Dall’individuo alla persona. Alle radici delle malattie spirituali (Rupnik)
Ho elaborato alcune riflessioni di M. I.
Rupnik a partire dal suo ultimo libro, Secondo lo Spirito, e da una conferenza
tenuta per i sacerdoti romani del settore Ovest su "le radici delle
malattie spirituali".
Non entro nelle distinzioni filosofiche che hanno condotto a parlare in
maniera contrapposta di “individuo” e di “persona”, ma utilizzo queste
categorie secondo valenze teologiche riproposte dal noto gesuita teologo e
artista, che parte proprio da questa distinzione per presentare una “nuova” teologia
spirituale e coglierne la radice delle malattie spirituali che affliggono anche
le nostre comunità ecclesiali. In sintesi queste sono le distinzioni più
evidenti tra le due dimensioni umane:
INDIVIDUO
= uomo naturale o uomo “vecchio”,
centrato sul proprio IO (filautia),
sui suoi BISOGNI, in ricerca (frustrata) di autosalvezza e benessere; atteggiamento
di PRETESA e RIVENDICAZIONE.
Idealismi e RELIGIONE.
Può essere aiutato dalla psicologia.
PERSONA
= uomo spirituale o uomo “nuovo”,
centrato su DIO
e sulla RELAZIONE,
dalle relazioni trae forza e senso e salvezza;
atteggiamento di ACCOGLIENZA e FEDE.
E’ guidata e sostenuta dallo Spirito che gli dona forza e luce.
All’inizio,
nella creazione, solo l’uomo è stato creato “ad immagine e somiglianza” del
Creatore: ha una natura “terrestre” (il fango plasmato) su cui Dio ha soffiato
il suo Spirito. Possiamo allora chiamare “individuo” l’uomo che, con il
peccato, è “regredito” (o si è chiuso) alla sola dimensione naturale:
autocentrato nei suoi bisogni che rivendica e pretende.
All’inizio
le due dimensioni erano unite e in armonia: col suo Spirito comunica all’uomo la
coscienza dell’io, che è comunionale, relazionale. Agostino diceva: “tu es, ergo sum”. Così, se io dico
marito, indico un’entità che esiste perché dice relazione alla moglie; perché
se non c’è moglie, non c’è marito. Se io dico Figlio, includo anche il Padre,
cioè è l’esistenza di un io a modo di Dio.
Siamo stati creati come PERSONE
ma il peccato ci chiude gli orizzonti al divino e ci rende INDIVIDUI che
pongono al centro del loro interesse l’io naturale e rimangono preda
dell’angoscia per la inevitabile morte. Il Cristo è venuto a restituirci la
dignità di Figli e dunque di PERSONE amate da Dio e capaci di corrispondere a
tale amore, ma rimane anche nei battezzati la tensione tra le due dimensioni di
vita, la tentazione di rimanere individui perché l’io dell’uomo è espressione
di una natura malata, fragile, vulnerabile, mortale. Tuttavia non c’è dualismo – con una dimensione
biologica che si contrappone a quella spirituale: “La persona, essendo di
ordine spirituale, si esprime nella natura, perché lo Spirito integra tutto
l’esistente”[1].
La natura umana è
creata per essere vissuta secondo un modo relazionale. (…) L’io non è espressione della natura, ma si esprime attraverso la natura
vivendo la sua verità relazionale, in modo che la natura umana vissuta
nell’amore verso l’altro divenga il luogo della consegna di sé, dell’offerta,
dell’unità. La realizzazione dell’uomo avviene perciò nel mondo dello
Spirito, perché il modo di esistere della nostra natura secondo la relazione è
possibile solo grazie alla partecipazione alla vita divina a cui lo Spirito
Santo ci dà accesso. E siccome l’uomo si realizza vivendo la propria natura
secondo l’io filiale, la via e il concepimento di questa realizzazione
consisteranno nell’accoglienza del dono del Padre che è il Figlio. A chiunque
lo accoglierà sarà dato il potere di diventare figli di Dio[2].
