Armando Matteo: dieci proposte pastorali per una riforma della Chiesa (e "Convertire Peter Pan")


 Il teologo calabrese, Armando Matteo, ha da pochi mesi pubblicato il libro "Convertire Peter Pan", regalato dal Papa alla Curia Romana. Analizza la crisi di un cambiamento d’epoca (e non tanto di un’epoca di cambiamenti) che ha il segno delle chiese vuote del lockdown e ora delle chiese semivuote del post pandemia. Molte persone non sono più tornate in Chiesa. E a mancare, tra i banchi, è soprattutto la generazione degli adulti. È allora necessario mettere mano ad una riforma della Chiesa che non miri solo ad aggiungere un rattoppo nuovo su un vestito vecchio. È tempo di rivestire con un vestito nuovo quel corpo di Cristo che è la Chiesa. È tempo di abbandonare un cristianesimo della consolazione e sostituirlo con un cristianesimo della tenerezza.

Nell'ultimo capitolo del libro delinea dieci proposte pastorali che possono essere subito attuate:

Primo. Avviare una grande stagione di sinodalità…con due fuochi: il primo consiste nello “stilare l’elenco di tutto ciò che si realizza in una comunità lungo l’anno pastorale (catechismo, grest, oratorio, feste, novene, processioni, via crucis, ecc.) e per ciascuna attività organizzata ci si dovrà con parresia interrogare sulla sua reale capacità di rinviare a Gesù, sul suo effettivo potere di suscitare desiderio e interesse per un incontro diretto con la grazia del Vangelo, sul suo tasso di fascinazione per una fede possibile” (p.112). Il secondo fuoco verterà sul futuro comunitario: “Ci si dovrà con onestà chiedere se, come credenti, abbiamo ancora un sogno per questa nostra Chiesa, per questa nostra umanità, per il nostro stesso destino personale…Siamo ancora capaci di sognare?” (p.112)

Secondo. Mettersi a dieta

Lo slogan “meno messe e più Messa” è ancora da realizzare. Così come l’accorpamento di parrocchie e di diocesi: evitando una presenza a pioggia di chiese semivuote e, soprattutto, “semimorte”.

Terzo. Rifarsi gli occhi ovvero vedere con gli occhi di Gesù[1]

Quarto. Vangelo&preghiera: la spiritualità che serve.

Ogni comunità parrocchiale è chiamata a diventare «casa e scuola di lettura della Parola e casa e scuola di preghiera». Il Vangelo e la pratica della preghiera sono la «cosa migliore» che credenti e Chiese possono e devono dare «a chiunque si accosti all’universo ecclesiale» (p. 115)[2].

Quinto. Abolire le feste di prima comunione e di cresima. Dalle tappe generazionali con “automatismo dei sacramenti” al desiderio delle persone che cercano.

Sesto. In alto le nostre ugole. Perché i canti sono più importanti dell’omelia.

Settimo. Il giorno dell’ascolto. Per dedicare tempo agli altri, in particolare a chi vive nella solitudine.

Ottavo. Accolite e lettrici. E catechiste con il ministero.

Nono. Patto educativo parrocchiale. Coinvolgendo le numerose agenzie educative presenti.

Decimo. «Depressi perché credenti o credenti perché depressi?» (p. 122). «Oggi quando si pensa a temi come la gioia, la festa, il godimento, nessuno quasi più pensa al mondo della Chiesa e della religione». Raccontare di un Dio e di una fede senza gioia e senza festa alimenta la considerazione diffusa per la quale la festa e la gioia si debbono vivere lontano da dove Dio abita. «In breve, un Dio che continua a essere celebrato senza gioia dà luogo alla corrente convinzione che la gioia sia da celebrare proprio senza Dio» (p. 123). Un cristianesimo fatto di mitezza è un cristianesimo fatto di gioia, di quella gioia che nasce quando si incontra il Risorto. Papa Francesco, nell’Angelus del 13 dicembre 2020 l’ha detto con chiarezza: «La gioia deve essere la caratteristica della nostra fede… Se la fede è triste, è meglio non averla» (p. 124).

