Riflessioni sul Natale: Enzo Bianchi, Gualtiero Bassetti, Luigi Maria Epicoco e Frederic Manns
Alcuni articoli apparsi in questi giorni riflettono su alcuni aspetti del Natale: Enzo Bianchi su Repubblica ("Il Natale e il vero significato dei regali"); Gualtiero Bassetti, di nuovo positivo, scrive su Avvenire ("Con umiltà e fiducia. Una via certa tra drammi e attese"); Luigi Maria Epicoco su L'Osservatore Romano ("La Provvidenza di un imprevisto") e, sullo stesso quotidiano, Fredric Manns con l'ultimo suo articolo prima della sua morte avvenuta il 22 dicembre ("La stella").
Questi giorni di feste natalizie e dell'inizio di un nuovo anno sono contraddistinti dallo scambio dei doni. I bambini attendono i regali sotto l'albero di Natale, gli uomini e le donne li fanno e li ricevono da parenti e amici, e poi ci sono quelli che fanno doni di carità a chi è nel bisogno. Si scambiano auguri, parole di affetto, "cose" pensate e scelte per rallegrare o aiutare i destinatari. La carità "organizzata" imbandisce tavole alle quali chiamare per un posto i più poveri, i senza casa. Sembra un trionfo della bontà, e a molti questa atmosfera di regali appare come una verifica della buona qualità della nostra vita.
Ma io confesso che sovente mi interrogo e resto perplesso: non dimentico infatti che anche nella stagione della mia infanzia, il Dopoguerra povero, si scambiavano regali, ma per conservare l'anonimato del donatore e affinché nessuno se ne assumesse la paternità i doni si attribuivano a Gesù bambino o Babbo Natale. Sapevamo che non c'era nessuna discesa di Gesù nel camino della cucina ma, in questo modo, i doni venivano da chi ci amava senza individualismi né protagonismi.
Era un canto alla gratuità, alla non reciprocità (perché i bambini non sapevano fare doni), era un accogliere i regali con stupore e meraviglia. Per tutti c'erano doni, ai bisognosi si portava qualcosa affinché potessero anche loro fare un dono ai figli, altrimenti non sarebbe stato Natale. Nessun idealismo, perché allora come oggi chi festeggiava soffriva nello stesso tempo ferite.
Oggi viviamo nell'abbondanza, in una società segnata da un accentuato individualismo con tratti di narcisismo, tentati di assumere la logica del do ut des, la logica del mercato: c'è posto per l'arte del donare, per esercitarci a donare resistendo alla perversione del dono? Il dono è contraddistinto dalla gratuità, o la simula facendo regnare la legge del tornaconto?
Perché ormai abbiamo imparato a interrogarci e a diffidare anche di questo atto del donare. Basterebbe pensare agli "aiuti umanitari" con cui abbiamo voluto nascondere il male operante nella realtà della guerra.
Ma oltre alla perversione del dono è possibile anche la sua banalizzazione: il dono viene depotenziato e stravolto quando gli si assegna il nome di "carità", e si dona con un sms una briciola, illudendoci di essere capaci di compassione. Io chiamo questa emozione "carità presbite", che si indirizza ai lontani ed è incapace di vedere nella vita quotidiana chi è bisognoso ed è vicino a noi.
Fare doni è un movimento asimmetrico, unilaterale, che nasce da libertà ed è capax amoris. Sa assumere i rischi, ma così nega l'autosufficienza e si pone come gesto eversivo, facendo emergere che ognuno deve donare perché sempre e comunque debitore dell'amore verso l'altro.
E non si dimentichi che il dono all'altro per eccellenza è la propria presenza, la propria vita, il proprio tempo, la vicinanza nella gratuità. Da questo esercizio del dono può essere generata la capacità del dono dei doni: il perdono.
Natale. Con umiltà e fiducia. Una via certa tra drammi e attese
Papa Francesco, nel suo discorso ai membri del collegio cardinalizio e della Curia romana, ha invitato a percorrere la «via dell’umiltà» perché in essa è custodita la «lezione del Natale»: l’umiltà, infatti, rappresenta «la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità». Cristo è venuto nel mondo attraverso questa via e ci ha mostrato «una meta», che non si raggiunge con la forza della volontà, ma attraverso la partecipazione, la comunione fraterna e lo spirito missionario. Parole stupende che sono valide, ovviamente, per la Chiesa universale e ci restituiscono appieno il senso profondo del cammino che abbiamo intrapreso.
