In margine alla strage di Altavilla e al ruolo della religione...
In margine alla strage di Altavilla e al ruolo della religione rimando alle riflessioni di Alessandro D'Avenia, all'intervista allo psichiatra Paolo Crepet e alle considerazioni di Davide Murgia e a quelle di don Patriciello.
D'Avenia sul Corriere di lunedì scorso parla del rapporto tra violenza e religione, a partire dal fratricidio di Caino nei confronti di Abele. Se togliamo la d a Dio, rimane l'io e il proprio egoismo.
Crepet mette l'accento sulla disperazione di povera gente che diventa facile preda di persone senza scrupoli.
Murgia evidenzia come la paura del diavolo e l'esorcismo come pratica per scacciarlo sia nel cattolicesimo qualcosa riservato ai sacerdoti che hanno un mandato del vescovo e l'esperienza di saper riconoscere la situazione. Nelle comunità evangeliche, come quelle a cui apparteneva la famiglia di Altavilla, non ci sono indicazioni. Ognuno fa per sè.
Don Patriciello sconfessa invece che la famiglia facesse parte di una comunità evangelica, difendendo queste comunità.
Vi invito in particolare a leggere la riflessione di D'Avenia:
I cruenti fatti di cronaca recente mostrano lo stretto legame tra religione e violenza. A tal proposito molti pensano, come canta Lennon in Imagine, che eliminare le religioni ci renderebbe più fratelli.
La violenza di Caino (che rappresenta anche gruppi o popoli) non nasce dalla religione ma dalle difese che il nostro io impaurito dalla morte alza per proteggersi e rassicurarsi: avere il controllo di Dio o di ciò che riteniamo essere dio (risorse, potere, ricchezza, salute...). L’io non vuole con-dividere, vuole essere «figlio unico», cioè «assoluto», letteralmente «sciolto da tutto», del tutto autosufficiente: non ci possono essere fratelli. Il problema è tutto in una «d», basta toglierla a Dio e l’io, privo di trascendenza, diventa violento, perché il suo desiderio di infinito viene proiettato su ciò che è finito, e l’altro diventa una minaccia allo «spazio vitale», la «d» è sostituita da una «m», perché dire «mio» significa rafforzare l’«io». L’ego non vuole con-dividere, gli pare di morire. Che c’entra questo con la religione? La religiosità, come mostra la storia dell’umanità, è un bisogno naturale dell’uomo che scopre di non bastare a se stesso. La psicologia della religione, che è parte di quella del profondo, spiega che l’atteggiamento religioso è una disposizione esistenziale che, sfuggendo al puro dominio razionale, attribuiamo infatti a luoghi metaforici: inconscio, cuore... A questo livello profondo siamo mossi dall’istinto di conservazione, come dalla fame, dalla sete, dalla paura del dolore. E usiamo la religione come narrazione per sopravvivere, o meglio l’ego, impaurito della morte, se ne serve così: in un aereo in balia di forti perturbazioni pregano anche gli atei. L’uomo, nel tentativo di gestire forze di cui non ha il controllo, inventa espedienti rassicuranti, attribuisce al divino ciò che lo minaccia e cerca di tenerlo a bada attraverso rappresentazioni con le quali instaura poi relazioni di tipo commerciale: idoli, sacrifici, preghiere, prove... in cambio di protezione. Di fronte all’ignoto che è ignoranza della causa o dello scopo di qualcosa, l’uomo ha bisogno di rassicurarsi, e la religione attenua la paura dettata dall’ignoranza (paura oggi combattuta con una fiducia nella scienza e nella tecnica che ha infatti assunto caratteri religiosi: devozione, fedeli, nemici, profeti, promesse...). Per farsi amico di ciò che lo minaccia e gestirne la paura, l’uomo crea strutture materiali e psichiche fatte di narrazioni, regole, luoghi, riti e si assoggetta ad esse. Chi minaccia queste «proiezioni» e «protezioni» diventa: eretico, infedele, impuro...
L’ego pone confini ed esclusività proprio a chi gli sta più vicino («fratello» nel racconto di Caino e Abele indica i legami più stretti). Il sadismo è la risposta estrema al senso di minaccia portato al nostro ego, e diventa masochismo quando è rivolto a se stessi: devo distruggere ciò a cui tengo per tenermi buono il divino. «Perché proprio a me che ti ho sempre servito» è la frase che tradisce l’ego che crede sia amore la sua interessata sottomissione. La religiosità autentica, che non è prodotta dell’ego, non sottomette ma crea legami che uniscono. All’origine di ogni distruzione, sacrificio, violenza, c’è un ego impaurito che corrompe la natura religiosa dell’uomo. Anche i totalitarismi rivelano questo meccanismo, l’ideologia è una forma religiosa con apparati rituali, sacrificali e di censura. La soluzione non è allora eliminare la sete naturale di Dio, ma scoprire che ciò che unisce Caino e Abele è proprio quella sete: l’altro non è il nemico dell’ego che vuole l’esclusiva, ma un fratello con la stessa domanda di infinito e quindi da custodire. L’amore nasce da qui: dal riconoscersi figli della stessa sete. La religiosità autentica non corazza l’ego, ma lo smonta per far emergere il Sè, cioè l’uomo compiuto, che è l’io in relazione, aperto alla vita. L’io isolato, amando, esce dalla sua prigione auto-inflitta e genera vita: ci vuole una «egografia» per far nascere l’io che sa amare, che rinuncia all’esclusiva sul mondo perché, solo amando, relativizza la paura della morte che lo porta a volere tutto per sé. Mi ha sempre colpito che in origine i cristiani, per l’eucarestia, non si riunivano in un luogo sacro ma nelle case, senza differenza di classe o cultura. Un gesto quotidiano e necessario, un pasto, rimescolava rapporti di forza e li trasformava in legami: non sorprende che i Romani, pronti pragmaticamente a tollerare tutte le religioni, perseguitarono (la loro violenza viene smascherata) proprio quella che minava un intero sistema di potere e non era disposta ad adorare l’imperatore.
La vita veramente religiosa si mostra come un modo nuovo di vivere le relazioni: non è un’esperienza «esclusiva» come si dice oggi per rendere appetibile qualcosa di costoso, ma è gratis, per tutti, così come sono. Ed è l’Amore. Dio non è onnipotente, onnisciente... ma, dice l’evangelista Giovanni, è Amore, cioè relazione e vita data gratis, che comincia dal riconoscere all’altro il valore assoluto che pretendiamo sia solo nostro, proprio perché in relazione a Dio siamo tutti paradossalmente «fratelli unigeniti», ognuno necessario (unico) e relativo (cioè in relazione, collegato). Dio non è dove c’è il potere religioso e purtroppo spesso la religione si riduce ad apparato di potere, ma dove c’è un modo nuovo di vivere le relazioni con gli altri e con il mondo: non sono dettate dal controllo e dalla paura ma dalla libertà e dalla ricerca comune di senso. La religiosità autentica fa nascere l’io compiuto, aggiunge una d- a -io, perché Dio è la possibilità di creare relazioni vere. Dio c’è solo dove uno diventa custode dell’altro e il sangue di Abele smette di scorrere.