In
teologia l’io comunionale è chiamato personale. I Padri greci hanno usato per
la persona il termine ὑπόστᾱσις, che
letteralmente significa ciò che sta
sotto, per dire che ciò che sta sotto l’esistenza umana è la persona, la
comunione: “L’uomo non si compirà più da solo, perché la vita che ha ricevuto
lo costituisce secondo un modo di esistere relazionale”[3].
Dopo il peccato –
che è proprio il decadere da un’esistenza dove si realizza la vita sul registro
della persona ad un’esistenza come individuo naturale, che cerca di tirar fuori
la sopravvivenza da sé e dalle proprie energie – rimane una reminiscenza di
questa coscienza dell’io. Solo che adesso non è più comunionale, ma
individuale. Questo io diventa allora l’espressione della sua stessa natura,
sottoposta ai limiti della propria coscienza creata e schiava delle sue
necessità[4].
Negare
Dio (o vivere senza di lui, senza porsi neanche la questione della sua
esistenza) significa chiudersi all’azione dello Spirito, rendersi impermeabili
al suo amore, rinchiudendosi nel proprio io individuale, cercando con ogni
mezzo di esorcizzare la morte.
Rimane
comunque in lei viva la reminiscenza della relazione, che la fa sognare e le fa
desiderare l’apertura universale. Tuttavia neanche questa “nostalgia” è
sufficiente per ridiventare persona:
Può
infatti generare degli slanci verso gli idealismi
con i quali l’individuo si consola e cerca di convincersi che, più alte saranno
le sue mète, più la sua esistenza sarà rassicurata. Come può anche accadere che
la reminiscenza relazionale presente nell’io individuale e che mira
direttamente all’incontro con l’altro diventi pulsione dell’eros in cerca di
un’unione biologica. Dio infatti ha posto nell’essere umano, una tale forza
dell’eros che spinge l’individuo a cercare l’altro per unirsi. Ma questa unione
è comunque spinta e gestita da una necessità radicata nella natura stessa, che
dunque non riesce a superare un’altra necessità che invece fa paura – quella
della morte -, e perciò si genera e si muore[5].
La parola “individuo” indica ciò che è
indivisibile: è l’ultimo elemento di ciò che si può dividere. ma non ha una
identità specifica. Gli individui possono formare una massa e queste unità si
possono contare e numerare. L’individuo può avere delle caratteristiche che si
possono confrontare, ma non ha né un volto, né un nome, resta comunque un
anonimo. La persona al contrario invece ha un nome che la identifica come unica
e irripetibile.
L’individuo, afferma Aristotele, è
espressione della propria natura umana: ha degli istinti, dei bisogni che deve
soddisfare e per questo vive la sofferenza e la morte solo come motivi di
angoscia da cui cerca inutilmente di fuggire.
L’intera storia
dell’umanità è un lungo elenco dei tanti modi nei quali l’uomo ha lottato con
il proprio io per sfuggire alla
questione della morte. Ma la nostra cultura attuale ha scoperto un modo che
sembra di gran lunga più efficace: quello della distrazione, di un’eccitazione
dei sensi così permanente e invasiva da occupare la coscienza dell’io in un
modo talmente radicale da farci davvero scordare chi siamo. E’ ovvio allora
che, quando si avvicina il tempo di accettare definitivamente il proprio venir
meno, si cercano tutti i modi per prevenire un tale momento. Perciò tutte le
battaglie etiche contro l’eutanasia sono destinate al fallimento, dal momento
che è l’insieme della mentalità a non sopportare la domanda sulla fine e sul
limite dell’esistenza umana. E’ la cultura a non prevedere altra soluzione,
perché per essa il modo più etico e più vero di far fronte a tale circostanza è
proprio dimenticare, distrarsi, non pensare[6].
Tuttavia
L’io come
espressione della natura, ma allo stesso tempo come coscienza di sé, vive nella
tensione tra la minaccia della morte che incombe su di lui – dunque la minaccia
della sua sparizione -, e il desiderio spasmodico di salvarsi, che percepisce
legato al superamento del limite dell’individualità, dunque a qualcosa di
universale, dove è presente un altro[7].
