Perdonare non è dimenticare
Guy Gilbert in “Avvenire”
del 17 novembre 2015
Perdonare non è
'dimenticare'. Non si tira un segno di penna sopra, non si 'gira pagina', non
si 'lascia perdere', non si 'aggiustano' le cose: non si dimentica! Quando una
corda è rotta, si può fare un nodo, ma resterà sempre quel nodo nel punto in
cui la corda è stata riparata. Occorre lasciare spazio alle proprie ferite, per
curarle con il perdono. Bisogna scovare l’aggressione nascosta dentro di noi
per trasformarla. Bisogna mettere la sofferenza all’esterno di sé fino al
giorno in cui non si soffrirà più. Cristo è risorto, ma conservando il segno
dei chiodi nelle sue mani. Perdonare non è dimenticare. Bisogna perdonare chi,
che cosa? Un graffio? Ci possiamo passar sopra. Ma una ferita profonda penetra
nel subconscio.
Ci sono offese che è
umanamente impossibile perdonare. Il papà e la mamma che vedono la loro figlia
morta, dopo essere stata violentata e ferita crudelmente, non dimenticheranno
mai lo spettacolo di quel corpo. Si dice che bisogna dimenticare, ma Dio ha
creato la memoria. E nel Vangelo ci dà la capacità di perdonare, che talvolta
rientra nella sfera del miracoloso. Ma non potrete mai dimenticare
completamente l’offesa che vi è stata inflitta. Però, ogni volta che
ripenserete alla colpa dell’altro, la vostra memoria vi ricorderà anche che gli
avete perdonato. La psicologia del profondo e la psicanalisi ci ricordano che
le ferite dimenticate lasciano tracce fisiche, psichiche, spirituali,
comportamentali. Voler soffocare la memoria può causare grossi danni
psicologici, perché un giorno il ricordo uscirà di nuovo.
Il filosofo Paul
Ricoeur diceva che la condizione del perdono è la «vera memoria» liberata
dall’ossessione. «Dimenticare? Impossibile. Bisogna ricordarsi di tutto per
poter perdonare», diceva Jorge Semprún. Bisogna che la memoria sia molto forte,
molto precisa, se si vuole perdonare davvero. Solo Dio può perdonare
infinitamente. Il Signore getta i nostri errori in fondo al mare.
È nota la storia di
Maïti Girtanner, una donna svizzera che, a quarant’anni dalla fine della
Seconda guerra mondiale, ha ritrovato il suo aguzzino, un medico delle Ss che
aveva condotto su di lei degli 'esperimenti'. Maïti, una giovane promessa della
musica, era entrata nella Resistenza all’età di diciotto anni, dopo che i
tedeschi avevano occupato la Francia. Nel 1943 fu arrestata dalla Gestapo. Le
sevizie inflittele dal suo aguzzino le provocarono sofferenze insopportabili
per tutta la vita, che le preclusero per sempre il sogno di riprendere a
suonare il piano, la sua passione. Quell’ex medico nazista volle incontrarla
quando seppe di essere stato colpito da un male incurabile. Anche se l’operato
di Maïti Girtanner come partigiana è già di per sé testimonianza di una fede
formidabile nell’umano, è il suo perdono che entrerà nella Storia.
Nei terribili anni di solitudine
che trascorse dopo la guerra, Maïti ebbe un desiderio folle di perdonare il suo
torturatore per non ritrovarsi distrutta, questa volta nell’anima. Pregò per
lui per quarant’anni. Fino a quel giorno del 1984 in cui ricevette una
telefonata. Riconobbe la voce. Accettò di vederlo. Gli parlò dell’Amore di Dio.
«Nel momento di congedarsi – racconta Maïti Girtanner nel suo libro Même
les bourreaux ont une âme – era in piedi, alla testa del mio letto, e
un gesto irrefrenabile mi ha sollevato dai miei guanciali, benché mi facesse
molto male: l’ho abbracciato per deporlo nel cuore di Dio. Lui mi ha detto, a
voce molto bassa: 'Perdono'. Era il bacio della pace che era venuto a cercare.
Da quel momento ho compreso che avevo perdonato».