La Chiesa italiana, oggi, sta percorrendo la strada della sinodalità in un momento storico che è avvolto dalle tenebre della pandemia. Eppure all’orizzonte c’è la grande luce del Natale, che riscalda, ispira e rischiara il percorso. Un Bambino che si dona e che, con il suo atto d’amore, diventa criterio con cui rileggere gli avvenimenti. Non è un caso, dunque, che il tempo di Natale sia anche occasione per fare il bilancio dell’anno e per considerare i rapporti con i propri familiari, con gli amici, i colleghi e con quanti abitano le nostre giornate.
Ancora una volta, purtroppo, siamo in grande apprensione per la nuova ondata pandemica. Il Censis, nel suo ultimo rapporto, parla di «un’Italia irrazionale»: per alcuni milioni di italiani, che pretendono «di decifrare il senso occulto della realtà», il Covid addirittura non esiste e il vaccino è inutile. In nome di un diritto soggettivo di scegliere per la propria vita in totale autonomia, molte persone finiscono per dimenticarsi dei fragili, degli anziani e dei poveri, rompendo, in questo modo, i legami alla base della solidarietà umana. Mai come oggi è dunque necessaria l’umiltà: nel giudizio, nei rapporti interpersonali, nell’amore verso il prossimo.
Anche per questi motivi, non possiamo e non dobbiamo abituarci allo stillicidio, praticamente quotidiano, di morti sul lavoro e alle tragedie immani che continuano a compiersi, nell’inerzia colpevole della comunità internazionale, tra coloro che sono costretti a lasciare la loro terra per sfuggire alle violenze e alla fame. Il loro dramma ricorda che anche quest’anno il mondo è stato segnato da tensioni e da guerre e che alla maggioranza dell’umanità è ancora precluso il diritto a una vita libera e dignitosa. Avremo modo di aprire uno squarcio di speranza durante la seconda edizione dell’Incontro "Mediterraneo frontiera di pace" che si svolgerà a Firenze dal 23 al 27 febbraio 2022. Convinti, come ricorda il Papa nel Messaggio per la 55ª Giornata mondiale della pace, che «tutti possono collaborare a edificare un mondo più pacifico».
Il pensiero commosso e la preghiera vanno anche alle vittime di gravi fatti di cronaca che nel 2021 hanno chiamato in causa, direttamente o indirettamente, le responsabilità di alcuni o l’incuria sistematica. Voglio qui ricordare in particolare, unendo il Nord e il Sud d’Italia, i tragici fatti del Mottarone e quelli recentissimi di Ravanusa. A fronte di questo quadro a tinte fosche, però, non bisogna cedere alla tentazione della rassegnazione, come nei giorni scorsi ci ha raccomandato il presidente Mattarella. Nell’imminenza della fine del suo mandato intendo rinnovargli il ringraziamento per la testimonianza che ha reso al Paese nel corso di questi sette anni. In lui possono riconoscersi tutti gli italiani – e sono la stragrande maggioranza – che anche quest’anno hanno dato prova di responsabilità e di solidarietà, di impegno rigoroso e di fratellanza operosa soprattutto con le persone più bisognose.
Quale il messaggio di questo Natale? Si può rispondere senza esitazione: la speranza! Che è bene ricordare non è la realizzazione di un desiderio, quanto di una sorpresa. Un evento che accade e sblocca una situazione che sembra irrisolvibile. Come i magi e i pastori, che si presentano a riverire un piccolo bambino adagiato in una mangiatoia. Mi piacerebbe che all’interno della comunità cristiana fossimo portatori di speranza in questo modo: provando a stupirci reciprocamente, a entusiasmarci l’un l’altro con la sorpresa dell’amore. Nel buio delle paure e dei rapporti per interesse, abbiamo la possibilità di portare un po’ di carità.
Il Signore che viene si lascia accogliere da chi ha occhi per stupire i fratelli con l’amore. Così l’amore arriva come la luce nelle tenebre. Se la contemplazione della scena della mangiatoia ci indurrà a diventare portatori di speranza agli altri, allora vorrà dire che l’Avvento è stato un cammino di umiltà che ci permette di vivere il Natale da cristiani.
