Lidia Maggi (Varese 1964) è una
pastora battista. Vive a Dumenza, in provincia di Varese, con il marito Angelo
Reginato, anch’egli pastore. Hanno 4 figli. Impegnata nel dialogo ecumenico e
fra le religioni, svolge un ministero itinerante che la porta in giro per
l’Italia per far conoscere le Sacre Scritture.
Nel 2010 ha pubblicato per la Cittadella editrice il piccolo libro "Elogio dell'amore imperfetto", in cui - fra l'altro - analizza un brano dell'Antico Testamento poco conosciuto: è l'episodio della "minestra avvelenata e risanata" che ha come protagonista il profeta Eliseo (2Re 4,38-41):
Eliseo tornò in Gàlgala. Nella regione imperversava la carestia. Mentre i figli dei profeti stavano seduti davanti a lui, egli disse al suo servo: «Metti la pentola grande e cuoci una minestra per i figli dei profeti». Uno di essi andò in campagna per cogliere erbe selvatiche e trovò una specie di vite selvatica: da essa colse zucche agresti e se ne riempì il mantello. Ritornò e gettò i frutti a pezzi nella pentola della minestra, non sapendo cosa fossero. Si versò da mangiare agli uomini, che appena assaggiata la minestra gridarono: «Nella pentola c'è la morte, uomo di Dio!». Non ne potevano mangiare. Allora Eliseo ordinò: «Portatemi della farina». Versatala nella pentola, disse: «Danne da mangiare alla gente». Non c'era più nulla di cattivo nella pentola.
Scrive la Maggi:
Il racconto di questo episodio, considerato dai più marginale, mi sembra decisivo per entrare nel nostro tema: amarsi nell'imperfezione. Una storia per tempi di carestia. La narrazione allude non soltanto ad una carestia di beni, ma anche ad una carestia di senso, di parole. Tempi in cui "la parola di Dio è rara" (1 Sam.3,1).
(...) Questo strano miracolo della minestra risanata sembra dirci che in tempi di carestia, di difficoltà, perfino il profeta (che siamo abituati a vedere come l'uomo delle parole nette, che obbligano a scegliere) diventa saggio e non si permette sprechi per non lasciare a pancia vuota l'umanità.
Qui il miracolo non è la moltiplicazione dei pani, ma è semplicemente l'arte culinaria, la capacità di rimediare ad una minestra riuscita male.
La situazione è ben delineata: vi sono tempi di carestia in cui anche i discepoli intorno al maestro sperimentano la fame. Come si fa a nutrirli? Il maestro dice: andate a procurarvi gli ingredienti per preparare insieme una zuppa. E la risposta dei discepoli è diversificata: c'è il discepolo che rimane in attesa che gli altri procurino gli ingredienti; c'è quello che sceglie solo le bacche che conosce, ma c'è anche quel discepolo che osa superare il limite e prendere delle bacche che non conosce.
Il risultato è devastante perché raccoglie, involontariamente, delle bacche velenose. È il rischio di chi osa avventurarsi per nuovi sentieri. Se ne riempie la veste sperimentando, finalmente, l'abbondanza, ma si tratta di un'abbondanza di veleno.
La verifica tuttavia, può essere fatta solo a posteriori; una volta cotta, è unanime il giudizio da parte di quelli che l'assaggiano: c'è la morte nella minestra! È immangiabile! (...)
Ci aspetteremmo che Eliseo intervenga prendendo la minestra e gettandola via. E invece il profeta non si permette uno spreco che, in tempi di abbondanza, sarebbe stato legittimo. Egli non getta e neppure trasforma magicamente la minestra; prova semplicemente a correggerla con un ingrediente comune, quotidiano, come della farina. Un ingrediente che permette di rendere valido il lavoro di tutti e la minestra diventa mangiabile, capace di nutrire coloro che patiscono la carestia: una minestra per molti.
Questa storia ci ricorda che, innanzi tutto, si corregge aggiungendo e non sottraendo.
Io credo che noi, nello sperimentare l'imperfezione, nel momento della crisi affettiva, normalmente tendiamo a fare il contrario: quando qualcosa non va, cerchiamo di eliminare, di togliere quello che non funziona.
Il problema è che, spesso, quello che non va non può essere tolto in una coppia. A volte quello che non funziona è proprio la nostra umanità, il nostro carattere, così radicato nella vicenda affettiva. Sovente il nostro sguardo è moralistico e, di fronte alle difficoltà, ci porta a dire: così non si può andare avanti, dobbiamo eliminare quello che non va.
Invece la storia della minestra risanata sembra suggerirci che nell’imperfezione, nella carestia, nella vulnerabilità è importante provare a correggere, aggiungendo qualcosa a quello che non va, imparando l'arte della correzione. (...)
Questa storia fa leva sulle capacità di ognuno di ascolto e di lettura e ti dice: tu puoi correggere la situazione, anche là dove tu dai un giudizio mortale sulla tua storia.
Insisto su quest’aspetto perché noi sperimentiamo la carestia affettiva e le difficoltà delle coppie, però tendiamo sempre a non prenderci la responsabilità di discernere, prima di tutto, cosa non va per poi provare ad aggiungere, a modificare, correggendo quello che non funziona.
Insieme al giudizio secco, l'altra tentazione è quella di rivolgersi agli esperti.
Questo ricorso agli esperti produce una specie di cultura della delega in cui desideriamo che siano gli altri a risolvere i nostri problemi. In realtà gli altri non li possono risolvere per noi. Possono accompagnarci, suggerirci percorsi, interagire con noi, facilitarci il dialogo nella coppia, ma i problemi li deve affrontare e risolvere chi li ha!
Ritornando alla storia della pentola, questa ci dice che di fronte al dono prezioso dell'amore noi non possiamo permetterci di buttare via tutto; è una storia così seria da rendere paziente perfino il profeta che siamo abituati a sentire parlare con toni radicali.