle nostre scuole, ogni
forma di discriminazione e di pregiudizio. Impariamo e insegniamo a dare, sia
pure con le scarse risorse delle nostre istituzioni e delle nostre famiglie. E
questo deve manifestarsi in ogni decisione, in ogni parola, in ogni progetto.
Così cominceremo a porre un segno chiarissimo – anche polemico e conflittuale,
se necessario – della società diversa che vogliamo creare», Pertanto, il compito
educativo è legato alla costruzione di una società e di un futuro insieme
come popolo. E ciò implica lavorare per l’integrazione e per il riconoscimento
delle diversità come ricchezze da non omologare o appiattire, ma da
valorizzare per il bene di tutti.
Affrontare il
cambiamento antropologico
Il grande
sfondo sul quale si proietta il compito educativo è il cambiamento
antropologico. Bergoglio è stato sempre consapevole che l’uomo e la donna oggi
stanno interpretando se stessi in maniera diversa dal passato, con categorie
diverse anche da quelle a loro familiari. L’antropologia a cui la Chiesa ha
tradizionalmente fatto riferimento e il linguaggio con il quale l’ha espressa
sono una base solida, frutto anche di saggezza ed esperienza secolare. Tuttavia,
sembra che l’uomo a cui la Chiesa si rivolge non riesca più a comprenderli
come una volta. La Chiesa dunque è chiamata a confrontarsi con l’enorme sfida
antropologica. Paolo VI, tanto stimato da Francesco, aveva scritto che
evangelizzare significa «portare la Buona Novella in tutti gli strati
dell’umanità che si traslormano»; altrimenti, egli proseguiva, l’evangelizzazione
rischia di trasformarsi in una decorazione, in una verniciatura superficiale.
Francesco ha confermato questo atteggiamento nella sua conversazione con i
Superiori generali degli ordini religiosi, poi pubblicata su La Civiltà
Cattolica. In quella sessione di domande e risposte egli ha affermato che
l’educatore «deve interrogarsi su come annunciare Gesù Cristo a una
generazione che cambia». Questo è il punto: «Il compito educativo oggi è una
missione chiave, chiave, chiave!». Per essere più chiaro, ha portato alcuni
esempi, citando alcune sue esperienze da vescovo a Buenos Aires sulla
preparazione che si
richiede per
accogliere in contesti educativi bambini, ragazzi e giovani che vivono
situazioni di disagio in famiglia. In particolare, ha fatto questo esempio:
«Ricordo il caso di una bambina molto triste che alla fine confidò alla
maestra il motivo del suo stato d’animo: “La fidanzata di mia madre non mi vuol
bene”. La percentuale di ragazzi che studiano nelle scuole e che hanno i
genitori separati sono elevatissime». Sono due situazioni differenti, ma che
pongono chiaramente sfide complesse: quella dei figli di genitori divorziati, e
quella dei figli che si trovano a vivere avendo come riferimento domestico due
persone dello stesso sesso. Francesco sa perfettamente che le sfide educative
oggi non sono più quelle di una volta. Sa che – sono parole sue – «le
situazioni che viviamo oggi pongono sfide nuove, che a volte sono persino
difficili da comprendere». Occorre annunciare il Vangelo a una generazione
soggetta a rapidi mutamenti, a volte troppo complessi e difficili da accettare
o da capire. Ecco le sue domande: «Come annunciare Cristo a questi ragazzi e
ragazze? Come annunciare Cristo a una generazione che cambia?». E infine il suo
appello: «Bisogna stare attenti a non sommini- strare ad essi un vaccino contro
la fede».
Bergoglio afferma una
cosa fondamentale: la sfida educativa si lega alla sfida antropologica. Non si
può assumere l’atteggiamento dello struzzo e fare «come se» il mondo fosse
diverso. Questo approccio realista caratterizza tutta la riflessione pedagogica
di Bergoglio, che parte sempre dal dato concreto, dalla persona che ha davanti
con la sua storia.
