Dibattito sulla crisi della fede (Bianchi-Vino Nuovo)

 


Fr. Enzo Bianchi continua a scrivere, fra l'altro su La Repubblica. Qui il 23 maggio ha parlato della crisi della fede cattolica evidenziata dalla post-pandemia (ovvero dalle Chiese rimaste semi-vuote). Riprende le sue riflessioni e le approfondisce Gabriele Cossovich e Sergio Di Benedetto sul blog collettivo Il vino nuovo:

Risposta a Enzo Bianchi, sulla crisi della fede

Di fronte a temi come la risurrezione e la vita oltre la morte la questione oggi non è credere o non credere, ma una domanda ancor più radicale: fosse anche vero, cosa me ne faccio?

di GABRIELE COSSOVICH
30 maggio 2022
http://www.vinonuovo.it

L’articolo di Enzo Bianchi apparso lo scorso 23 maggio su Repubblica ha il pregio di mettere in luce in poche righe gli elementi realmente in gioco nella crisi che il cristianesimo e la Chiesa in Italia stanno vivendo.

Di fronte allo smarrimento prodotto dalle chiese vuote, che caratterizzano la (non) ripresa della vita comunitaria ecclesiale dopo lo stop impostato dalla pandemia, fratel Enzo ha il coraggio di riconoscere che le argomentazioni con le quali veniva normalmente spiegato il calo della partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa, da sole non reggono più: “secolarizzazione, mutamento di vita nella società del benessere, consumismo, relativismo morale” non sono sufficienti a spiegare un’accelerazione così dirompente nell’abbandono della pratica religiosa, soprattutto nella fascia giovanile e adulta. C’è in atto qualcosa di più serio e profondo, che lui identifica in una crisi di fede dentro la Chiesa, in particolare riguardo la risurrezione e la vita oltre la morte: “Se non si crede che Gesù Cristo è vivente, è risorto da morte e ha vinto la morte, che ragione c’è a professarsi cristiani? Se non si crede che la morte è solo un esodo, che ci saranno un giudizio sull’operato umano e una vita oltre la morte, perché si dovrebbe diventare cristiani e perseverare in questa appartenenza?” scrive.

Personalmente condivido l’intuizione di Enzo Bianchi, ma credo vada approfondita. La mancanza di fede che denuncia, credo nasconda una questione più radicale, che riguarda la capacità del cristianesimo di presentarsi come opzione credibile e significativa per l’umanità di oggi, dentro e fuori la Chiesa. Il tema vero non è la mancanza di fede nella risurrezione e nella vita oltre la morte ma che dimensioni proprie della fede, quali risurrezione e vita oltre la morte, non siano più percepite da parte delle donne e degli uomini di oggi come rilevanti nel contribuire a dare significato alla vita. Di fronte ad esse la questione oggi non è credere o non credere, ma una domanda ancor più radicale: fosse anche vero, cosa me ne faccio?

Il tema serio che, a mio avviso, la Chiesa non si è ancora davvero posta è la constatazione di come il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo porti con sé un mutamento dei luoghi esistenziali in cui uomini e donne cercano e trovano il senso per la propria vita. La domanda di senso non è sopita – come teme Enzo Bianchi – ma si esprime e si indirizza altrove rispetto a prima, facendo sì che le risposte di un tempo risultino non più pertinenti. Da questo punto di vista la proposta di fede cristiana, ad esempio per quel che concerne il tema della risurrezione e della vita oltre la morte, viene percepita, nelle fasce giovanili e adulte, come risposta a una domanda che non c’è, come offerta di uno strumento utile a qualcosa che nel contesto della vita occupa oggi una posizione irrilevante. Sta qui la radice dell’evidente sterilità di tanti sforzi pur generosamente profusi – riconosciuta lucidamente da Enzo Bianchi – e della riduzione del cristianesimo a etica e spiritualità senza passare per la fede, percepita come superflua.

Il punto critico però non sta nella proposta cristiana in quanto tale: la fede ci consegna la certezza di un Dio che non smette mai di rivolgere alle donne e agli uomini di ogni tempo la sua Parola che feconda e vivifica. Se ciò che come Chiesa proponiamo risulta sterile e incomprensibile, significa che siamo noi cristiani a non riuscire a cogliere quale Parola Dio stia rivolgendo all’umanità di oggi. Da questo punto di vista serve un cambiamento di prospettiva. Siamo abituati a pensare che essere cristiani significhi credere e condividere qualcosa di fisso e sempre uguale nel tempo. Se questo è vero per i contenuti fondamentali della fede, non lo è per ciò che riguarda l’apporto specifico – la particolare Parola – che la fede offre agli uomini e alle donne in epoche diverse. Lo stesso messaggio in contesti diversi svela ed assume specificità e significati diversi. La domanda è: quali specificità e significati nuovi svela ed assume il Vangelo di Gesù nel contesto dell’umanità di oggi? Per l’umanità di oggi?

