L’idea di fraternità ha conosciuto, nell’ultimo ventennio, una nuova e forte manifestazione di interesse, soprattutto per quanto riguarda la possibilità del suo utilizzo nella dimensione pubblica, in particolare come principio giuridico e politico. Si stanno sviluppando scuole di pensiero e di azione che rileggono la storia dei popoli e delle culture mettendo in luce il ruolo che la fraternità ha avuto nella formazione delle loro identità e cercano di comprendere il contributo che la fraternità può portare nei diversi contesti geopolitici e nelle varie discipline.
Questo è un fatto nuovo, soprattutto nella storia dei rapporti tra Europa e America Latina, i due continenti dove questa nuova tendenza è più rilevante. Non si tratta infatti di una teoria che, sorta in un determinato luogo, viene poi esportata altrove; al contrario, i centri di studio e i soggetti sociali che approfondiscono la fraternità hanno radici ben piantate nei diversi contesti culturali, pur collaborando regolarmente tra loro. Del resto, la comprensione e l’applicazione della fraternità in politica, proprio perché viene intesa come fraternità universale, può venire attuata solo con il contributo originale e dialogante di ogni area culturale del pianeta.
Si tratta di una inversione di tendenza, seppure iniziale. L’idea di fraternità non appartiene infatti a nessuna tradizione di studi, a nessun insegnamento consolidato delle diverse discipline che si occupano di politica, di diritto o di economia. Lo stesso termine “fraternità”, fino a una ventina d’anni fa, era pressoché assente, tranne rare eccezioni, dai dizionari di queste discipline. La situazione oggi sta cambiando; l’introduzione del principio di fraternità ha permesso di elaborare l’idea della «economia civile», importanti risultati sono stati ottenuti nello studio del rapporto tra fraternità e diritto; l’apertura della riflessione sul «principio dimenticato» nelle discipline politologiche ha prodotto un grande numero di studi sull’inculturazione della fraternità e sulla possibilità di renderla operativa nel contesto delle scienze empiriche.
Un “deficit” del pensiero
Fin dagli anni Sessanta del Novecento si è fatta strada la percezione di un “deficit” della riflessione politica, di una sua, almeno parziale, impotenza nell’affrontare i problemi irrisolti, non solo quelli dei popoli economicamente e politicamente più fragili, ma anche quelli delle democrazie più evolute ed economicamente potenti. Queste ultime, infatti, hanno dato una certa realizzazione ai principi di libertà e uguaglianza, ma è sotto gli occhi di tutti che sono ancora lontane da una loro piena realizzazione; in molti, addirittura, ha cominciato ad affacciarsi il dubbio se la democrazia sia effettivamente in grado di applicare tali principi e di assicurare ai cittadini i diritti universali per i quali è nata. Sta crescendo un movimento di sfiducia nei confronti delle istituzioni della democrazia, per certi aspetti simile a quello che favorì la nascita dei regimi autoritari e totalitari nella prima metà del Novecento. La crisi finanziaria ed economica che ha attanagliato i Paesi occidentali dal 2008 in poi, ha avuto tra i suoi effetti quello di polarizzare sempre più le società avanzate, aumentando la differenza tra ricchi e poveri e il numero assoluto di questi ultimi; e ha peggiorato ulteriormente le condizioni dei popoli che già vivevano le maggiori difficoltà, spingendoli sempre più verso il ruolo di “scarto” denunciato da papa Francesco. Oggi, in conclusione, siamo tutti meno liberi e meno uguali.
Eppure nel mondo ci sono risorse materiali e capacità organizzative sufficienti per dare a tutti il necessario per vivere e per costruire il proprio progetto di vita: perché allora, i conti non tornano? In realtà, sono le risorse relazionali quelle che mancano, sono i rapporti umani sbagliati che impediscono la libertà e l’uguaglianza. Uno dei primi ad accorgersene fu Paolo VI: «Se è vero che il mondo soffre per mancanza di pensiero — scriveva nel 1966 nella Populorum progressio — aprite le vie che conducono, attraverso l’aiuto vicendevole, l’approfondimento del sapere, l’allargamento del cuore, a una vita più fraterna in una comunità umana veramente universale».