L’inquietudine come motore educativo
Un quarto aspetto
centrale nel poliedro educativo di Bergoglio è senz’altro l’inquietudine,
intesa come motore dell’educazione. In un’omelia egli interroga i suoi
interlocutori, che sono educatori, con una raffica di domande appuntite. È il
caso di leggerle di seguito: «Il ragazzo sa riconoscere il patrimonio che ha
ricevuto? [ … ] Oppure il ragazzo è stato “addomesticato” dalle situazioni
contingenti e non sa riconoscere in questo orizzonte ciò che ha ricevuto e
vive come se non avesse avuto nulla? D’altra parte, ciò che ha ricevuto non
deve essere custodito in una scatola, conservato, ma deve essere vissuto e
trasformato oggi! Questi ragazzi, questi giovani sanno trasformare oggi ciò
che hanno ricevuto? Sanno accogliere questo patrimonio? […] Questi ragazzi
elaborano progetti? Hanno sogni?». Qui c’è un chiaro rifiuto dell’educazione
intesa come «addomesticamento ». Come è anche chiaro che l’eredità che passa
all’interno dell’educazione non è un tesoro in scatola. Non è un passaggio di
scatole. Tutt’altro. Bergoglio afferma che l’unico modo per riguadagnare l’eredità
dei padri è la libertà. In definitiva, ciò che ricevo è mio solamente se
attraversa la mia libertà. E non c’è libertà se non c’è l’inquietudine.
Nulla è mio se non attraversa la mia inquietudine e tocca il mio cuore. Per
Bergoglio, la maturità non coincide con l’adattamento. «Lo stesso Gesù – egli
afferma in modo provocatorio – per molte persone del suo tempo sarebbe potuto
rientrare nel paradigma dei disadattati e quindi immaturi ». Nello stesso
Messaggio, argomenta: «Se la maturità fosse un puro e semplice adattamento, la
finalità del nostro compito educativo consisterebbe nell’ “adattare” i ragazzi,
queste “creature anarchiche”, alle buone norme della società, di qualunque
genere siano. A quale costo? A costo della censura e dell’assoggettamento della
soggettività o, peggio ancora, a costo della privazione di ciò che è più
proprio e sacro della persona: la sua libertà». Ciò che ho ereditato mi
appartiene, perché si è avvicinato alla mia inquietudine e l’ha attraversata,
impastandosi con me e lanciandomi verso un futuro da costruire. Se l’eredità
non passa per l’inquietudine, si pietrifica, diventa un museo di ricordi.
Mahler diceva che fedeltà a ciò che ci è stato tramandato significa tenere
vivo il fuoco, e non adorare le ceneri. Tenere vivo il fuoco significa
alimentarlo, ripensando e ripescando la forza vitale. Altrimenti cadiamo nel
moralismo, nel formalismo, e dunque nella noia. Bergoglio ama la posizione
esistenziale di Agostino, e più volte ha parlato della «pace
dell’inquietudine». In particolare, ricevendo in udienza gesuiti e
collaboratori della nostra rivista, aveva chiesto: «Il vostro cuore ha
conservato l’inquietudine della ricerca? Solo l’inquietudine dà pace al cuore
di un gesuita. Senza inquietudine siamo sterili». L’inquietudine agostiniana e
ignaziana ci rende generativi.
Ciò che noi
ereditiamo dai nostri padri è innanzitutto questo: la saggezza di una
inquietudine che ci porta a cercare, a uscire da noi stessi, a vivere una
trascendenza. «Dove c’è vita c’è movimento, dove c’è movimento ci sono
cambiamenti, ricerca, incertezze, c’è speranza, gioia e anche angoscia
e desolazione».
Scriveva ancora Bergoglio in un Messaggio agli educatori: ‘Un ragazzo
“inquieto” […] è un ragazzo sensibile agli stimoli del mondo e della società,
uno che si apre alle crisi a cui va sottoponendolo la vita, uno che si ribella
contro i limiti e, d’altra parte, li reclama e li accetta (non senza dolore),
se sono giusti. Un ragazzo non conformista verso i cliché culturali che gli
propone la società mondana; un ragazzo che vuole imparare a discutere».
Quindi, occorre «leggere» tale inquietudine e valorizzarla, perché tutti i
sistemi che cercano di «acquietare» l’uomo sono pericolosi: conducono, in un
modo o nell’altro, al quietismo esistenziale.