E conclude: «E’ la nostra gioia l’antidoto e il vaccino contro l’individualismo radicale che oggi affligge e crocifigge il mondo. È la nostra gioia di adulti e di credenti, felici di esserlo, la mossa giusta per convertire Peter Pan dalla sua illusione di un solitario godimento infinito. In verità, solo chi ama gode, solo che sa rendere felice gode, solo chi dona gode. Oggi e per la vita che verrà» (p. 124).

INDICE:

Introduzione. La grande tentazione

1.      IL SEGNO DELLE CHIESE SEMIVUOTE

A un certo punto, tutto riparte o quasi; Adulti di poca fede; Ma la fede non è una questione di rapporto personale con Dio?

2.      L’ADULTO CHE CI MANCA

Adulti 4.0: senza trascendenze, senza verità, senza limiti, senza morale, senza politica.

3.      MITO DELL’ETERNA GIOVINEZZA

Gli adulti di oggi non sono più quelli di una volta; Fuori dalla giovinezza, nessuna salvezza.

4.      GODOT NON VERRA’

I cari vecchi “credenti non praticanti”; Pettinare o uscire, questo è il dilemma.

5.      OPZIONE FRANCESCO

Non è più tempo di Gattopardi; La cristianità è finita. Andate in pace; Se duecento anni (di ritardo) vi sembrano pochi.

6.      GESU’, LA MITEZZA FATTA CARNE

Uno sguardo libero e liberante. Più potente della propria potenza.

7.      CONVERIRE PETER PAN

Un trauma non traumatico; È tempo di buoni samaritani.

8.      IL SOGNO DI UNA CHIESA PER ADULTI E ADULTE: (Altre) Dieci cosa che si possono fare subito

***

A originare la riflessione è un recente saggio del filosofo ceco Tomáš Halík, in particolare una sua conclusione:

«Forse questo tempo di edifici ecclesiali vuoti mette simbolicamente in luce il vuoto nascosto delle Chiese e il loro possibile futuro se non si compie un serio tentativo per mostrare al mondo un volto del cristianesimo completamente diverso».

I luoghi di culto semideserti sono da leggere come segno e sfida provenienti da Dio, come vuoto nascosto ma reale riempito altrove dalla “movida”, dagli aperitivi, dai social, dal calcio, dai trattamenti “anti-age”. Dati alla mano (quelli del 2017 riportati da un testo di Franco Garelli), aumenta in modo preoccupante in Italia la fascia di popolazione dei “senza religione”, raddoppiata negli ultimi venti-venticinque anni. Se il 76 per cento dei cittadini si dichiara “cattolico”, scavando a fondo si scopre che, oltre a parecchi giovani, solo 4,8 su 26 milioni di adulti fra i 35 e i 64 anni partecipano settimanalmente (o più) ai riti religiosi e solo 6 milioni di essi pregano con una certa frequenza. Meglio rispetto alla Francia descritta da Valérie Le Chevalier in Credenti non praticanti — 53 per cento di “cattolici”, solo il 5 per cento a messa la domenica — ma un quadro sufficientemente chiaro per affermare che ci troviamo di fronte anche in Italia a un cambiamento d’epoca, alla stagione della postmodernità abitata dall’adulto 4.0 che, soggiogato dal sentimento di libertà e di unicità (la sua libertà, la sua unicità), può definirsi senza trascendenza, senza verità, senza limiti, senza morale, senza politica. Quest’essere incoerente (ma non verso sé stesso), ambivalente per non dire ambiguo, è dominato dall’economia e dal mercato del godimento, alimentato dal sistema pubblicitario e dalla cultura televisiva. Siamo all’adorazione della giovinezza, osserva lo stesso Papa Francesco nell’esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit, come se «tutto ciò che non è giovane risultasse detestabile e caduco» (182).