Questa idea della fraternità come via da percorrere nel pensiero e nell’azione, ha cominciato un po’ alla volta a farsi strada anche al di fuori dell’ambito cristiano. Edgar Morin e Anne Kern, ad esempio, quasi trent’anni dopo, arrivano ad una considerazione simile, denunciando la generale incapacità di “pensare la crisi” da parte di una mentalità dominante, caratterizzata da una «intelligenza cieca» che «rende incoscienti e irresponsabili». Morin e Kern recuperano la libertà, l’uguaglianza e la fraternità come principi di tipo programmatico per la realizzazione di una piena democrazia planetaria, sottolineando il ruolo della fraternità come criterio dirimente: «Il richiamo della fraternità non deve soltanto superare la vischiosità e l’impermeabilità dell’indifferenza. Deve vincere l’inimicizia. (...) e il problema chiave del compimento dell’umanità è di allargare il noi, di abbracciare, nella relazione matri-patriottica terrestre, ogni ego alter e di riconoscere in lui un alter ego, cioè un fratello umano». Nel 2007 è la volta di Zygmunt Bauman di osservare in quale modo la società occidentale ha perso i suoi punti di riferimento: è avvenuto, senza che la maggior parte di noi se ne renda conto, un cambiamento nei significati dei grandi principi che avevano orientato la ricerca della felicità personale e pubblica. Il “trittico” della Rivoluzione francese, scrive Bauman, sosteneva che «per raggiungere la felicità gli esseri umani dovevano essere liberi, uguali e fraterni»; ma oggi è stato sostituito da un altro: siamo pronti a rinunciare a una parte di libertà in cambio di maggiore «sicurezza», al posto dell’uguaglianza effettiva c’è una «parità» superficiale, e abbiamo scambiato la vera fraternità con un suo sostituto illusorio: la «rete».
Le radici del “trittico”
In anni recenti, dunque, avviene una riscoperta della fraternità, non solo nella dimensione dei rapporti personali, ma come principio capace di un ruolo sociale e pubblico: è la fraternità considerata non separatamente, ma insieme agli altri due principi del “Trittico” del 1789. Esso è un “evento” che va considerato almeno sotto due aspetti.
Da una parte, abbiamo la tradizione. L’intuizione che diede forma al trittico era frutto di un percorso millenario che andava ben oltre il fatto storico, pur importante, della Rivoluzione: il trittico sintetizza, in una formula eccezionalmente efficace, quello che potremmo considerare come l’ideale della modernità. I tre grandi principi attraversano infatti l’esperienza storica dell’Occidente, che si snoda, nell’area culturale indoeuropea e mediterranea, attraverso l’antica Grecia, Roma, l’ebraismo, il cristianesimo. E dunque la fraternità esisteva come idea e come pratica ben prima del 1789, proveniva dalla religione ebraica e diviene il centro della vita cristiana. Nel corso dei secoli, la fraternità cristiana era stata vissuta sul piano personale ed ecclesiale, ma anche civile: aveva praticato l’ospitalità, aveva costruito ospedali e ospizi per i poveri e per i vecchi, scuole per i ragazzi del popolo. Non era cioè rimasta nell’ambito delle relazioni private, ma aveva assunto un ruolo pubblico, aveva dato vita a pratiche e a istituzioni che i Paesi democratici dell’età contemporanea hanno realizzato come diritti della cittadinanza, in nome della libertà e dell’uguaglianza e, anzi, preparando l’avvento e il riconoscimento di tali diritti.
