Chiesa francese: gli abusi e i commenti
"E' il momento della vergogna, la mia e la nostra" ha commentato oggi, 6 ottobre, papa Francesco la presentazione di ieri a Parigi del Rapporto della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa (Ciase).
Due ore di numeri, valutazioni e riflessioni che si abbattevano come un maglio sui presenti. La stima prudenziale è di 216.000 vittime di abusi da parte di 2.900 – 3.200 preti predatori nell’arco di tempo che va dal 1950 al 2020. Essi rappresentano il 3% dei 150.000 preti attivi negli stessi decenni. Per due terzi sono diocesani, gli altri religiosi. (Settimana news)
Desidero esprimere alle vittime la mia tristezza e il mio dolore per i traumi che hanno subito e la mia vergogna, la nostra vergogna, la mia vergogna, per la troppo lunga incapacità della Chiesa di metterle al centro delle sue preoccupazioni, assicurando loro la mia preghiera. E prego e preghiamo insieme tutti: “A te Signore la gloria, a noi la vergogna”: questo è il momento della vergogna. Incoraggio i vescovi e voi, cari fratelli che siete venuti qui a condividere questo momento, incoraggio i vescovi e i superiori religiosi a continuare a compiere tutti gli sforzi affinché drammi simili non si ripetano. Esprimo ai sacerdoti di Francia vicinanza e paterno sostegno davanti a questa prova, che è dura ma è salutare, e invito i cattolici francesi ad assumere le loro responsabilità per garantire che la Chiesa sia una casa sicura per tutti. (Papa Francesco)
Il commento di don Patriciello (Famiglia Cristiana) e del teologo Sequeri per Avvenire:
Fare i conti con gli abusi ed espiarli. Mai più alibi è tempo di arare
Il tema non è come chiedere perdono, ma come espiare. Se non accettiamo questa postura, tutte le altre parole e dichiarazioni saranno vane. Non si tratta di essere d’ora in avanti più attenti, più sensibili, più vigili nei confronti dell’enormità di un delitto che abbiamo vergognosamente sottovalutato e ostinatamente rimosso. L’enormità dei numeri nel dossier su 70 anni di abusi nella Chiesa francese, diffuso ieri, non parla di una strada smarrita: parla di un sentiero frequentato. La credibilità del nostro processo di espiazione chiede un deciso rimescolamento delle carte, che deve sbarrare la strada per vocazioni sbagliate ed esigere la prova di personalità risolte.
Deve essere sottoposto a profonda rielaborazione critica, in primo luogo, il tratto infantile – in tutti i sensi, purtroppo – di una diffusa cultura ecclesiastica della sessualità. Ieri inquadrata moralmente in una sorta di estensione degli «atti impuri» (versione infantile); oggi riabilitata nelle forme della «tenerezza reciproca» (versione infantile, per quanto positiva).
La serietà della costruzione di una personalità risolta, a riguardo della sessualità, quali che siano le sue scelte di vita, chiede una più profonda comprensione dei modi in cui essa segna – fra gli umani – le forme della relazione e del riconoscimento, dell’identità e dei legami. Una personalità risolta sa anche, e assimila in comportamenti di relazione e in stili di vita, che il riconoscimento della dimensione sessuale nel rapporto con un figlio o con una sorella trova la sua ricchezza e la sua profondità in un modo profondamente diverso da quello dell’uomo e della donna che li hanno generati.
Non solo il godimento, ma neppure la tenerezza è identica: la persona matura sa come custodire la differenza, senza mortificarne la ricchezza. La cultura diffusa in questa fase, a proposito del consumo della sessualità, non guarda troppo per il sottile alla differenza. Non è un caso se la drammatica immaturità generata da questa confusione mostra sintomi orribili e tragiche ricadute sui rapporti affettivi: anche i più intimi e famigliari. Che cosa rende così permeabile l’ambiente religioso – e non solo dei sacerdoti – per un disorientamento di questo genere?
Il dolore nel dolore che proviamo di fronte a questa evidenza è proprio l’accusa di insensibilità del resto della Chiesa. L’orrore è stato sottovalutato, ammorbidito in semplice errore. Eccessi di tenerezza, appunto, atti impuri. Lo stravolgimento della grammatica affettiva di base, l’ostruzione della maturazione personale, l’imposizione di auto-interrogazioni destabilizzanti e senza risposta: come mai l’enormità di tutto questo ha prodotto reazioni così insignificanti – e spesso ancora più colpevoli?
La nostra testimonianza – della nostra vita, prima di tutto, ma anche della nostra cultura – dovrebbe rappresentare un elemento persuasivo e affidabile di contrasto nei confronti dello svilimento infantile della sessualità e della violenza drammatica che esso finisce sempre per coprire. Questa cultura mediocre e infantile non ci scusa. Piuttosto, essa aggrava la nostra responsabilità. Perché noi non siamo uomini e donne analfabeti e sprovveduti.
Espiare, dunque, significherà anche questo. Noi impareremo a dichiarare con maggiore umiltà e con serena franchezza di non essere comunque all’altezza della grazia che predichiamo e dell’amore che portiamo. Non per accampare un facile alibi alla nostra vergogna, naturalmente. Ma piuttosto per accettare di esserne più severamente giudicati. La riconquista della differenza sostanziale fra uno stile ecclesiale devoto e sentimentale, carezzevole e possessivo, e quello evangelico di Gesù ci dovrà costare lacrime e sangue nei prossimi anni. E solo così ridiventeremo credibili. Come lo sono già – grazie a Dio – i molti che non cercano nella violazione degli inermi un risarcimento per l’impotenza della loro dedizione.
La ruvida tenerezza della dedizione di Gesù – asciutta, forte, non appiccicosa, non clericale – è una rivelazione nella Rivelazione. Nella formazione è quasi scomparsa dai radar. Dobbiamo chiedere e accettare di essere giudicati su questo metro: è una priorità. Meno chiacchiere di sacrestia e futili dispute su quante candele o quanti kyrie eleison. La nostra espiazione deve essere una cosa seria. Proprio essa dovrà onorare la fede che ci è stata consegnata e riconciliare la comunità con il ministero che le viene dedicato. Dovremo vedere i frutti di questa espiazione, per essere sicuri che il suo seme ha rivoltato la terra. Dio sa fare questo. E se siamo credenti, chiediamogli di avere il coraggio di affondare l’aratro, anche dove fa male.