Per rispondere è necessario intraprendere una riflessione che vada a cogliere in profondità le direzioni verso le quali si orienta la domanda di senso delle donne e degli uomini oggi; riflessione che, evidentemente, non può essere condotta in modo teorico, ma attraverso l’immersione nel mondo e nei vissuti delle persone (come non smette di chiedere Papa Francesco). Quale Parola invocano questi vissuti? Quali orizzonti nuovi? Quali speranze? E cosa della fede cristiana è capace di intersecarsi, di intercettare tutto questo?

L’ultimo passaggio di questo percorso sarà il più impegnativo: servirà riformulare senza ambiguità la proposta cristiana mettendo al centro la Parola che Dio rivolge all’umanità oggi; rivedere le prassi, tenendo conto della realtà concrete della vita, al di là di ogni pur bellissima idea non più praticabile; reinventare tutto quello che, a partire dalla liturgia, appare distante e incomprensibile.

La crisi di fede e la fatica a vivere nel nostro tempo

Se mostriamo un’umanità mutilata e non radicata nell’oggi del XXI secolo, la crisi di fede è solo una conseguenza

L’intervento di Enzo Bianchi sull’attuale crisi di fede ha sollevato una serie di questioni, dando vita a un dibattito vivace e salutare, a cui ha risposto per primo Gabriele Cossovich. I temi sono veramente tanti e profondi, decisivi almeno nell’interrogarsi sulla nostra fede, quasi echeggiando una domanda assai dura di Gesù: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». È una domanda – posta a seguito della parabola della vedova insistente – che dovremmo prendere sul serio, in tutta la sua lucida e aperta possibilità, perché non presuppone una risposta accomodante: esiste, infatti, l’ipotesi che la fede diminuisca fino a esaurirsi nel tempo, perché è una delle eventualità della libertà umana.

Ma nel 2022, questa crisi di fede di cui parlava Enzo Bianchi sembra essere emersa con tutta evidenza nel post-covid, portando a maturazione fenomeni che tuttavia, come sappiamo, già erano palesi da anni e su cui, onestamente, molto si è detto, in parte anche fatto. Ma con risultati scarsi.
Credo che, però, uno sia il punto decisivo che in parte spiega e in parte genera la crisi di fede che attraversa l’uomo occidentale, il perno su cui ruota quasi tutto del nostro travaglio, e riguarda la grande fatica che oggi il cristiano contemporaneo attraversa nell’abitare l’hic et nunc, nel vivere il qui e ora un’esistenza formata e ispirata dalla parola e dalla vita di Gesù di Nazareth, vero uomo e vero Dio.

Se abbiamo la lealtà di osservare la vita delle nostre comunità, vediamo che sotto il molto arrabattarsi, sotto il denunciare l’assenza dei giovani, la crisi delle famiglie, l’eclisse della partecipazione sacramentale e liturgica, il tracollo delle vocazioni consacrate, il tramonto della cultura cattolica, la confusione etica e sociale, c’è lo smarrimento di quanti non riescono a declinare in modo positivo, eloquente ed equilibrato la fiducia in Gesù nel momento che viviamo; c’è la paura di chi intuisce che tutte le categorie sono venute meno (a partire da quella di ‘Dio’ o da quella di ‘fede’, ad esempio); c’è l’impossibilità ad ammettere che forse l’uomo occidentale non ha più nemmeno le domande di senso; c’è la superficialità nel continuare a usare il ‘Dio tappabuchi’, ponendolo così ai margini o nelle situazioni estreme del dolore e della morte, impedendo (Bonhoeffer docet) che Egli sia al centro della vita, anche nel valore performativo che la fede può assumere, lontano però dai perfezionismi, dai moralismi stantii. E ancora, c’è il terrore di dire che strutture e devozioni, riti e attività ormai non dicono niente della fede, ma solo alla religione di pochi, e così facendo dimostrano che essa è superflua.