Gualtiero Bassetti è cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Conferenza episcopale italiana
La Provvidenza di un imprevisto
Il cristianesimo si poggia su una serie fortunata di imprevisti. Il primo è la nascita di un bambino in una sperduta regione della Giudea. Nascere al tempo di Gesù era un gran rischio. È lo stesso rischio che corrono ancora oggi tutti quei bambini che vengono al mondo in quelle regioni della terra dove una certa globalizzazione ha solo tolto le risorse senza però lasciare nessun confort e nessun segno di quella che noi oggi chiamiamo civilizzazione. I bambini poveri nascono non nelle cliniche, ma dove capita. Vengono al mondo per espulsione della natura e non per decisione di qualche parto cesareo. Gesù nasce così. Nasce povero, in uno sperduto villaggio della Giudea di nome Betlemme (Mic 5, 1). E questo bambino non solo fin da subito combatte per restare in vita, nonostante sia nato in una stalla e adagiato in una mangiatoia (Lc 2, 7). Questo bambino nasce già con addosso la taglia dei potenti del tempo (Mt 2, 1-16). Erode fin da subito manda il suo esercito a sterminarlo, e per sicurezza fa ammazzare tutti i bambini del contado dove si dice sia venuto al mondo. Ma “imprevedibilmente” si salva. Già “imprevedibilmente” era nato da una fanciulla Vergine (Is 7, 14). Poi “imprevedibilmente”, protetto dalla dedizione di un uomo che credeva ancora al valore dei “sogni”, Giuseppe, riesce ad espatriare, divenendo ancora piccolo, profugo (Mt 2, 13-15). Oggi si chiamerebbe “rifugiato politico”, ma alla gente piace chiamarli semplicemente stranieri.
L’Onnipotente ha un Figlio. E questo figlio è un bambino debole, povero e profugo. È improbabile che possa compiere quello per cui è venuto al mondo. Eppure “imprevedibilmente” ce la fa.
Molte volte la nostra vita, ci suggerisce che forse è improbabile che ci sia davvero un senso a tutto. Che esista davvero qualcosa che ci renderà felici. Che esista giustizia per tutti gli oppressi della storia. Consolazione per chi soffre in maniera innocente. Pace per chi vive l’inquietudine delle cose brutte. Eppure la nostra fede ci ricorda che “imprevedibilmente” questo può accadere. Ecco perché il Natale è una festa di immensa speranza, perché ci fa attendere a occhi spalancati l’arrivo di quell’“imprevisto” che cambia il finale di una partita quasi persa. Ma questo imprevisto non viene nella “gloria”, ma nella “fragilità” e nella “povertà” della nostra condizione umana. Per questo auguro a tutti di tener sempre da conto la propria umanità, anche se fragile, anche se ferita, anche se debole, anche se a volte indegna, perché in essa Cristo è voluto na-scere.
di LUIGI MARIA EPICOCO
La stella
Il testo che pubblichiamo è uno degli ultimi articoli inviati da padre Manns, morto il 22 dicembre scorso nel convento della Flagellazione di Gerusalemme, dove viveva con la Custodia di Terra Santa. Preside emerito dello Studium Biblicum Franciscanum, ha spesso scritto per il nostro giornale, curando in particolare la rubrica «I racconti della domenica».
«Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo” (...) Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia» (Matteo 2, 1-12).
Tre volte viene menzionata la stella nel racconto della nascita di Gesù. A Natale una stella non può mancare in nessun presepe. Secondo la tradizione è stata proprio questa stella a guidare i Re Magi verso il luogo che ospitava il bambino Gesù e per questo in genere durante la preparazione del presepe la si sistema in cima alla capanna e si attende il 6 gennaio, l’Epifania, per aggiungere le statuine dei Magi. La stella è da sempre circondata da un alone di mistero che riguarda tanto la sua natura quanto la sua effettiva esistenza. Partendo dal Vangelo di Matteo vediamo il significato della stella.
Per i profeti la stella era il simbolo del messia e quindi dell’arrivo di Gesù. Si fa riferimento in questo caso alla profezia di Balaam che viene menzionata in Numeri 24, 17: «Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele, spezza le tempie di Moab e il cranio dei figli di Set».
La stella che spunta da Giacobbe sarebbe appunto la stella del Messia, anzi il Messia, la stella di Betlemme. La versione sinagogale non ha dubbi: «Un Re deve alzarsi dalla casa di Giacobbe, un liberatore e un capo dalla casa di Israele». Matteo ha inserito il riferimento all’astro per sottolineare questa corrispondenza in particolare per i lettori di cultura ebraica.
