Giovani, devianze e violenze
Aspre (e giuste) polemiche ha scatenato il post di Fratelli d'Italia in cui si parla dell'anoressia, dell'obesità e dell'autolesionismo come "devianza giovanile". La Meloni è tornata sull'argomento ribadendo che «se Fratelli d’Italia andrà al governo intende investire molto sullo sport, perché lo sport è lo strumento migliore per combattere i fenomeni di devianza giovanile».
Ribatte piccata una ragazza affetta da anoressia: "Cara Giorgia Meloni non sono deviata, ma malata: non ho scelto io l'anoressia". Su Vita ribatte in maniera equilibrata lo psicologo Matteo Lancini: "La politica metta al centro la sofferenza dei giovani, non la "devianza".
Ma è un articolo pubblicato sul settimanale della Diocesi di Brescia, La voce del popolo, ad avermi particolarmente interessato. Mette in luce, in seguito all'ennesimo fatto di violenza e di razzismo, un altro problema legato al mondo dei giovani (e dei trapper). Lo ripropongo:
Giovani e violenza. La scorciatoia sbagliata
Un mix di violenza, droga, sesso, istigazione alla trasgressione, odio razziale, esibiti come trofei.
Più che per la loro musica, i trapper fanno parlare di sé per i reati che compiono postandoli in tempo reale sui loro profili social. Un mix di violenza, droga, sesso, istigazione alla trasgressione, cui ultimamente si è aggiunto anche un episodio di odio razziale. “Vogliamo ammazzarti perché sei nero”, hanno urlato Traffik e Jordan Jeffrey Baby, aggredendo e derubando, armati di coltello, un cittadino nigeriano nella stazione di Carnate, a Monza. Ma è solo l’ultimo di una lunga serie di violenze che vede giovanissimi capi branco protagonisti di brutali aggressioni, pestaggi, rapine esibiti sui social come trofei. Ne abbiamo parlato con Mario Pollo, antropologo dell’educazione, già docente di sociologia e pedagogia all’Università Lumsa di Roma.
Un modus operandi da gang criminali: che cosa c’è dietro?
Anzitutto un obiettivo economico: per potermi affermare come trapper ho bisogno che una casa discografica mi noti. Più sono visibile sui social, più ho probabilità di accaparrarmi un contratto discografico. E poco importa se a costo di trasgressione e violenze. Alla base di questo fenomeno ci sono ragazzi italiani, spesso di prima o seconda generazione, che vivono in contesti urbani periferici e degradati percependone la marginalità. Normalmente hanno famiglie prive di risorse economiche e culturali per supportare una loro integrazione sociale più evoluta. In questo contesto, ma è un fenomeno che già più di trent’anni fa riguardava ad esempio gli ultras, a fronte dell’incapacità di costruire la propria vita nella complessità sociale, la violenza distruttiva diventa una scorciatoia per tagliare il nodo di una complessità difficile da sciogliere , il modo migliore per realizzare se stessi e trovare riconoscimento e popolarità sui social. Ragazzi che a scuola non ricevono né sostegno né strategie educative adeguati a far maturare in sé l’autostima. Anzi, sono proprio le difficoltà scolastiche a spingerli all’abbandono per cercare – e trovare – in gruppi giovanili devianti quel forte riconoscimento sociale che sviluppa in loro un elevato livello di autostima.
Inadeguatezza del sistema scolastico, ma anche mancanza di luoghi di “sana” aggregazione?
È così. Nei loro contesti di vita questi ragazzi non intercettano percorsi educativi che li aiutino a scoprire sé stessi, la propria unicità e potenzialità. Nessuno fa loro capire che la propria realizzazione non passa attraverso il numero di like o follower, ma segue un percorso di autorealizzazione e crescita umana che mette in gioco la loro interiorità e la loro anima più profonda. Purtroppo non incrociano percorsi educativi di questo tipo perché mancano luoghi di aggregazione costruttiva e positiva come quelli legati all’associazionismo o agli oratori di un tempo, che ora raggiungono solo una minoranza di ragazzi.