Davanti a questo nuovo culto, che ha nel corpo giovane il suo simbolo, che guarda il vecchio quasi con disprezzo, occorre una «conversione della mentalità pastorale». Quei “credenti non praticanti” (pur sempre cristiani), quei “cattolici anonimi” vanno salvati, convertiti appunto, non abbandonati. La sindrome che ha stregato gli adulti di oggi va curata, anche per il bene dei giovani di domani. Ma come? Secondo don Armando Matteo, Francesco rappresenta in tal senso un’opzione. E la linea da seguire è quella tracciata dai due discorsi, pronunciati davanti alla Curia romana, del 21 dicembre 2019 e del 21 dicembre 2020. Matteo li ripercorre per evidenziare tre colonne portanti. La prima è «il riconoscimento del nuovo contesto culturale nel quale ci troviamo a vivere»; occorre fare pace con il mondo che è già cambiato; dal tempo dei doveri familiari e sociali siamo passati ormai al tempo del diritto alla libertà simboleggiato dai Peter Pan. La seconda è «l’ammissione senza risentimento della fine della cristianità», mandata in soffitta dall’adulto 4.0; le attuali forme di trasmissione della fede sono ancora quelle dell’epoca dell’iniziazione cristiana, la mentalità pastorale resta incentrata sulla capacità di dare consolazione, di essere «balsamo di speranza e luce» per affrontare una vita «breve e dura»; ma la storia oggi non è più questa. Il terzo passo è appunto «l’accettazione coraggiosa della necessità di un nuovo paradigma pastorale» (è sempre il Pontefice a sollecitarlo in un intervento del 27 novembre 2014), riproponendo Gesù e il suo Vangelo in maniera audace e senza timori e colmando finalmente quel gap di comunicazione tra Chiesa e universo adulto. L’autore del libro individua la chiave nella parola “mitezza” (Matteo, 11, 29). La mitezza dello sguardo di Gesù sugli uomini e le donne del suo tempo, la mitezza come maturità (dal latino mitis, tenero, maturo), ma anche come compassione, prossimità, attenzione, ospitalità, senso di partecipazione al destino altrui, in definitiva un altro stile, quello di Cristo, «più potente della propria potenza», il vero e unico modo di ereditare la terra (Matteo, 5, 5).

Se l’egolatria, il culto del proprio io, l’individualismo — scrive l’autore citando Papa Francesco — è il virus più difficile da sconfiggere, se le «ombre di un mondo chiuso» (elencate una per una nell’enciclica Fratelli tutti) ostacolano lo sviluppo della fraternità universale, occorrono strumenti drastici per riuscire nell’impresa di capovolgere il quadro. Trasformare Peter Pan nel buon samaritano, o quantomeno rammentargli che il farsi prossimo, il prendersi cura, fanno parte di lui; aiutarlo nel passaggio dal mito del giovanilismo alla stagione della maturità/mitezza: per riuscirci, o comunque provarci, Matteo propone alla fine del volume dei suggerimenti concreti, “dieci cose che si possono fare subito”, che partono dall’avvio di una vera stagione di sinodalità da vivere in ogni parrocchia (dove il movimento pastorale sia unico e non frammentato in generazioni, una “pastorale dell’incrocio” insomma, apostolato dell’ascolto che non tenga fuori nessuno) e arrivano a un’altra parola-chiave per imparare a guardare il mondo con gli occhi di Gesù, “gioia”. La gioia come caratteristica della fede, come antidoto, vaccino contro l’individualismo radicale. E se per convertire Peter Pan dalla sua «illusione di un solitario godimento infinito» bastasse svegliarlo e ricordargli che in verità «solo chi ama, solo chi sa rendere felice, solo chi dona», gode?


***

La “sindrome di Peter Pan” descrive bene l’atteggiamento di chi vive un’eterna fanciullezza, rifiutandosi di crescere, di assumersi responsabilità, di fare delle scelte. Al posto di individui maturi, abbiamo a che fare con strani bamboccioni ripiegati su se stessi, egolatri e narcisisti, cinici e manipolatori: non vogliono l’uscita dalla minorità, non ritengono di doversi impegnare più di tanto per partecipare alla costruzione del bene comune, non credono alla possibilità di creare un mondo migliore e più giusto, considerano pure illusioni le grandi mete, non desiderano legami a lungo termine, si guardano continuamente allo specchio sino a non essere in grado di rivolgere gli occhi verso gli altri e verso il mondo…

Chi ne è colpito finge di essere grande, ma in realtà si comporta come un bambino viziato e senza regole, perché queste non gli sono mai state insegnate o inculcate.

