Il Regno di Carrère, ateo affascinato dal cristianesimo. Una mia scheda del libro

Negli ultimi anni si sono moltiplicate le pubblicazioni da parte di noti intellettuali agnostici o atei su tematiche religiose. Ho appena concluso la lettura de Il regno(Adelphi, 2015) del francese Emmanuel Carrère: una monumentale (428 pagine) e originale ricerca sul cristianesimo delle origini, a partire dal Vangelo secondo Luca. Ma è anche una ricerca sulla sua fase cristiana (è stato, è lui a raccontarlo, per circa tre anni un cristiano convertito e fervente). Ora si trova a dialogare:
“E’ curioso che persone normali, intelligenti, possano credere a una cosa tanto pazzesca come la religione cristiana, una cosa in tutto e per tutto identica alla mitologia greca e alle favole. Nei tempi andati, lo si può anche capire: la gente era ingenua e non esisteva la scienza. Ma oggi! Se oggi uno credesse a storie di dèi che diventano cigni per  sedurre una donna mortale, o di principesse che baciano rospi e con il loro bacio li trasformano in principi azzurri, tutti direbbero: quello è matto. Fatto sta che un sacco di persone credono a una storia altrettanto assurda senza per questo essere considerate matte. Vengono prese sul serio, anche da chi non ne condivide la fede. Hanno un ruolo sociale, meno importante di un tempo, ma rispettato, e nel complesso abbastanza positivo. La loro fisima convive con attività assolutamente ragionevoli. Le più alte cariche dello Stato rendono visita al loro capo assumendo un contegno deferente. E’ per lo meno strano, no?” (p.15-16) 

Tale perplessità è espressa da un amico di Carrère, condivisa dall’autore e ribadita molti anni prima da Nietzsche che scrive:
“Quando in un mattino di domenica sentiamo rimbombare le vecchie campane, ci chiediamo: ma è mai possibile! Ciò si fa per un un ebreo crocifisso duemila anni fa che diceva di essere il figlio di Dio. La prova di una tale asserzione manca. Sicuramente nei nostri tempi la religione cristiana è un'antichità emergente da epoche remotissime, e che si creda a quell'asserzione – mentre per il resto si è così rigorosi nell'esaminare ogni pretesa – è forse il frammento più antico di quest'eredità. (I, 113; 2011)“
Ma l’autore vuole apparire equilibrato, fondamentalmente rispettoso, scettico, ma capace di fare una ricerca storica senza essere fuorviato da eccessivi pregiudizi. Così, ad esempio, scrive raccontando di uno dei tanti tentativi di desacralizzazione operato da un giornalista che da 
“per scontato  di essere infinitamente più libero e intelligente di quegli sfigati di preti e dei loro fedeli. Già all’epoca mi era parsa una trovata demenziale e scorretta[1] - tanto più demenziale e scorretta perché, se qualcuno avesse osato fare lo stesso in una sinagoga o in una moschea, da tutti gli schieramenti politici si sarebbe levato un coro di proteste indignate: a quanto pare soltanto i cristiani si possono prendere in giro impunemente, contando sulla divertita complicità dei lettori” (p.20).
Siamo al Prologo (Parigi, 2011). Con il primo capitolo (Una crisi. Parigi, 1990-19993) inizia a raccontare la sua conversione al cattolicesimo:
“In poche parole: nell’autunno del 1990 sono stato “toccato dalla grazia” – dire che oggi provo imbarazzo a esprimermi così è un eufemismo, ma è così che mi esprimevo all’epoca. Il fervore prodotto da questa “conversione” – avrei voglia di mettere virgolette dovunque – è durato quasi tre anni, nel corso dei quali mi sono sposato in chiesa, ho fatto battezzare i miei due figli, sono andato a messa regolarmente – e per “regolarmente” non intendo una volta alla settimana, ma ogni giorno. Mi confessavo e mi comunicavo. Pregavo, ed esortavo i miei figli a farlo con me – cosa sulla quale, ora che sono grandi, non mi risparmiano battute sarcastiche.
Durante quegli anni ho commentato ogni giorno qualche versetto del Vangelo secondo Giovanni. Questi commenti riempiono una ventina di quaderni, che da allora non ho mai più aperto. Non ho un bellissimo ricordo di quel periodo, e ho cercato in tutti i modi di dimenticarlo. Miracolo dell’inconscio: ci sono riuscito così bene he ho potuto mettermi a scrivere sulle origini del cristianesimo senza fare il collegamento. Senza ricordarmi che, a quella storia che oggi m’interessa tanto, c’è strato un momento della mia vita in cui ci ho creduto”. (p.21)
Un ruolo importante della sua conversione lo affida a Jacqueline, la sua madrina che ha conosciuto da piccolo: una vedova poetessa, autrice di inni liturgici, amica di famiglia. 