Anche l’individuo ha bisogno degli altri,
ma
questi rappresentano allo stesso tempo una minaccia.
La presenza
dell’altro infatti è un rischio, ma allo stesso tempo ne abbiamo bisogno. In
questa situazione, la nostra “comunione” è un compromesso costruito sulle
difese che ci proteggono dal pericolo implicito che l’altro rappresenta per noi[8].
E’ chiaro infatti
che non è secondo la natura umana vivere la comunione, perché la comunione si
realizza attraverso il sacrificio di sé. Ma non appartiene alla natura
dell’individuo sacrificarsi. (…) Perché ciò sia possibile, dobbiamo accogliere
quel modo di esistere – il modo della persona – con cui noi non diventiamo più
espressione della nostra natura. (…) Questo modo di esistere lo riceviamo da
Dio, perché è un modo secondo Dio. Fino a quando l’individuo non accoglie
questo modo, userà tutte le cose secondo la sua ottica individualistica[9].
Userà
anche gli altri per sé: possedendoli, “vivendo l’altro come una necessità per sé”,
affinchè possa sentirsi amato, non sentirsi solo, sentirsi marito o moglie, madre
o padre, “secondo la natura e non
secondo lo spirito”[10].
Se l’individuo vuole
passare ad un altro livello di esistenza, che non è più nell’ordine della
natura, ma nell’ordine dello Spirito, cioè dell’amore, dell’agape, deve allora
necessariamente staccarsi da quel modo di esistere nel quale si trova[11].
In
altre parole deve “convertirsi” a
Dio, cioè lasciare che Lui entri nella sua vita e la trasformi con il suo
Spirito. Deve fidarsi di Lui abbassando le sue difese e accogliendo il suo
Amore.
Si tratta di una
liberazione da quello stato, di un congedo. Gli viene chiesto il sacrificio
dello stato in cui si trova. Senza lo stacco da quel modo di esistere (…) non
si può accogliere il nuovo modo di esistenza. Sono realtà tra loro
incompatibili. C’è bisogno allora della morte dell’individuo (…) e la nascita
di un’esistenza personale, comunionale. E quando l’individuo comincia ad
esistere secondo il modo della relazione e non è più l’espressione della
natura, risuscita anche una natura umana rinnovata, assorbita e vissuta in un
io relazionale, che trova il suo epicentro nell’altro[12].
L’atteggiamento
dell’individuo è caratterizzato dalla filautìa – l’amore centrato sull’io – che certamente agisce sulla
volontà, ma, allo stesso tempo, mette in moto anche il modo di ragionare, di
pensare, sicché si verifica un rapporto circolare per cui il pensiero sostiene
la volontà e la volontà nutre il pensiero, anche quando ci troviamo su una
strada sbagliata.
Finora
nella formazione spirituale della persona ci si è concentrati sull’educazione e
sul controllo della volontà ed anche, per quanto un po’ meno, sulla
purificazione del pensiero.
Ma siccome
l’individuo non vive spiritualmente, non è aperto all’accoglienza di
un’esistenza umana secondo la fede, è molto difficile aiutarlo a vivere secondo
un nuovo livello dell’esistenza, perché sarà agile a convertire i sensi, i
significati, le parole nell’ottica propria, e dunque a rimanere sempre lui al
centro. Solo che, invece di imporsi tramite un mondo passionale e materialista,
si affermerà attraverso uno slancio idealista, spiritualista, religioso, che
gli prospetterà una salvezza di sé senza cambiare. Da individuo appunto[13].
In fondo si pensa
che, nutrendo l’uomo di idee buone, egli diverrà automaticamente buono,
insegnandogli le cose giuste, si conformerà a questa giustizia, fino a quando
non costatiamo che la vita reale, rimasta immutata da queste idee, non comincia
addirittura a cambiare le idee stesse. Non solo non si vive come si pensa, ma
si comincia a pensare come si vive.
