XXXIII domenica del tempo ordinario: "la parabola dei TALENTI"
Dopo la
parabola delle 10 vergini (5 stolte e 5 sagge) di domenica scorsa ecco ora la
parabola dei talenti, talmente nota da aver dato un diverso significato alla
parola stessa:
i “talenti”
erano delle monete preziosissime (qualcuno
ha calcolato che sia pari a circa 26 Kg di argento, al guadagno di circa 20
anni di lavoro "ordinario"), oggi indicano le attitudini, le capacità
che ciascuno riconosce di avere.
Siamo sempre nel capitolo 25 di Matteo che si
concluderà con il discorso sul “Giudizio finale” che ascolteremo domenica
prossima, la solennità di Cristo Re che chiuderà l’anno liturgico.
In questo capitolo Matteo ha raccolto i discorsi di
Gesù sulla fine dei tempi, sul suo ritorno glorioso (la Parusia) e dunque sull’attesa
di questo evento che cambierà le sorti dell’umanità e del cosmo intero.
Il suo ritorno, ci diceva domenica scorsa, è come
quello di uno sposo che ci invita a prendere parte alla sua festa di nozze. A
condizione di attenderlo vigilanti: con una lampada accesa, ma anche con del
combustibile di scorta. Fuori metafora: con la luce fioca, ma fondamentale
della FEDE che necessita del combustibile della carità, della Parola di Dio
vissuta concretamente, della preghiera, perché la fede non si spenga e muoia.
In questa seconda parabola Gesù si paragona ad un ricco
proprietario che parte per un lungo viaggio e affida le sue ricchezze ai suoi servi:
si fida di loro e, considerato il loro grande valore, non importa se
i talenti affidati siano 1 o 2 o 5, ma l'uso che ne viene fatto (e il rapporto
di fiducia col padrone).
I primi due servi si impegnano per raddoppiare il “capitale”,
il terzo, per paura del padrone, lo nasconde sotto terra assicurandosi così di
potergli restituire ciò che ha ricevuto.
Cosa ci vuole dire? Dio dona a tutti noi qualcosa di
inestimabile, di preziosissimo: innanzitutto la vita stessa e poi alcune
capacità che, come un seme, siamo chiamati a far germogliare, crescere e
fruttificare per il bene di tutti. Ne siamo RESPONSABILI e così collaboriamo al
progetto di vita di Dio. Rispetto al seme ricevuto, i frutti ricavati hanno
maggior valore, ma senza quel seme di partenza non avremmo ricavato nulla.
Gesù non tornerà per prendere il suo con gli interessi,
ma per far giustizia e aprirci alla sua gloria: “Bene, servo BUONO e FEDELE,
prendi parte alla GIOIA del tuo padrone”. “Noi – scrive Ermes Ronchi – non viviamo
per restituire a Dio i suoi doni. Ci sono dati perché diventino a loro volta
seme di altri doni”.
Attenzione: “chi consegna dieci talenti non è più bravo
di chi che ne consegna quattro. Le bilance di Dio non sono quantitative, ma
qualitative. Non ci sono dieci talenti ideali da raggiungere: c'è da camminare
con fedeltà a ciò che hai ricevuto, a ciò che sai fare, là dove la vita ti ha
messo, fedele alla tua verità, senza maschere e paure” (E. Ronchi).
Il terzo servo, quello che riceve un talento,
formalmente non ha nessuna colpa: riceve un talento e, al ritorno del padrone,
è pronto a riconsegnarlo. Per fare questo lo ha messo al sicuro nascondendolo
sotto terra. Qual'è il problema? Cosa fa di lui un servo "malvagio e
pigro" meritevole di "pianto e stridore di denti"?
Per rispondere occorre tornare a riflettere su cosa
rappresenti il simbolo del talento: cosa riceviamo di inestimabile valore? Si,
la vita stessa. E' di questa che ci viene chiesto conto: "Cosa hai fatto
della tua vita"?
Se la risposta è "Ho avuto paura"...