“Lei ti parlava della tua anima (…). Di fronte a lei, cadeva ogni maschera. Con lei si poteva parlare solo a cuore aperto. Si sapeva che da quel salotto non sarebbe uscita una parola. Lei ti guardava, ti ascltava. Tu ti sentivi guardato, ascoltato, come mai prima, e poi lei ti parlava di te come nessun altro, mai, te ne aveva parlato” (p.35)
Sarà lei ad avviarlo alla lettura della Bibbia, a fargli conoscere quello che sarà l’amico della vita, Hervè, scrittore buddhista. Lei lo aiuta ad affrontare la crisi di un matrimonio difficile e di un momento creativamente sterile. Con Hervè si ritrova in montagna ad ascoltare un missionario belga, anche lui in vacanza, padre Xavier. Un brano del Vangelo di Giovanni lo folgora e gli fa cadere ogni difesa. Scrive l’autore, a poca distanza dall’evento:
“…le parole del Vangelo sono diventate improvvisamente vere per me. Ora so dove sono la Verità e la Vita. Sono quasi 33 anni che faccio affidamento solo su me stesso, e non ho mai smesso di avere paura, mentre oggi scopro che si può vivere senza paura – non senza sofferenze, ma senza paura – e sono ancora scombussolato da questa buona notizia” (p.44).
Su suggerimento di quel sacerdote inizia a leggere e commentare un brano del Vangelo di Giovanni ogni giorno. La sua madrina l’avvisa dei pericoli che sono in agguato nel futuro: “Ti sentirai smarrito, solo nel buio” (p.48).
Proseguono le sue sedute psicoanalitiche, inizia un burrascoso rapporto con una babysitter squinternata che lo pone di fronte ai “sensi di colpa cattolici”, si prepara a ricevere con fervore i sacramenti, vive le prime crisi a causa delle riflessioni sul dolore innocente. Cita molti autori[2], sono ricorrenti i dubbi, le incertezze che cerca di vincere anche facendo degli esercizi spirituali, inizia a scrivere una biografia di Philip K. Dick.
La crisi diventa profonda. Nel 1993 scrive:
“Vuol dire questo perdere la fede? Non avere neanche più voglia di pregare per conservarla? Non vedere nel distacco che aumenta giorno dopo giorno una prova da superare , ma al contrario un processo normale? La fine di un’illusione?
Secondo i mistici, è questo il momento in cui bisognerebbe pregare. E’ nella notte che bisognerebbe ricordarsi di aver intravisto la luce. Ma è proprio in questo momento che i mistici con i loro consigli sembrano manipolarti, e il coraggio sembra stare nel rifiutarsi di seguirli per affrontare la realtà (…).
Ti abbandono, Signore. Tu non abbandonarmi”. (p.100)
Il commento è lucido, disincantato, ma anche problematico:
“Sono diventato quello che avevo così tanta paura di diventare.
Uno scettico. Un agnostico – nemmeno abbastanza credente da essere ateo. Un uomo che pensa che il contrario della verità non sia la menzogna ma la certezza. E il peggio, dal punto di vista di colui che ero, è che mi ci trovo piuttosto bene” (p. 105).

Con il secondo capitolo (Paolo, Grecia, 50-58) inizia il suo lavoro di ricerca sulle origini del cristianesimo: segno che quel capitolo della sua vita non era definitivamente chiuso, ma richiedeva ulteriori riflessioni. Questa “investigazione” non vuole affrontare direttamente Gesù (“perché Gesù è una figura che, se non illumina, acceca”, p.105), ma parte da Paolo “che, nel bene e nel male, ha plasmato forse più ancora di Gesù venti secoli di storia occidentale” (p.107) e da Luca, l’autore che con gli Atti degli Apostoli, ci racconta gli eventi che vanno dall’ascensione di Gesù alla presenza a Roma di Paolo e Pietro.
Di Luca sappiamo che era un macedone, un medico istruito, di lingua e cultura greca, “attratto dalla religione ebraica” (un goyim, straniero, “proselita”). Aveva a disposizione la Bibbia tradotta dai 70 e aveva conosciuto Paolo, forse da lui spinto a raggiungere la sua Macedonia. Improvvisamente Luca passa, per due volte, da “essi” a “noi”: indica la sua entrata in scena nei viaggi missionari di Paolo, il suo essere testimone oculare di questi eventi.