La
psiche umana è abile a trovare giustificazioni, scuse, motivazioni anche
sublimi che celano la ricerca di autoaffermazione e di soddisfazione dei propri
bisogni. Cerchiamo fughe e compensazioni perché frustrati per quello che non
riusciamo ad ottenere e ci sembra “giusto” avere o essere.
Per
ritrovare l’io personale è necessario passare dalla religione alla fede e accogliere l’aiuto per vincere il peccato.
La fede cristiana
non è una religione, ma un atto relazionale, il riconoscimento del valore
assoluto dell’esistenza dell’Altro a cui ci affidiamo e da cui riconosciamo che
dipendiamo per l’essere e per l’esistere. Il cristianesimo è quindi un modo di
esistere nella comunione. La religione, invece, è un’espressione
dell’individuo, un suo bisogno naturale, istintivo (…). L’individuo percepisce
che la sua vita è messa in pericolo da tanti elementi e forze minacciose che
non può controllare. Cerca allora un modo per propiziarsi queste forze e
ricorrere a qualche protezione soprannaturale per conservarsi e sopravvivere[14].
Nicola Cabasilas
afferma che ci sono tre ostacoli che separano l’uomo da Dio: la natura, il
peccato, cioè una volontà corrotta dal male, e la morte. “Il primo fu tolto di
mezzo dal Salvatore con la sua incarnazione, il secondo con la sua
crocifissione, poiché la croce distrusse il peccato (…) infine con la sua
risurrezione abbatté l’ultimo muro, bandendo dalla natura umana la tirannia
della morte. Perciò, da allora, non c’era più per noi alcun impedimento a
partecipare alle sue grazie, tranne il peccato”[15].
Dio
ha trasmesso qualcosa del suo personale modo di essere nella nostra natura
umana. E’ proprio grazie a questo presupposto che è stata possibile
l’incarnazione di Dio, cioè che una persona divina potesse appropriarsi della
natura dell’uomo, pur avendo già la natura di Dio.
I
Padri greci affermano che il peccato ha ridotto l’uomo a un io individuale. E la riduzione
dell’uomo alla natura significa che l’individuo ha perduto l’ὑπόστᾱσις, l’esistenza
secondo Dio di carattere comunionale. Perciò Berdiaev dice che il più
grande ostacolo alla fede è l’affermazione personale di sé stessi, il desiderio
di conquista e l’attribuzione del merito.
La
logica del Signore Gesù è opposta; si basa sull’accoglienza. “A quanti però l'hanno accolto, ha dato
potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome” (Gv
1,12), vale a dire: chi mi accoglie, diventerà figlio di
Dio.
L’accoglienza
è un’attività umana difficile, perché se accogli, cambi; mentre al contrario
quando conquisti, ti fermi, consolidi soltanto quello che tu vuoi. La conquista
è affermazione della volontà, l’accoglienza è, al contrario, l’azzeramento
della volontà, è accoglienza di un’altra volontà.
Tutto
il combattimento spirituale del cristiano sta qui. Perché la battaglia è già
stata vinta dal Cristo: “Il Figlio farà della morte – frutto della mortalità
presente in tutto il corso di un’esistenza di isolamento e di separazione – un
evento di comunione con il Padre e con il genere umano”[16].
In
nessun altro modo l’uomo può superare da solo questo abisso: solo Dio poteva
salvarci.
Per superare la
morte, non si può fare un ponte che la scavalchi. Bisogna entrarci. E l’unico
che vi può entrare è colui che sa che dietro la morte non c’è il nulla, ma il
Padre[17].
La
sua Pasqua, passaggio dalla morte alla vita eterna, viene trasmessa con il Battesimo che ci fa morire l’io
individuale per farci rinascere persona. Con il Battesimo “noi veniamo
innestati in Cristo e la sua vita – cioè lo Spirito Santo, la comunione con il
Padre – ci attraversa, scorre dentro di noi, penetra tutta l’umanità e la fa
vivere in modo tale da portare frutto”[18].