Giovani impuniti che provocano e sfidano apertamente anche le Forze dell’ordine…
Si sentono intoccabili perché non hanno interiorizzato il patrimonio di regole morali, norme sociali e valori fondanti il vivere civile. Inoltre, in una società caratterizzata dal “pluralismo” etico come la nostra, nella quale non esiste un sistema di valori e modelli di comportamento dominanti ma una molteplicità di paradigmi equivalenti, anche un sistema di disvalori trasgressivi può pretendere pari dignità. È in crisi da molti anni anche il processo di interiorizzazione della figura paterna, quel padre portatore del canone culturale e dei modelli di vita nel quale un tempo i figli si identificavano interiorizzandone i valori.
“Scomparsa” del padre ma, più in generale, anche adulti sbiaditi e incapaci di educare?
Sì. Molti adulti oggi sono eterni adolescenti, con un ethos infantilistico che ne fa dei consumatori eccellenti. La nostra società economicistica ha tutto l’interesse a mantenere nell’adulto i tratti del desiderio infantile che lo rende il consumatore ideale, cosa che un adulto maturo e responsabile non è. Adulti tardivamente infantili e bambini precocemente “adultizzati”. Che relazione educativa può nascere in questo scenario?
I giovani trapper non sperimentano nemmeno la colpa…
La percezione della colpa è stata spazzata via dalla psicanalisi e sostituita dal senso di colpa che è essenzialmente il timore per le conseguenze di ciò che si è compiuto. Una volta scampate le conseguenze non rimane nulla; invece la propria colpa è un dato oggettivo con il quale occorre entrare in contatto e che comporta un debito con cui fare i conti. Oggi questo elemento non è più presente e chi commette un reato non ammette la colpa ma cerca attenuanti e scusanti; tuttavia questa fuga dalle proprie responsabilità non aiuta a maturare. Ma l’aspetto più grave è che per realizzare qualsiasi desiderio si è spesso disposti a tutto; il desiderio personale assurge a diritto assoluto.
Che cosa fanno la società e la politica per i giovani?
Da troppi anni mancano serie politiche giovanili. Già nel 1994 in una nostra ricerca sul disagio giovanile parlavo di gioventù negata mettendo in evidenza come, dopo la contestazione del ‘68 e i primi anni 70, i giovani erano diventati socialmente invisibili, non più protagonisti ma soggetti da accudire e tenere in un parcheggio ritardandone il più possibile l’assunzione di ruoli nella vita pubblica. Al massimo ci si limitava ad intervenire sui casi più eclatanti di devianza. Da questo punto di vista i giovani sono stati socialmente marginalizzati e soprattutto si è rotta la loro unità generazionale, il loro sentirsi gruppo, a scapito di un individualismo frammentato. Ancora oggi si continua a tenerli in panchina mentre i confini dell’età giovanile si spostano sempre più in là.
Come si può intervenire?
La via è una sola: potenziare enormemente il sistema educativo e l’investimento sui giovani, considerandoli non più problema ma risorsa. Occorre farli sentire portatori di potenzialità preziose per la loro vita ma anche per la società che abitano.
Da dove partire?
Da una scuola che non si limiti solo ad istruire ma che riscopra l’educativo; da realtà locali che investano in politiche giovanili creando centri di aggregazione e potenziando il lavoro educativo di strada, il sostegno scolastico, iniziative sportive e culturali. La scarsa generatività non riguarda solo le culle vuote, ma riguarda anche la capacità di generare vita, ossia aiutare i giovani a scoprire il valore e il senso della propria vita, il motivo per il quale impegnarsi. Questo richiede un grande investimento educativo su più livelli: scuola, enti locali, associazionismo, che preveda inoltre forme di sostegno e affiancamento delle famiglie disfunzionali per aiutarle a sviluppare la propria capacità educativa. Sembra un costo; in realtà è un investimento sul futuro perché la nostra società ha un futuro solo se esistono nuove generazioni in grado di costruirlo.