Il caso "Don't look up": dal cinema allo streaming. Morte della sala cinematografica?
Aldo Grasso nella sua rubrica quotidiana sul Corriere della Sera ("A fil di rete") oggi parla del caso "Don't look up" e lo associa alla "morte della sala e al trionfo dell'algoritmo".
La prima osservazione è che è iniziata una nuova moda: lanciare un film al cinema per qualche giorno per poi trasmetterlo sulle piattaforme streaming. E' successo con Netflix per "E' stata la mano di Dio" di Sorrentino, ma anche per "Il potere del cane" della Champion (recente trionfatrice al Gonden Globe del 2022: miglior film drammatico e migliore regia) e, appunto, per "Don't look up" di McKay, film che vanta un cast stellare (Di Caprio, Streep, Lawrence, Blanchett) e di un ampio dibattito mediatico per il tema che affronta (la fine del mondo, ma soprattutto il ruolo dei media e della politica).
Non è da meno Amazon Prime che propone già diversi film più o meno natalizi e italiani: "Io sono Babbo Natale", "Ariaferma", "Come un gatto in tangenziale. Ritorno a Coccia di morto". Sky invece propone il blockbuster Dune, mentre su Disney plus troviamo Eternals, Encanto e The last duel.
E' veramente la morte del cinema? O la trasformazione del cinema in piccola cassa di risonanza per lanciare i film su streaming?
L'articolo di Aldo Grasso:
Sarà perché «Don’t Look Up» di Adam McKay è uno di quei film che grondano metafore da tutte le sequenze, sarà per via del «cast stellare» (Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Cate Blanchett), sarà perché il film tocca un tema sensibile come la divisione fra competenza e credulità, e non solo a proposito del «climate change»; sarà perché nella incombente cometa è facile scorgere tracce di pandemia, sta di fatto che «Don’t Look Up» è in corsa per ottenere il record di visualizzazioni su Netflix. Secondo Aldo Cazzullo sul Corriere , una delle ragioni perché «Don’t Look Up» si avvia a essere il film dell’anno è perché «riesce a raccontare e persino a farci ridere delle varie emergenze che ci sovrastano. A partire dalla più grave: il discredito della politica e dell’informazione». Secondo Andrea Minuz sul «Foglio», il film di Adam McKay è «destinato a essere citato in chissà quanti editoriali, è perfetto per quel generatore di discorsi che è diventato ormai Netflix, quasi più un social network che una piattaforma di streaming… non si è mai parlato così tanto di film come da quando non si va più al cinema».
La novità è proprio questa: è la prima volta che un film gode di una così grande amplificazione mediatica pur avendo conosciuto le sale per pochissimo tempo. Tutti questi discorsi sono stati generati da una visione casalinga, spesso solitaria, in streaming. È il tanto temuto trionfo dell’algoritmo? L’intelligenza artificiale comincia a sostituire anche molte mansioni intellettuali come quelle degli sceneggiatori? Il Covid un danno l’ha fatto, forse irreparabile: ha distrutto la mitologia del buio della sala, della condivisione, del sentirsi comunità (anche se il vicino è noioso, invadente e tossisce). Mentre il pubblico presente in sala è una componente fondamentale del teatro, non lo è più per il cinema. I film si possono tranquillamente vedere da casa: seguirà dibattito sui social.
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