D’altra parte, proprio questo è il punto: la fraternità, prima che la libertà e l’uguaglianza si affermassero come principi politici e giuridici, era stata vissuta in assenza e in sostituzione di questi. È solo con l’ondata rivoluzionaria del Settecento (Boston, Parigi, Port-au-Prince) e con il successivo inizio del processo di decolonizzazione in America Latina, che i due principi diventano costitutivi dell’ordine politico e si impongono: ed è solo da quel momento che la fraternità, insieme alla libertà e all’uguaglianza, diventa principio politico. La fraternità, componendo il Trittico, si secolarizza, assume un significato inedito, che gli stessi cristiani devono comprendere come una realtà nuova. Ma anche la libertà e l’uguaglianza, che in altro modo esistevano in Grecia e a Roma, hanno nel trittico un significato originale, vi sono caratterizzate come libertà fraterna e uguaglianza fraterna; i tre principi, uniti insieme nel Trittico, vivono un dinamismo di rapporti che crea significati inesplorati.
Caino: fraternità e politica
La rivoluzione francese esplicita un processo di secolarizzazione che era già in atto da secoli; esso consiste nella comunicazione alla cultura, alla società, alla politica, di principi e valori, originariamente religiosi, che costituiscono le fondamenta della società umana. Questo processo si presenta nella storia, talvolta, in forme antagonistiche, con aspetti antireligiosi e, più frequentemente, anticlericali. Ma nella sua sostanza, nel suo significato duraturo, esso è la progressiva acquisizione, da parte dell’umanità, dei doni che le religioni portano in sé.
Alla fraternità viene spesso obiettato di essere un principio religioso e, per questo, non adatto a venire utilizzato nella sfera civile e politica. A questa obiezione si risponde facilmente: non solo la fraternità, ma tutti i grandi principi antropologici e relazionali delle diverse civiltà iniziano la loro storia da racconti originari, appartenenti alla sfera religiosa. In molti di questi racconti incontriamo anche alcuni nuclei concettuali, spesso frutto di tradizioni più recenti e culturalmente più evolute, che si inseriscono dentro un patrimonio antico, tramandato, dapprima, oralmente; un caso molto conosciuto, per fare un esempio, è quello dei racconti della creazione dell’uomo e della donna nel libro della Genesi. Queste prime narrazioni religiose danno vita a diverse culture, alle quali trasmettono interpretazioni della fraternità, della libertà, dell’uguaglianza o disuguaglianza degli esseri umani, dell’autorità, della relazione uomo-donna, ecc., che le culture successivamente elaborano e, spesso, arrivano a separare dalla radice religiosa originaria. L’obiezione contro la fraternità dovrebbe essere rivolta, allora, contro tutti gli altri grandi principi della convivenza umana.
Per entrare più profondamente in questo processo, prendiamo il caso di Caino e Abele. Caino, prima della nascita di Abele, è “il” figlio, l’erede, colui che riassume in sé tutta l’umanità del futuro. L’arrivo di Abele non mette in discussione i diritti di primogenitura di Caino, ma opera un cambiamento più profondo: Caino non è più solamente il figlio di Adamo ed Eva, è il fratello di Abele. La sua identità ora è cambiata, è legata all’esistenza di un altro, e Caino non lo accetta: «Non sono il custode di mio fratello»; rifiuta lo shomar, il «custodire», l’avere cura, la responsabilità dell’altro che, per Dio, è l’essenza dell’umano. Quando Dio lo interroga, infatti, chiedendogli “dov’è” suo fratello, gli pone in realtà la domanda sul suo “luogo” interiore: hai dato un posto nel tuo cuore a tuo fratello? Sei andato oltre te stesso e ti sei aperto a lui? Sei diventato grande come Io ti vorrei? La risposta di Caino è un rifiuto radicale della visione di Dio sull’uomo, simile, per la sua violenza, a quella che suo padre Adamo diede quando, addossando a Eva la colpa del peccato, la tolse dalla parità reciproca nella quale Dio li aveva costituiti: così facendo la subordinò creando, nell’intimo stesso dell’umano — l’unità tra l’uomo e la donna —, la prima struttura ingiusta.