La “sindrome di Peter Pan” colpisce gli uomini, ma non ne sono esenti le donne: uomini e donne – scrive Matteo – della post-modernità che vivono e respirano a pieni polmoni «l’inedita ed eccitante libertà» di essere liberi e di essere unici (p. 14), «adulti senza trascendenze, senza verità, senza limiti, senza morale e senza politica» (p. 43) che «imbecillemente vivono pensando che fuori della giovinezza non c’è salvezza» (p. 57). Adulti che, non sapendo più educare e trasmettere valori (p. 72), vengono meno al loro compito generativo e generazionale. «Peter Pan non solo non vuole crescere. Peter Pan non fa più crescere nessuno» (p. 65).

I cristiani adulti “alla Peter Pan”

Con riferimento alla situazione ecclesiale (non solo) italiana, la “sindrome di Peter Pan”, secondo Armando Matteo, sta facendo strage tra chi oggi ha un’età compresa tra i quaranta e i sessant’anni, cioè tra la fetta di popolazione più numerosa. Secondo i dati stimati dall’Istat relativi alla popolazione italiana residente al 1° gennaio 2021, infatti, gli adulti di età compresa tra i 35 e i 64 anni sono circa 25,6 milioni, a fronte di una popolazione complessiva di 59 milioni e 258 mila.

È proprio tra questa fetta di popolazione che sono rinvenibili gli adulti – uomini e donne – che «hanno smesso, in larghissima maggioranza, di ritenere la comunità cristiana il luogo dove poter trovare risposte pertinenti alle loro domande di senso», frequentandola rarissimamente, per lo più in occasione di battesimi, matrimoni e funerali, con apparizioni fugaci a Natale e a Pasqua e soprattutto quando si tratta di iscrivere il figlio «alla scuola (sic!) del catechismo» (p. 59). Ed è quella adulta «la quota di popolazione che, nel corso del tempo, ha dismesso con maggiore incisività la pratica della preghiera» (p. 29) che è il respiro della fede.

Sono questi adulti anagrafici e bambini di fatto che sembrano «aver trovato solo nel mito dell’eterna giovinezza l’unica religione in grado di rispondere alla domanda di senso» (p. 14). E la domanda di senso più che nella responsabilità sociale e nella pratica religiosa pare trovare risposta adeguata «nella movida, nel campionato di calcio, nelle discoteche, negli aperitivi serali e negli impianti sciistici e balneari» (p. 23).

Armando Matteo condivide l’opinione di chi ritiene che la presenza massiccia di cristiani peterpanici vada attribuita non tanto ad influenze esterne come la secolarizzazione (p. 20), ma al «cambiamento d’epoca», di cui parla con insistenza papa Francesco. Un cambiamento d’epoca che, da un lato, segna la fine di un capitolo della storia del cristianesimo, dall’altro, costringe a prendere atto che è tempo di dare volto e forma ad un cristianesimo nuovo, mettendo un vestito nuovo a quel Corpo di Cristo che è la Chiesa (p. 16).

«Se la Chiesa non trova una parola per gli adulti e per le adulte, non ne avrà mai una a disposizione per i giovani e le giovani» (p. 52). La sfida più grande che da tempo il cristianesimo ha davanti a sé «è quella di trovare una parola di Vangelo per l’adulto di oggi. Per l’adulto postmoderno» (p. 14). Non è una questione di oggi, ma una questione che oggi non può più essere rinviata (p. 24). Ne va di mezzo la trasmissione generazionale della fede (p. 74).

L’autentico vuoto delle chiese non è quello causato dalla pandemia da covid-19, ma piuttosto quello determinato dall’assenza di relazioni significative della Chiesa con il mondo adulto (p. 67), da quell’«autentico gap di comunicazione tra universo adulto e comunità cristiana» che impedisce all’attuale azione pastorale «di far rilucere la grazia del Vangelo come a tutti disponibile per una vita umana pienamente fiorita e compiuta» (p. 95).

Il saggio di Matteo «mira ad offrire una possibile forma di inculturazione della fede cristiana dentro le pieghe e le piaghe di questo nostro tempo postmoderno, profondamente segnato da un radicale cambiamento dell’essere al mondo della popolazione adulta, trasfiguratasi sempre più a immagine e somiglianza di Peter Pan» (p. 108).