Una pedagogia della domanda
Una forma specifica di
anarchismo e irrequietezza è quella che Bergoglio attribuisce al bambino. Ma
essa appare significativa per l’educatore. La vitalità di un bambino è in
prima istanza una sfida che misura la capacità di chi gli sta accanto di
uscire da schemi troppo rigidi. Questo sguardo trasmette in un cuore giovane o
adolescente «il calore che nasce da un cuore maturo per memoria, per lotta, per
difetti, per grazia, per peccato». Se questo sguardo ha forza, ha tenuta,
allora il giovane potrà soffrire nella vita sì, ma in tempo di crisi non
impazzirà, perdendo il «nord», l’orientamento. Questo sguardo è anche capace
di imparare a «scoprire», «contemplare» e «intuire» le domande dei più
giovani, che a volte non riescono a esprimere in maniera compiuta e con
chiarezza le loro necessità e i loro interrogativi. «Non bisogna mai
rispondere a domande che nessuno si pone », ha scritto il Papa nell’Evangelii
gaudium (n. 155). Questo resta un criterio fondamentale per l’educazione e la
pastorale. In tal senso, la catechesi non deve mai correre il rischio di trasformarsi
in un indottrinamento insipido, in una frustrante trasmissione di norme morali.
Questo porta
Bergoglio, nell’omelia della Messa per l’educazione del 18 aprile 2007, a porre
domande da leggere integralmente, perché aiutano a fare un’importante verifica,
quasi un «esame di coscienza » dell’educatore: «Abbiamo il cuore abbastanza
aperto da lasciarci sorprendere ogni giorno dalla creatività di un bambino,
dalle speranze di un bambino? Mi lascio sorprendere dai pensieri di un bambino?
Mi lascio sorprendere dalla sincerità di un bambino? Mi lascio sorprendere
anche dalle mille monellerie di un bambino, dei tanti ineffabili “Pierino” che
si trovano nelle nostre classi? Ho il cuore aperto o l’ho già chiuso,
sigillato in una specie di museo di conoscenze acquisite, di metodi assodati,
in cui tutto è perfetto e devo applicare questi contenuti, ma non devo
ricevere nulla? Ho un cuore ricettivo e umile per vedere la freschezza di un
bambino? Se non ce l’ho, può incombere su di me un rischio molto serio: il mio
cuore può diventare stantio. E quando il cuore di un genitore, di un
educatore, diventa stantio, il bambino rimane con i cinque pani e i due pesci,
senza sapere a chi darli; le sue speranze rimangono frustrate, la sua
solidarietà è vanificata».
Di qui l’appello agli
educatori a essere «audaci e creativi». Non solamente a resistere davanti a una
realtà avversa, dunque, né tantomeno a diventare funzionari fondamentalisti,
legati a rigide pianificazioni. L’appello è a «creare», a «posare i mattoni di
un nuovo edificio in mezzo alla storia», a esprimere il genio e l’anima. La
creatività infatti è la «caratteristica di una speranza attiva», perché si
fa carico di ciò che c’è, della realtà, e trova «la via per manifestare
qualcosa di nuovo a partire da là».
A questa impostazione
aperta e di largo respiro corrisponde una concezione inclusiva della «verità».
In un discorso agli educatori molto illuminante, Bergoglio afferma: «Dobbiamo
avanzare verso un’idea di verità sempre più inclusiva, meno restrittiva;
almeno, se stiamo pensando alla verità di Dio e non a qualche verità umana,
per quanto solida possa apparirei. La verità di Dio è inesauribile, è un
oceano di cui a stento vediamo la sponda. È qualcosa che stiamo cominciando a
scoprire in questi tempi: a non renderci schiavi di una difesa quasi paranoica
della “nostra verità” (se io “ce l’ho”, lui non “ce l’ha”: se lui “può averla”,
allora sono io che “non ce l’ho”). La verità è un dono che ci sta grande, e
proprio per questo ci ingrandisce, ci amplifica, ci eleva. E ci fa servitori di
un simile dono. E questo non comporta relativismi: la verità invece ci obbliga
a un continuo percorso di approfondimento della sua comprensione ».