Le domande di Dio a Caino ci rivelano chi è l’uomo ai Suoi occhi: è colui che sa rispondere di suo fratello; la fraternità è una struttura antropologica che definisce l’essere umano. Poco importa, allora, se un fratello o una sorella nascono dentro la mia casa, oppure se mi arrivano alla spiaggia su un barcone: essi accadono “dentro” di me. Il modo in cui li accolgo non dice chi sono loro, ma chi sono io.
A quel punto Dio pone un segno su Caino, affinché egli diventi inviolabile e l’eccesso del male che ha compiuto non venga ripetuto da altri. Il «Non uccidere!» nasce per proteggere il fratricida, che ha salva la vita e può ricominciare la sua storia. La Genesi ci rivela, subito dopo, che Caino «divenne costruttore di una città». Notiamo che il testo ebraico usa la parola ’îr, che caratterizza la città propriamente detta, in genere fortificata; la traduzione greca dei Settanta la traduce, infatti, con polis. Nella tradizione biblica, Caino è il fondatore della vita urbana, della vita associata politicamente: la politica viene qui presentata come una seconda possibilità, offerta a colui che ha ucciso il fratello, di vivere la fraternità. La politica è il recupero e lo sviluppo del legame di fraternità, vivendolo non più attraverso un rapporto diretto e immediato (come fratelli di sangue), ma attraverso la mediazione della legge, cioè come cittadini.
Determinazioni formali della fraternità
Quali sono i contenuti della fraternità che emergono da questo racconto, che non parla del passato, ma di noi e di come siamo fatti? La fraternità si presenta anzitutto come un principio di realtà: possiamo scegliere i nostri amici, la sposa o lo sposo, ma non i fratelli e le sorelle: non sono autore della loro esistenza e non ne posso disporre. Essi sussistono accanto a me, uguali in valore umano, dignità e diritti. Ma la fraternità è allo stesso tempo principio di differenza, poiché non esiste un fratello uguale all’altro: l’uguaglianza, tra fratelli e sorelle, consiste nella possibilità di essere, ciascuno e ciascuna, liberi nella propria diversità. La fraternità spiega dunque il modo con il quale l’essere umano è, e con il quale vuole essere considerato: libero e uguale, perché fratello. Il principio di fraternità implica dunque una relazione tra libertà e uguaglianza e dà loro un fondamento e una misura. La fraternità, sotto questi aspetti, è la condizione umana nella sua oggettività, è la condizione umana come noi la riceviamo.
Ma la fraternità richiede anche una componente soggettiva: accetto o non accetto l’esistenza dell’altro essere umano? La fraternità è l’interruttore che accende o spegne la possibilità di dare vita a una comunità, che sia famigliare, economica o politica: è la condizione fondativa della vita associata. Sulla sua base possono poi fiorire tutti gli altri modi di porsi in relazione con gli altri, a seconda delle situazioni e delle necessità: solidarietà, amicizia, misericordia, assistenza, generosità, guida, reciprocità nelle sue varie forme. In questo senso, la fraternità presenta un terzo aspetto in quanto principio, oltre alla realtà e alla differenza: è principio regolatore delle forme che libertà e uguaglianza assumono, in modo che la libertà non diventi la legge del più forte e l’uguaglianza non degeneri in un appiattimento imposto.
Da quanto fin qui detto possiamo concludere, senza la pretesa di offrire una definizione, ma un semplice punto di appoggio al pensiero e al dialogo, che la fraternità può essere considerata una relazione orizzontale tra soggetti liberi ed uguali, i quali riconoscono l’uno all’altro una origine e una appartenenza comuni che precedono ogni regola successiva, e le loro azioni sono tali da riconoscere, rispettare, favorire la differente identità di ciascuno e da ripristinare le condizioni di libertà ed uguaglianza qualora fossero venute meno.
Perché la fraternità scompare?