"l'ho nascosta sotto terra"... te la restituisco così come me l'hai
data, senza avergli dato uno scopo, un senso, né per me né per gli altri,
inerte, sterile, vuota... ci stupiamo allora della risposta dura del padrone?
Non basta non aver fatto del male, ma occorre aver fatto del bene!
Viene definito “PIGRO”: la sua è la tentazione di
credere che basti aver ricevuto per “stare a posto”. E’ la tentazione di chi si
accontenta di vivacchiare, di sopravvivere, di non fare del male, anziché di
vivere e amare.
Ogni dono ricevuto da Dio è anche una chiamata a
portare frutto, a impegnarsi con generosità e fantasia creativa perché quel
dono cresca e si moltiplichi. Il terzo servo non viene punito perché ha
compiuto del male, bensì perché non ha compiuto del bene. Nel restituire il suo
talento ricevuto esclama: “Eccoti il tuo!”, quasi a voler dire al padrone che
gli chiede conto del talento ricevuto: non c’è più niente tra me e te, mi sono
sdebitato! (cf. N. Galantino).
La sua è la tentazione che viviamo a scuola, in
Parrocchia, a casa, con gli amici… quando ci limitiamo a pretendere e mai a
dare. Quando facciamo il minimo indispensabile e non ci impegniamo a fare la
nostra parte. Quando sprechiamo le occasioni che ci vengono date per scoprire e
far crescere i nostri talenti. Se io scopro di avere del talento nel suonare la
chitarra, ma non mi esercito mai per imparare a suonarla bene e non condivido
questo talento per il bene degli altri, l’ho sprecato, l’ho reso inutile. Se a
scuola mi limito a fare il minimo, passo il tempo distratto e disturbando,
spreco l’occasione per scoprire quale siano i miei talenti e per farli
crescere. Se in Parrocchia mi limito a chiedere dei servizi, dei sacramenti e
non mi impegno a viverci come uno di famiglia che ha qualcosa da condividere
oltre che qualcosa da ricevere, se non cresco nel rapporto con Dio e con gli
altri, impoverisco la mia comunità di qualcosa che, attraverso di me, Dio
voleva donare a tutti.
Vivo un “cristianesimo” sterile all’insegna dell’obbligo
e del dovere, non della fiducia e della condivisione. Quante volte cerchiamo
affannosamente mille motivi per non doverci impegnare, per starcene per conto
nostro, chiusi nelle nostre camere a “godere” egoisticamente dei beni materiali
ricevuto (con ore passate sterilmente davanti ad uno schermo), senza fare
niente di male, ma anche senza fare niente di buono? Il cristiano non può
essere una persona rinunciataria e sterile che non sa assumersi responsabilità
verso il prossimo e verso il mondo, che rinuncia ad amare e costruire (cf. N.
Galantino).
"Ho avuto paura di te...": ricorda un'altra
paura biblica: quella di Adamo dopo il peccato. Era in armonia con Dio, con
Eva, con il creato. Dopo il peccato originale questo rapporto si rompe, ha
improvvisamente paura della sua nudità e per questo si nasconde; Dio diventa un
avversario duro di cui avere paura, la donna qualcuno su cui scaricare le
colpe, il creato un motivo di fatica e sudore.
Gli altri servi sono invitati a prendere parte della
sua gioia, ad avere autorità su molto (non importa se ha guadagnato 2 o 5
talenti: la risposta e la promessa è la stessa). Si sono sentiti in dovere e
forse nel piacere di far fruttificare i talenti ricevuti. Si sono comportati
più da figli che da servi e ora vengono ricambiati come figli più che come
servi.
Il buon Dio ci domanderà conto dei talenti che ci ha
affidato! Perciò è il momento di mettere da parte ogni paura e timore
(soprattutto la paura di Dio), di prendere consapevolezza delle possibilità e
dei doni che il Signore ha posto nelle nostre mani, mettendoci in gioco con
generosa operatività, per “trafficarli” per il bene dei fratelli (cf. N.
Galantino).