Frutto da non identificare con le nostre opere, ma con una vita vissuta secondo
l’amore, grazie alla risurrezione del Cristo.
L’io individuale è
morto e risorge un io in Cristo, che non è una semplice sostituzione del
vecchio io, ma una modalità nuova di esistenza del proprio io, che prende
coscienza di sé relazionalmente come figlio in rapporto al Padre. (…) In questo
passaggio muore l’io individuale e risuscita un io comunionale. Il battezzato
comincia a vivere in Cristo e viene innestato in un’esistenza tipicamente
divina: “io sono nel Padre e il Padre è
in me” (Gv 4,10)[19].
La
vita nuova spirituale inizia realmente solo quando, nell’umiltà, ci si
riconosce e si ammette la propria finitezza, ci si sottomette all’altro e si
accoglie finalmente il dono dello Spirito. L’ascesi dell’io individuale è “un
primo passo che costituisce un’iniziazione a quell’apertura e a
quell’obbedienza che portano all’accoglienza”[20].
Il passo successivo è quello dell’accettazione della morte:
Dunque prevale già
il tener conto dell’altro, già ci fidiamo che il dono superi la morte e abbiamo
la convinzione interiore di poter conoscere solo quando muore completamente in
noi la voglia di meritarsi l’amore. La morte è dunque la completa inattività
della volontà autoaffermativa e l’esito dell’attivazione della fede, cioè
dell’accoglienza, della fiducia nell’altro[21].
Con
l’ultimo passo nasce la persona in senso teologico.
E’ qui che si scopre
una nuova dimensione dell’amore: la libertà, la libera adesione, che genera a
sua volta una creatività libera. (…) Questa nuova esistenza è squisitamente
spirituale, perché è l’accoglienza del dono dello Spirito Santo, dunque del dono
della vita come koinonia, come amore,
dono della vita secondo il mistero pasquale, che è il modo in cui l’amore di
Dio vive l’umanità nella storia. Così lo ha realizzato Cristo come Figlio di
Dio e vero Uomo e così veniamo rigenerati noi nel passaggio battesimale[22].
La misura
dell’autenticità della vita spirituale è la vita vissuta come dono. (…) La
carità, la misericordia, l’accoglienza dell’altro, un’esistenza libera da ogni
egocentrismo, etnocentrismo, idolatria della propria cultura, della propria storia,
la manifestazione di una mentalità di appartenenza ad una comunità, luogo di
espressione della vita come comunione – sono tutti segni evidenti della vita
spirituale. Allo stesso modo, il superamento delle relazioni legate solo alla
natura, come il sangue, la famiglia, ecc., a motivo del battesimo e la
manifestazione dell’appartenenza ad una comunione libera, sono segni
irrinunciabili della salute spirituale dei cristiani[23].
Come
accogliere lo Spirito? Invocandolo, pregando, vivendo una vita sacramentale.
Quando si interrompe
questo stato dialogico (della preghiera), questa coscienza filiale, questa
percezione dell’io comunionale, questa indispensabilità di comunicare, di
parlarsi, di incontrarsi, di esporsi all’altro, di lasciarsi fare dall’altro,
di essere plasmati dall’Altro, cioè dal Padre, è già la morte (spirituale).
Pertanto, si accerta la morte spirituale quando cessa la preghiera, così come
quando cessano la carità e l’accoglienza[24].
Dio ha donato tutto,
ma noi aderiamo al dono in modo progressivo, anche se totale, perché dobbiamo
comunque fare i conti permanentemente con la nostra umanità, che rimane
soggetta nella sua parte più esposta all’abitudine e al vizio dell’uomo
vecchio. Ma ciò che conta è riabbracciare continuamente il dono, rivolgere
costantemente lo sguardo al Donatore, per non fissarlo più su di noi[25].
Le malattie
spirituali hanno avuto un rafforzamento quando il
mondo moderno ha scelto, come epicentro di tutto, l’individuo. L’esagerata e
sbagliata esaltazione esclusiva dell’individuo costituisce la radice delle
malattie spirituali del cristiano.