Oggi ci rendiamo conto di quanto fosse geniale l’intuizione del Trittico, e quanto difficile tenere insieme i tre principi: un’impresa al di sopra delle forze della Rivoluzione dell’89. In quegli anni, la prima a scomparire è la fraternità; la libertà e l’uguaglianza, prive del loro principio regolatore, si separano e si combattono. Nei due secoli successivi vivranno un equilibrio precario, e daranno vita, nel Novecento, a due sistemi politici ed economici radicalmente contrapposti. Invece, là dove riescono a convivere, come nei sistemi democratici con economia sociale di mercato, quali si costituiscono in Europa nella seconda metà del Novecento, i risultati saranno nettamente migliori.
Ma perché la fraternità scompare durante la Grande Rivoluzione? E quali processi si innescano allora, tali da arrivare a escluderla dal dibattito pubblico? Da questa vicenda c’è molto da imparare: cerchiamo di rispondere almeno alla prima domanda, indicando due delle principali cause. Anzitutto, la rivoluzione del 1789 si trasforma rapidamente in guerra civile: sotto il governo del Terrore si impone una cultura del sospetto che rifiuta tutto ciò che somiglia alla fiducia, alla trasparenza, alle condizioni che rendono possibile la fraternità. Il 16 luglio 1794, negli ultimi giorni del regime giacobino, Bertrand Barère e Maximilien Robespierre rinunciano esplicitamente alla fraternità, spiegando che non si può fraternizzare con tutti, ma solo con i «patrioti», cioè con chi la pensa come loro, e che si potrà vivere la fraternità, sottolinea Barère, solo dopo che il popolo sarà stato «epurato», eliminando tutti gli oppositori. Da ciò impariamo che il rifiuto dell’altro, la logica di Caino, può organizzarsi in ideologia.
In secondo luogo, la fraternità, insieme agli altri due principi del Trittico, subisce la grande prova storica che, dall’esterno, rivelerà maggiormente la Rivoluzione francese a se stessa: la sfida lanciata alla Francia dai suoi schiavi nella colonia di Saint-Domingue, l’odierna Haiti. La Rivoluzione non riconosce ai Neri i diritti che aveva proclamato nella Dichiarazione universale del 1789. Ma nell’agosto 1791 gli schiavi si ribellano: il decreto con il quale Parigi, tre anni dopo, riconosce loro la libertà, arriva molto dopo che essi si erano già liberati da soli. Nella stessa estate del 1794, quando Robespierre mette fuori legge la fraternità, l’ex schiavo Toussaint Louverture lancia il suo appello agli schiavi delle piantagioni del Nord, chiedendo loro di unirsi alla lotta di liberazione, chiamandoli «fratelli». La bandiera della fraternità era passata dal Bianco al Nero. Dopo 13 anni di insurrezione e di guerra i Neri di Haiti proclameranno, il primo gennaio 1804, la prima «Repubblica Nera» e la Francia perderà la sua colonia più ricca. E da questo impariamo quanto sia pericoloso non riconoscere i diritti degli altri, anche di coloro che, oggi, sembrano troppo deboli per vendicarsi.
Francesco e la strategia della fraternità
Come si può constatare, la fraternità contiene una profondità e una complessità straordinarie non appena si cerchi di ricavarne un pensiero capace di vincere le sfide che ci troviamo ad affrontare oggi; e contemporaneamente la fraternità vissuta è limpida e semplice, e il viverla è sempre la condizione per riuscire a comprenderla. La fraternità è sempre stata vissuta e lo è anche oggi: non ci sarebbe un pensiero della fraternità se così non fosse. Certamente, però, il recente fiorire di centri di ricerca e di produzione scientifica, l’istituzione di corsi universitari riguardanti i diversi aspetti del principio di fraternità, l’esistenza di soggetti sociali che lo assumono come orizzonte di impegno e cercano di trasformarlo in progetti concreti: questo è realmente un elemento nuovo, solido e in fase crescente.
