Omelia per il Giovedì Santo
Questa sera è la sera dell'addio. Gesù è consapevole di non avere altre occasioni per salutare i suoi prima del suo arresto, passione e morte.
Come far comprendere ai suoi che li ama immensamente e che, nonostante le apparenze, non li abbandona, anzi si fa ancora più vicino e intimo a loro? Come lasciare loro un testamento spirituale che risulti comprensibile e vivibile?
Da questo tormento, da questo desiderio nascono due sacramenti fondamentali: l'istituzione dell'Eucaristia e del sacerdozio ministeriale. E questi sgorgano da due gesti memorabili: l'ultima cena e la lavanda dei piedi.
Questa è la sera in cui ricordiamo e riviviamo tutto questo: l'amore viscerale di Gesù per i suoi discepoli, l'angoscia per il tradimento e la violenza che presto subirà, la genialità divina di rendersi presente per sempre non solo in mezzo a noi, ma in ogni persona che lo accoglie nel pane eucaristico. Si fa parte di noi, energia vitale che scorre nel nostro sangue, luce interiore che illumina le nostre tenebre.
Il contesto in cui tutto questo avviene è la Pasqua ebraica, la festa più solenne per gli ebrei, quella che ricorda la liberazione dalla schiavitù in Egitto. Con la morte e la resurrezione di Gesù la Pasqua cristiana ricorda una nuova liberazione: quella dalla morte eterna, dal peccato che uccide, dalla schiavitù interiore.
E' la notte che anticipa e offre una chiave di lettura a tutto questo: "quello che io faccio - dice Gesù a un Pietro che si rifiuta di farsi lavare i piedi dal Maestro - tu ora non lo capisci, lo capirai dopo".
Gesù interrompe la sua ultima cena - la prima Messa narrata da San Paolo - per lavare i piedi ai suoi discepoli. Un gesto che andava fatto prima di iniziare il pasto e che andava affidato ai servi, non certo al Maestro. Ma è il gesto che oggi, con Pietro, comprendiamo: essere cristiani, cercare di seguire Gesù Cristo, significa fare come ha fatto lui: mettersi al servizio degli altri anziché servirsi degli altri, non temere di apparire inferiori anziché sforzarci di apparire superiori agli altri. Significa prenderci cura delle esigenze degli altri chinandoci ai loro piedi, anziché ergerci dall'alto per guardare gli altri dall'alto in basso.
Ed è un gesto sacerdotale secondo una dimensione che ci accomuna, quella battesimale: con il Battesimo siamo tutti sacerdoti, cioè mediatori tra Dio e l'umanità, chiamati ad agevolare il cammino di Dio verso di noi, ad aiutare ogni uomo ad abbassare le sue difese nei confronti di Dio. Tutti siamo chiamati a prenderci cura degli altri, a farlo nel servizio umile e gratuito.
Ma c'è anche una dimensione sacerdotale ministeriale, quella che è propria di noi preti: celebrare l'Eucaristia significa metterci al servizio degli altri. Richiede di purificarli dalle incrostazioni del male. In fondo ciò che proprio del presbitero è la consacrazione eucaristica e il perdono dei peccati, dimensione che è allusa dal dialogo con Pietro: "Se non ti lascerai lavare i piedi, non avrai parte con me"
Diceva don Tonino Bello, commentando questo episodio evangelico: le vesti veramente sacerdotali sono un grembiule e un asciugatoio. Noi preti dobbiamo ricordarlo e voi fedeli aiutateci a ricordarlo, pregando per noi.