Quando, per i motivi
più diversi, si cede alla tentazione, comincia ad indebolirsi il legame d’amore
con il Padre e si finisce per concentrare di nuovo lo sguardo su sé stessi (…),
ci ritroviamo ad affogare nei flutti del male[26].
Ne consegue la possibilità, purtroppo non
remota, di sacerdoti o di fedeli devoti che, dopo avere lavorato tanto tutto il
giorno, arrivati alla sera avvertono un terribile senso di vuoto, una
sensazione di solitudine, il bisogno di qualcosa che manca e ricercano una
‘compensazione’, fino a cadere nella trappola delle dipendenze (alcool, pornografia,
etc.).
Ogni peccato è una sorta di ritorno alla vita
dell’individuo, di recupero della coscienza dell’io individuale. Per questo è
il ritorno ad una esistenza isolata.
Il sacramento della riconciliazione è in questo senso veramente la “sorella del
battesimo”, come lo chiamavano i Padri, perché reinserisce l’uomo nel corpo di
Cristo e gli ridona lo Spirito Santo come Signore della comunione e dell’amore.
Conclusione
La parabola della vicenda umana può essere
descritta in questo modo: l’uomo è stato creato nel Figlio e come il Figlio, ad
immagine e somiglianza di Dio. Però, ad un certo momento avviene il peccato e
l’uomo si allontana dalla relazione con Dio e va per la sua strada. Dio ha
mandato tanti profeti a cercarlo, ma sono stati rifiutati e uccisi. Lontano da
Dio l’unica prospettiva aperta davanti all’uomo è rimasta la morte, la tomba.
A questo punto il Padre manda il Figlio,
che si fa uomo, percorre la strada della vicenda umana e entra nella tomba, perché
è stato mandato per identificarsi con Adamo, che è morto a causa del peccato.
Muore sulla croce ed entra nella tomba accanto Adamo. E’ la discesa agli
inferi, che professiamo nel Credo
apostolico; scende, prende Adamo e Eva e
li riporta lì da dove sono scappati, e in una logica agapica li porta al Padre,
torna con i prigionieri.
Il ritorno al Padre è possibile perché
riceviamo il dono dello Spirito Santo. E poiché la persona dello Spirito Santo
copre la relazione tra il Padre ed il Figlio, così noi riceviamo la vita
filiale, viviamo secondo lo Spirito, che vuol dire secondo il Signore della
comunione; lo Spirito Santo è il Signore della comunione, il Signore della
relazione.
Questo avviene sacramentalmente con il
Battesimo, che ci innesta in Cristo e che ci apre ad una nuova vita secondo
Dio, non più da individui isolati ma da persone inserite nella Chiesa, in una
esistenza comunionale.
[1] M.I. Rupnik, Secondo
lo Spirito, LEV 2017, p.123
[2] Id. p.107
[3] Id., p.130
[4] Id., p.86. “Il peccato ha sommerso l’uomo nella natura, ma l’io rimane vivo
nella coscienza di sé. Solo che adesso la coscienza di sé è individuale, non
più relazionale. Questa coscienza individuale, come abbiamo notato, da un lato
subisce la fragilità, la debolezza e la mortalità tipiche dello stato
naturale”. (Id., p.104)
[5] Idem
[6] Id., pp.64-65
[7] Id, p.87
[8] Idem
[9] Id. p.114
[10] Id. p.119
[11] Id. p.114
[12] Id. p.114-115
[13] Id. p.112
[14] Id, p. 115-116
[15] N. Cabasilas, La vita in Cristo, III, i (PG 150,
572CD) in nota, pp.138-139
[16] Id. p.139
[17] Idem
[18] Id. p.146
[19] Id., p.52
[20] Id. p.54
[21] Idem
[22] Id., p.55
[23] Id. pp.149-150
[24] Id. p.152
[25] Id. pp.157-158
[26] Id. p.172