Ritroviamo
un’applicazione concreta di questa pedagogia in un passaggio chiave di un suo
discorso alle scuole cattoliche, che tutto devono essere tranne che scuole di
«ideologia». Dichiara Bergoglio: «Le nostre scuole non devono affatto aspirare
a formare un esercito egemonico di cristiani che conosceranno tutte le risposte,
ma devono essere il luogo dove vengono accolte tutte le domande; dove, alla
luce del Vangelo, s’incoraggia giustamente la ricerca personale e non la si
ostruisce con muri verbali, muri del resto piuttosto deboli e che cadono
irrimediabilmente poco tempo dopo. La sfida è più grande: richiede
profondità, richiede attenzione alla vita, richiede di guarire e di liberare
da idoli».
C’è in questo
appello una sintesi piena e matura della visione di Bergoglio. La strada della
ricerca e della domanda aiuta a formare una personalità adulta, capace di fare
scelte con discernimento e di aderire alla fede con piena maturità.
Non maltrattare
i limiti
Una sesta
colonna dell’edificio educativo che Bergoglio ha costruito nei suoi anni di
episcopato argentino è una chiara consapevolezza dei limiti. La dimensione
dell’inquietudine e della tensione verso l’oltre deve accompagnarsi a questa
necessaria consapevolezza. Parlando agli educatori nel 2003, Bergoglio
affermava l’esigenza di «creare a partire da ciò che esiste», e dunque senza
idealismi. «Ma questo comporta – scriveva – che si sia capaci di riconoscere le
differenze, i saperi preesistenti, le aspettative e finanche i limiti dei
nostri ragazzi e delle loro famiglie». Più direttamente, alcuni anni dopo, egli
sottolineava che «l’accompagnamento si risolve nella pazienza, nella hypomoné,
che accompagna processi senza maltrattare i limiti».
Questo atteggiamento di non maltrattare o di «accarezzare» i limiti è un altro
aspetto essenziale della pedagogia di Bergoglio. Nella sua esortazione
apostolica Amoris laetitia (AL) che può e deve essere letta anche come un
testo di pedagogia – il Papa afferma che la tenerezza «si esprime in
particolare nel volgersi con attenzione squisita ai limiti dell’altro, specialmente
quando emergono in maniera evidente » (AL 323).
Andare al di
là dei limiti implica sempre un processo di sviluppo, nel quale coesistono una
fiducia innata nella grazia che cresce da sola e una cura attenta delle piccole
cose. Più che a un atteggiamento di ottimismo, qui siamo davanti a un
atteggiamento di fiducia che punta sul processo possibile nel tempo più che
sulla staticità della condizione. Non si può essere educatori se non si ha
un’apertura fiduciosa, capace di «prendersi cura».
Vivere una
fecondità generativa e familiare
Questa
pedagogia vivace, che fa leva sull’inquietudine e sulle domande, ha una
concezione inclusiva della verità e un’impostazione di largo respiro: si fonda
sul fatto che l’educazione non è una tecnica, ma una fecondità generativa. È
questo un aspetto fondamentale della visione educativa di Bergoglio. La
dimensione generativa e genitoriale innerva dalle radici la sua concezione del
compito educativo, che deve essere forgiato da uno sguardo di famiglia. L’attuale
Pontefice parlava proprio di uno sguardo di padre e di madre, di fratello e di
sorella.
Colpisce in
particolare una sua espressione: «Dialogare è avere capacità di lasciare
eredità». L’eredità è una cosa che passa di mano in mano all’interno di una
famiglia. Specifica Bergoglio: «Nel dialogo recuperiamo la memoria dei nostri
padri, l’eredità ricevuta … per farla crescere con noi … Tramite il dialogo
prendiamo coraggio … spunta il coraggio di lanciare questa eredità impegnata
con il presente verso le utopie del futuro e di compiere il nostro dovere di
far crescere l’eredità ricevuta attraverso impegni fecondi di utopie future».
Da queste parole trapela tutta la ricchezza propria del dialogo di esperienze e
di atteggiamento nei confronti della vita.