Di fronte a ciò, se non si cade nell’indifferenza, si inciampa nel già noto, continuamente riproponendo ricette vecchie e rassicuranti, ripetendo parole d’ordine, iniziative, perfino griglie ermeneutiche di metà Novecento, in un’eterna dialettica che non coglie, non capisce, non approfondisce il momento presente e genera smarrimento, in uno sforzo destinato alla frustrazione.
Da qui, da tale fatica a stare nell’oggi, nelle sue mille frantumazioni e nelle sue molte contraddizioni, amplificate dalla rete, dai dibattiti vacui, dagli attivismi sfiancanti (pensiamo alla condizione di burn out di molti sacerdoti), dai clericalismi e dai narcisismi compiaciuti e competitivi– che ci fanno credere, ad esempio, che per stare online basti postare qualche foto, qualche messaggio, per dire che ‘ci siamo anche noi’ – deriva la comunicazione (in senso lato) meno evangelica che esista, ovvero quella che annuncia che il Vangelo non è una via pienamente umana, che qualcosa di autenticamente umano va tralasciato per essere veri discepoli del Cristo. È in questa mutilazione dell’umano, nel tempo in cui si compiono e si accampano, anche in modo discutibile, le sue molteplici possibilità e persino i suoi superamenti (post-humanism), che accade l’attuale crisi di fede che è, anche, crisi antropologica e quindi comunitaria ed ecclesiale.

Solo da questa base, dal volere davvero e pienamente essere figli del nostro tempo, senza semplificazioni né irenismi, dall’ascolto intelligente dell’umanità del XXI secolo, nell’umiltà di chi sa che può arrivare il bene anche da ‘fuori’ perché «lo Spirito soffia dove vuole» (Gv 3,8), potremo poi maturare una direzione esistenziale fondamentale che può comprendere la fede in Gesù morto e risorto. Solo da questa convinzione pienamente umana divenuta vita potremo avere il coraggio di tagliare ciò che crediamo eterno e invece è storicamente generato (quanta ignoranza diffusa tra i fedeli che non conoscono le categorie della storia e della storia della Chiesa), abbandonare anacronismi concettuali, per tenere e custodire il cuore kerigmatico del cristianesimo. Altrimenti il parlare di fede sarà solo un convincerci che essa risponde a mai chiariti bisogni e desideri umani, a cui solo Dio potrebbe dare soddisfazione (un platonismo verniciato di cristianesimo strumentale e destinato al fallimento, perché se poi qualcosa d’altro soddisfa più facilmente il desiderio, Dio diventa inutile).

Dobbiamo forse sentire come impellente un’altra domanda di Gesù: «come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» e maturare coraggio, fiducia e profezia, altra grande assente in troppi nostri discorsi. In quest’ottica, anche il tramonto della fede può essere in realtà il tramonto di una forma storica di fede, e quindi può configurarsi come un’azione dello Spirito, altrimenti saremo i primi a negare che lo Spirito è presente e operante nella storia per guidarci oltre il tempo.
Se guardiamo ai secoli che ci hanno preceduti, troveremo che tutte le comunità fondate dall’apostolo Paolo sono di fatto sparite. Eppure la fede in Cristo non è morta. Forse tramonterà la fede nell’Occidente che si è avvicinato ad altre forme di culto (il consumismo, ad esempio); forse sorgerà, sulle lacrime e le fatiche e gli smarrimenti di molti, una nuova forma storica di fede. Certo, è doloroso perdere la nostra forma storica, a cui siamo grati e di cui riconosciamo pregi e difetti; è un atto di spoliazione, di vera croce. Ma è la dinamica kenotica, la quale è essenziale alla fede cristiana.
Forse, oggi, dobbiamo vivere il venerdì santo della fede, sperimentare il silenzio del sabato santo – lungo quanto Dio vorrà –, curare la pazienza verso Dio (Hàlik), speculare a quella di Dio verso di noi, per poi vivere ripartenze di fede cristiana.

Forse, servirà un onesto bilancio dei decenni che ci hanno preceduti, anch’esso parte di un movimento kenotico che domanda umiliazione e affidamento. «A cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?» (Paolo VI): è questa una domanda che dovrebbe essere preliminare a ogni ragionamento sulla fede, perché troppe volte non siamo stati capiti.
Forse dovremo cessare il sensazionalismo, i messaggi apologetici, le pennellate di buoni sentimenti che non reggono all’urgenza della realtà e non dicono più la fede – ammesso che l’abbiano mai detta. E solo allora, forse, potremo imbatterci – magari non noi, magari tra molto tempo – nella realizzazione della profezia di Simone Weil: «Il Cristo vuole che gli si preferisca la verità, perché prima di essere il Cristo è la verità. Se ci si distoglie da lui per volgersi alla verità, non si percorrerà molta strada senza cadere tra le sue braccia».
E là, nella verità, troveremo, troveranno, il Cristo.

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