L’Opzione Francesco

In presenza di questa situazione, due sono i passi da compiere, da parte delle comunità dei credenti, per riavvicinare «universo della fede cattolica e universo degli adulti contemporanei»: definire compiutamente il profilo degli adulti che ci mancano e attribuire nei fatti assoluta importanza alla conversione della mentalità pastorale, richiesta con insistenza da papa Francesco, che ha la portata di un’autentica rivoluzione copernicana del nostro essere e fare Chiesa oggi (p. 56).

Armando Matteo non ritiene che gli adulti che ci mancano siano i cosiddetti “credenti non praticanti”. Accettare questa convinzione, «alla fine dei conti, dispensa i credenti e i loro pastori dall’assumere un rinnovato atteggiamento missionario» e «alimenta una strategia di attesa che fa sì che tutto rimanga inalterato nel nostro progettare e agire pastorale» (p. 63). Gli adulti che oggi non ci sono più nelle nostre comunità sono i «diversamente credenti non praticanti», cioè i credenti nel dio della giovinezza, adulti alla Pater Pan, che considerano irrilevanti le aperture al divino, non necessarie le ricerche di una verità unica o di un’unica verità, inarrestabili i processi tecnologici che sottraggono terreno a ciò che il linguaggio classico definiva “natura”, trascurabili le istanze etiche, anacronistico ogni tentativo di concepire la politica come strumento indispensabile per la costruzione del bene comune.

Per far fronte alla crisi ecclesiale, «iniziata da almeno quattro decenni», dovuta all’assenza «di relazioni significative della Chiesa con il mondo adulto» e per avviare una vera conversione della mentalità pastorale che metta al bando ogni furbizia gattopardesca, il prof. Matteo sottolinea l’urgenza di assumere quella che chiama Opzione Francesco (p. 67), la quale ha tre colonne portanti: riconoscere il nuovo contesto culturale nel quale ci troviamo a vivere; ammettere senza risentimento la fine della cristianità; accettare con coraggio la necessità di un nuovo paradigma pastorale (p. 69).

I credenti e le Chiese devono non solo lasciarsi interrogare dalle sfide poste dal cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, ma soprattutto impegnarsi a coglierle con le virtù del discernimento, del coraggio, della pazienza e della perseveranza (p. 72).

I credenti e le Chiese devono poi accettare che non siamo più in un regime di cristianità. Le popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non vivono solo nei cosiddetti “paesi di missione”, ma anche nel nostro mondo occidentale. L’adulto peterpanico ha mandato definitivamente in soffitta la cristianità.

Questo aspetto dell’Opzione Francesco mette in luce che le attuali forme di trasmissione della fede, l’azione concreta dell’intera vita parrocchiale e la mentalità pastorale vigente, in quanto legate all’epoca della cristianità e ad una sensibilità dell’umano tipica del tempo della cristianità, non sono più idonee a rivestire con un vestito nuovo quel corpo di Cristo che è la Chiesa, di modo che la parola del Vangelo che i credenti custodiscono come tesoro prezioso possa apparire veramente a disposizione di chiunque, nella sua bellezza e nella sua grazia (p. 55).

Il terzo e decisivo elemento dell’Opzione Francesco è costituito dall’urgenza di una conversione della mentalità pastorale. «Serve una mentalità pastorale nuova che non faccia mancare agli uomini e alle donne del nostro tempo ciò di cui hanno più bisogno: Gesù e il suo Vangelo. Si tratta concretamente di trovare un modo nuovo per far sorgere nel cuore degli adulti attuali un rinnovato desiderio di Gesù e del suo Vangelo» (p. 78).

Dalla consolazione alla mitezza

La conversione della mentalità pastorale potrebbe – secondo Armando Matteo – prendere forma con il passaggio da un cristianesimo della consolazione a un cristianesimo della mitezza.