Dagli scritti
di monsignor Bergoglio si comprende inoltre che egli crede molto nelle
narrazioni. Solo nel racconto è possibile passare cose da una generazione
all’altra. In questo senso, uno dei temi fondamentali trattati è il rapporto
familiare tra giovani e anziani, i due «scarti» delle nostre società attuali.
I giovani sono il futuro, l’energia. Gli anziani sono la saggezza. Il figlio
assomiglia al padre, ma è diverso. Un figlio non è un clone.
L’educazione
è un fatto familiare che implica il rapporto tra le generazioni e il racconto
di un’esperienza. C’è un ponte che va stabilito tra le generazioni. Ed è
questo ponte a essere il contesto di un’educazione intesa come il passaggio di
un’eredità viva.
L’eredità si
accompagna sempre a un brivido, perché lega passato e futuro. Il Papa ha detto
di recente a un gruppo di ragazzi di scuola media: «Dobbiamo imparare a
guardare la vita guardando orizzonti, sempre più, sempre più, sempre avanti».
E questo dà un brivido. Ecco dunque il consiglio agli educatori: «Sfidiamoli
più di quanto loro ci sfidano. Non lasciamo che la “vertigine” la ricevano da
altri, i quali non fanno che mettere a rischio la loro vita: diamogliela noi.
Ma la vertigine giusta, che soddisfi questo desiderio di muoversi, di andare
avanti».
Comprendiamo
allora che l’eredità, che si trasmette di padre in figlio, è un’eredità di
inquietudini. Ecco il punto: per Bergoglio, i padri, gli anziani sono coloro
che «sognano». Egli infatti ha meditato a lungo sul libro di Gioele, là dove
si dice: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo […]; i vostri anziani
faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni » ( Gl 3,1). Le visioni sul
futuro che i giovani riescono a elaborare si fondano sul sogno di chi li ha
preceduti. Non è il giovane a essere sognatore, dunque, ma l’anziano! Il
giovane invece ha «visioni », immagina il futuro, e così lo costruisce in
speranza.
La mancanza di
padri «capaci di narrare sogni non permette alle giovani generazioni di “avere
visioni”. E rimangono ferme. Non permette loro di fare progetti, dal momento
che il futuro genera insicurezza, sfiducia, paura». Che cosa aiuta ad alzare lo
sguardo? Solo la testimonianza dei padri, «vedere che è stato possibile
lottare per qualcosa che valeva la pena».
Questa dinamica
non permette di strutturare la vita come una «bottega di restauro », come
vorrebbero i tradiziona-listi, e neppure come un «laboratorio di utopia», come
vorrebbe chi cerca di restare sempre sulla cresta dell’onda. Il compito
educativo è, dunque, un impegno per la storia. Un popolo è una realtà
storica, si costituisce nel corso di molte generazioni.
Tre parole
chiave
Abbiamo
presentato rapidamente sette “colonne” del pensiero educativo di papa Francesco
così come si è formato fino all’elezione al pontificato. La riflessione su di
esse può aiutare a comprendere meglio il magistero educativo che il Papa ha
sviluppato nei cinque anni compiuti dal giorno della sua elezione al soglio di
Pietro. Abbiamo individuato sette elementi fondamentali: l’educazione come
fatto popolare che aiuta a costruire il futuro di una nazione; la necessità di
accogliere e integrare le diversità come ricchezza; la lungimiranza e il
coraggio di affrontare le nuove sfide antropologiche, anche quelle che facciamo
fatica a comprendere; l’inquietudine come motore educativo; la domanda e la
ricerca come metodo; la consapevolezza e l’accoglienza dei limiti; la
dimensione familiare e generativa del rapporto educativo. Se verifichiamo i
titoli dei volumi nei quali l’allora monsignor Bergoglio aveva raccolto alcune
sue riflessioni pedagogiche, troviamo tre parole chiave che connotano
l’educazione: scelta, esigenza e passione.
Ma vi è
un’espressione estremamente sintetica che Bergoglio ha scritto agli educatori e
con la quale possiamo rilanciare a questo punto la nostra azione: «Educare è
una delle arti più appassionanti dell’esistenza, e richiede incessantemente
che si amplino gli orizzonti».