Certamente la fraternità sorge dal cuore intelligente dell’essere umano, senza distinzioni di culture o di religioni. Dobbiamo prendere atto, però, che la fraternità dev’essere accesa nel cuore umano, alimentata e compresa. E questo è un compito che il cristianesimo si è assunto e che trova, nell’azione e nel pensiero di papa Francesco, una fonte costante, chiara, intelligente. Esiste infatti una specifica «intelligenza fraterna», che si assume proprio il compito che è oggi più importante: superare i conflitti e le divisioni, recuperare ciò che viene scartato o disprezzato, costruire l’unità della famiglia umana.
Se leggiamo il Messaggio che Francesco inviò per la Giornata mondiale della pace il primo gennaio 2014, vi troviamo una vera e propria strategia della fraternità. In un’epoca nella quale prende forza la tendenza di erigere muri e di ritirarsi dentro i propri confini, la visione planetaria di Francesco, coerentemente inserita nella tradizione del pensiero sociale cristiano, spiega le ragioni di una fraternità universale che non è solo sentimento né utopia, ma genera progetti.
Vorrei sottolineare, però, che il riferimento alla fraternità è quotidiano nel pensiero di Francesco e ci rivela la sua anima fraterna, con la quale il popolo cristiano si è messo immediatamente in sintonia, fin dalla sera della sua elezione. La fraternità è una categoria strutturante il suo pensiero, perché profondamente interiorizzata. C’è dunque una singolare affinità tra lo sviluppo del principio di fraternità cui stiamo assistendo nel mondo e l’«oggi» della Chiesa espresso da Francesco.
Tutti ricordiamo che le prime parole che ha rivolto a Roma e al mondo appena eletto, la sera del 13 marzo 2013, sono state: «Fratelli e sorelle». Le ha ripetute congedandosi. Ha parlato di un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia «fra noi»; e ha pregato perché «una grande fratellanza» ci sia in tutto il mondo.
Il 15 marzo, due giorni dopo l’elezione, nell’udienza con i cardinali ricorda «l’intensa comunione ecclesiale», vissuta durante le riunioni preparatorie e il conclave, come un’esperienza di condivisione fraterna caratterizzata dalla conoscenza e dalla mutua apertura che, egli sottolinea, «ci hanno facilitato la docilità all’azione dello Spirito». E descrive l’azione dello Spirito in una chiave tipicamente fraterna; la fraternità, infatti, quale la sperimentiamo nella vita quotidiana, è la convivenza, in uguale dignità, di fratelli che si accettano nelle loro diversità: «Il Paraclito fa tutte le differenze nelle Chiese, e sembra che sia un apostolo di Babele. Ma dall’altra parte, è Colui che fa l’unità di queste differenze, non nella “ugualità”, ma nell’armonia. Io ricordo quel Padre della Chiesa che lo definiva così: Ipse harmonia est. Il Paraclito che dà a ciascuno di noi carismi diversi, ci unisce in questa comunità di Chiesa, che adora il Padre, il Figlio e Lui, lo Spirito Santo». La fraternità, che si intreccia così spontaneamente con la relazione trinitaria dalla quale scaturisce, non è dunque un mero sentimento, ma una logica delle relazioni: forma l’ambiente umano nel quale si può accogliere lo Spirito e discernere il bene.
Pochi giorni dopo, un’altra tappa essenziale: la Messa per l’inizio del ministero petrino. Essa cade il 19 marzo, solennità di san Giuseppe e papa Francesco coglie l’occasione per interpretare il potere conferito a Pietro, e al Vescovo di Roma suo Successore, alla luce di quanto operato da san Giuseppe: «Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità (...) La vocazione del custodire, però — spiega Francesco —, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti». La “custodia” così descritta, come vocazione universale umana, è proprio la fraternità espressa nei suoi contenuti, quella che Caino rifiutò.
Come si vede, nella prospettiva di Francesco la fraternità è radicata nell’Amore Trinitario, dunque è espressione della specificità cristiana; e allo stesso tempo è espressione dell’umano. Il cristiano e l’umano, una formidabile alleanza: saprà ricomporre e realizzare il progetto del Trittico, che la Rivoluzione francese annunciò e distrusse?