Israele uscito dall’Egitto ha raggiunto le steppe di Moab in Trans-giordania e semina il panico tra i moabiti e ammoniti. Costoro decidono di ricorrere non tanto alle armi quanto piuttosto alla magia. Il re Balak di Moab interpella appunto Balaam perché, con le sue maledizioni, riesca ad arrestare questa orda di invasori. Ma ecco la grande sorpresa: con tutta la sua scienza, il mago non riesce ad emettere se non benedizioni, divenendo paradossalmente un “profeta” di Israele, malgrado sé stesso, il suo desiderio e l’attesa del suo committente, il re moabita. Il racconto dei capitoli 22-24 del libro dei Numeri è vivace e rivela anche qualche spunto curioso, come quello dell’asina che parla la quale si schiera, anch’essa, dalla parte degli Ebrei (22, 22-35). Lo sguardo del mago-profeta si allunga verso un futuro ancora nebuloso e lontano e là egli intravede due segni, una stella e uno scettro, due simboli regali.
Questa lettura simbolica non esclude le ipotesi storiche proposte dagli scienziati che sono sempre più numerose. La lettura letterale di un testo permette anche una lettura spirituale, perché la scrittura ha 70 sensi. Il simbolismo senza abbandonare la storia mira ad aprire le porte dell’intuizione sull’al di là della storia. L’ipotesi che la stella di Betlemme fosse una cometa, o qualcosa di simile, risale a Origene, che non si basa su tradizioni precedenti, ma suppone che si sia trattato di una nuova “stella”, cioè di un evento eccezionale, probabilmente allo scopo di non deviare dal rifiuto della pratica astrologica, consueto anche fra i cristiani. Origene cita il perduto trattato Sulle comete, scritto dal precettore di Nerone, Cheremone, secondo il quale era prassi accettata che l’apparizione di comete o nuovi astri segnalasse la nascita di importanti personaggi ed era quindi plausibile che i Magi si fossero messi in viaggio al suo apparire.
Il simbolismo della stella ha anche altre valenze. Il profeta Isaia nel predire la distruzione di Babilonia sfida i consiglieri astrologi che osservavano le stelle a salvare la città condannata: «Tu Babilonia ti sei stancata della moltitudine dei tuoi consiglieri. Stiano in piedi ora e ti salvino gli adoratori dei cieli, quelli che osservano le stelle» (Isaia 47, 13).
Una profezia di Daniele, 8 descrive il piccolo “corno” di una futura potenza mondiale nell’atto di calpestare alcune stelle appartenenti «all’esercito dei cieli» e avanzare contro il Principe dell’esercito e il suo santuario (ibidem 8, 9-13); mentre in Daniele, 12, mediante una similitudine, coloro che «hanno perspicacia» e portano altri alla giustizia sono raffigurati nel «tempo della fine» luminosi «come le stelle».
Nel sogno di Giuseppe il patriarca i genitori sono rappresentati dal sole e dalla luna e gli undici fratelli da undici stelle (Genesi 37, 9). Giobbe 38, 7 fa un parallelo fra le stelle del mattino che gioiscono in coro e tutti gli angeli (angeloi) figli di Dio. L’identificazione delle stelle con gli angeli traspare in molti testi biblici o nella letteratura giudaica. Perciò diversi padri della Chiesa fra cui Giovanni Crisostomo non videro alcuna contraddizione nel fatto che una stella, cioè un angelo, scendesse in terra a guidare i Magi sino alla casa di Giuseppe, secondo la narrazione popolare in analogia alla guida data a Israele durante l’esodo (Esodo 14, 19). Alla Chiesa di Tiatira Gesù promette di dare la stella del mattino a chi è rimasto fedele durante la tribolazione (Apocalisse 2, 28). Infine i sette angeli della Chiesa sono simboleggiati da sette stelle nelle mani di Dio (Apocalisse 2, 1).
L’oscurarsi delle stelle è una figura che ricorre in avvertimenti profetici di disastri del giudizio di Dio (Isaia 13, 10; Ezechiele 32, 7). Segni nel sole, nella luna e nelle stelle sono stati predetti come evidenza del tempo della fine (Luca 21, 25). Al simbolo della stella è associato anche quello della luce messianica e della gioia. Il tema della luce compare in molte altre profezie tradizionalmente applicate al Messia, fra cui quella di Isaia 60, 1-6. Infine nel Salmo 71 si prediceva che al Messia sarebbe stato donato «oro d’Arabia» e che «i re degli Arabi e di Saba» gli avrebbero «offerto tributi». Ed ecco l’adorazione dei Magi, che con il loro oro legittimano Gesù in base ai simboli biblici.
Il Nuovo Testamento dà la realtà di quanto annunciato nell’Antico, latetpatet (è nascosto - è apparente), diceva sant’Agostino. L’Antico contiene il Nuovo, il Nuovo illumina l’Antico.
di FRÉDÉRIC MANNS