Ai tempi in cui «vigeva una riuscita sintonia tra il senso dell’umano della vita e le forme storiche della religione cristiana», gli operatori ecclesiali hanno saputo offrire luce, speranza e incoraggiamento a intere generazioni di uomini e donne obbligati a «far fronte al duro mestiere di vivere, senza cadere sotto il peso della frustrazione e del risentimento» (p. 81). Lo hanno fatto grazie alla “pastorale della consolazione” (p. 81) che metteva in luce «un’immagine del cristianesimo profondamente assestata sui temi dell’aldilà e del giudizio finale, sull’imitazione di Cristo sofferente e sull’esaltazione della prontezza con la quale Maria obbedisce a Dio, sul senso della colpa e del peccato – originale e personale – e sul precetto: cose tutte che hanno portato in non pochi casi pure a deformare il volto di Dio stesso, così come ce lo ha rivelato Gesù» (p. 82).

Tramontata la cristianità, credenti e Chiese devono riuscire a trovare forme di collegamento tra il cristianesimo e la domanda di senso degli adulti e delle adulte di oggi e a individuare nuove sintonie tra modo attuale di vivere e rinnovate proposte di fede cristiana, mettendo al centro di ogni azione pastorale «la consegna amorosa di Gesù», “mite e umile di cuore” (Mt 11,29), e del suo Vangelo (p. 83).

Passare da un cristianesimo della consolazione a un cristianesimo della mitezza è la proposta del prof. Matteo che è, peraltro, profondamente consapevole che «ogni stagione e ogni forma concreta di inculturazione del Vangelo non ne potrà mai esaurire completamente la bellezza e la profondità» (p. 108).

Ad imitazione di Gesù, un cristianesimo della mitezza lascia essere l’altro per quello che è, creando lo spazio per una relazione veramente libera e liberante (p. 86), partecipa ed è in sintonia con chi è colpito dalla sofferenza e dal dolore (pp. 87-88), non permette che l’odio o la violenza spengano l’amore (p. 90), non incoraggia nessuna forma di remissività di fronte alla prepotenza del male, anticipa la possibilità di un mondo diverso dove la gentilezza dei costumi è pratica universale, apre ad un modo diverso di abitare la terra (p. 91), può scatenare dentro gli adulti «quel carattere samaritano del DNA spirituale della specie umana» (p. 104) che permette loro di «sedere nel consesso degli umani» negato a chi è capace di amare solo se stesso (p. 105).

È «con le risorse che la virtù della mitezza mette a nostra disposizione e che brillano in Gesù in tutta la loro forza» che, come credenti, possiamo «andare incontro alla domanda di senso che abita gli adulti contemporanei» (p. 92).

La pastorale che serve è questa: «agire in modo tale che ogni gesto posto in atto dai cristiani, singolarmente o insieme, diventi occasione, per chiunque, di incontrarsi con il Risorto e innamorarsi di lui, ricevendo la grazia di potersi finalmente spogliare dell’uomo vecchio, come dice san Paolo. Di potersi finalmente spogliare di Peter Pan e rinascere da buon samaritano, aggiunge chi scrive» (p. 105).


[1] La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. In tanti ambiti della vita ci affidiamo ad altre persone che conoscono le cose meglio di noi. Abbiamo fiducia nell’architetto che costruisce la nostra casa, nel farmacista che ci offre il medicamento per la guarigione, nell’avvocato che ci difende in tribunale. Abbiamo anche bisogno di qualcuno che sia affidabile ed esperto nelle cose di Dio. Gesù, suo Figlio, si presenta come Colui che ci spiega Dio (cfr Gv 1,18). La vita di Cristo — il suo modo di conoscere il Padre, di vivere totalmente nella relazione con Lui — apre uno spazio nuovo all’esperienza umana e noi vi possiamo entrare. (Lumen gentium, 18)

[2]  ‘Cosa farebbe Cristo al mio posto?’. A scuola, all’università, per strada, a casa, con gli amici, al lavoro; davanti a quelli che fanno i bulli: ‘Cosa farebbe Cristo al mio posto?’. Quando andate a ballare, quando fate sport o andate allo stadio: ‘Cosa farebbe Cristo al mio posto?’. È la password, la carica per accendere il nostro cuore, accendere la fede e la scintilla nei nostri occhi. (Francesco ai giovani cileni, gennaio 2018).

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