L’autore descrive gli scontri con la Chiesa madre di Gerusalemme che giudicherebbe Paolo come un eretico che ha rinnegato l’ebraismo per un culto che non parla del Gesù storico, ma solo del Cristo della fede. Una sua religione in opposizione con quella praticata e predicata dai veri Apostoli. Sarà andata così? Per Carrère è molto probabile e un romanziere è sempre libero di inventare quando la storia è confusa o piena di lacune. Per dirimere la questione, nasce il Concilio di Gerusalemme, dove, secondo l’autore, ci sarebbe stato uno scontro violento tra i due fronti. Di fronte a Paolo si ergerebbe la figura di Giacomo, uno dei primi discepoli, fratello di Gesù e capo della Chiesa nascente di Gerusalemme, una Chiesa “rigorosamente ebraica”. Da questa Chiesa sarebbero stati sguinzagliati dei predicatori volti a controllare Paolo e a minarne la sua credibilità, descrivendolo come un impostore. Paolo, cercando un compromesso (perché una divisione avrebbe diminuito la forza della sua predicazione), inizia a organizzare una colletta per aiutare la Chiesa di Gerusalemme. In questa spedizione ci sarebbe anche Luca (come delegato della Chiesa di Filippi), e per la prima volta avrebbe così potuto conoscere i luoghi dove ha vissuto Gesù e le persone che lo hanno conosciuto. Tra questi, secondo l’autore, un ruolo di primo piano lo avrebbe avuto Filippo, apostolo di cultura greca, più aperto degli altri nell’accogliere la delegazione di Paolo.

Inizia così la terza parte, intitolata ”L’inchiesta” e ambientata nella Giudea del 58-60. Si descrive l’arrivo di Paolo a Gerusalemme, le scoperte di Luca del mondo di Gesù, la sua Gerusalemme che verrà presto distrutta come racconta Giuseppe Flavio in Guerra giudaica (testo ampiamente descritto). Paolo viene arrestato (per colpa della comunità cristiana?) e chiede di essere giudicato a Roma in quanto cittadino romano. Filippo torna in scena come possibile compagno di viaggio di Cleopa verso Emmaus, dove incontrano il Risorto. Già, la Resurrezione!
“No – scrive l’autore -, non credo che Gesù sia risorto. Non credo che un uomo sia tornato dal mondo dei morti. Ma il fatto che lo si possa credere, che io stesso l’abbia creduto, mi intriga, mi affascina, mi turba, mi sconvolge – non so quale sia il verbo più adatto. Scrivo questo libro per non pensare, ora che non ci credo più, di saperne più di quelli che ci credono e di me stesso quando ci credevo. Scrivo questo libro per cercare di non essere troppo d’accordo con me stesso” (p.244).
Ma di chi è la colpa della morte di Gesù? Degli ebrei o dei romani? Maccoby ritiene che la colpa sia solo dei romani. Che i farisei siano in realtà i sadducei. Che alle Chiese paoline faceva comodo risultare benevole nei confronti dei romani e prendersela con gli ebrei (in un tempo in cui la ribellione giudaica li rende invisi in tutto l’Impero). Per Maccoby Paolo in realtà non era neanche ebreo, ma solo un proselito. Desideroso di emergere, trovò più agevole passare dalla parte dei sadducei e dunque dei filoromani. Da parte dei romani ottiene l’incarico di imprigionare i facinorosi, ma si ritrova a creare una sua religione, diffondendo il suo Vangelo in ambienti pagani, facendo leva sui proseliti. Conclude questa disanima attaccando le tesi di Maccoby come “negazioniste”. Ma intanto il dubbio è instillato, e non solo per bocca di un fantasioso scrittore. Sostiene che circolassero voci che Paolo non sarebbe neanche ebreo (condite da numerose diffamazioni).
Entra in gioco anche l’evangelista Marco. Lo immagina come un altro ellenico (il nome completo è Giovanni Marco), secondo testimone incontrato da Luca, oltre che come segretario e interprete di Pietro. Ricorda i personaggi che solo Luca inserisce (con nome proprio) nel suo Vangelo: frutto di interviste che personalmente ha portato avanti?
Non si capisce bene il motivo per introdurre un’ampia citazione tratta da Memorie di Adriano della Yourcenar e soprattutto un inciso erotico tratto dalla sua esperienza personale (dichiara di non provare imbarazzo a parlare della sua vita sessuale, molto più della sua “anima”). La scusa è che la tradizione parla di Luca anche come di un pittore, e in particolare del pittore che ha immortalato Maria. Quale modella avrà scelto?
“Eppure è esistita davvero. La Santa Vergine non so, sinceramente non credo, ma la madre di Gesù sì. Poiché è vissuto, poiché è nato, poiché è morto, cosa che mette in dubbio soltanto qualche ateo imbecille che sbaglia bersaglio, Gesù deve per forza aver avuto una madre, e anche questa madre deve essere nata e morta” (p.273)
Si sono conosciuti Luca e Maria? Non è impossibile pensare di sì e che lei gli abbia confidato alcuni eventi che Luca ricostruirà nel suo Vangelo.
Da quali fonti ha potuto attingere Luca? Sicuramente da Marco, che è il primo Vangelo a circolare, poi da quella che viene chiamata fonte Q (Quelle, “fonte” in tedesco): una raccolta di detti di Gesù che circolavano tra i primi cristiani. E da fonti personali (incontri? Racconti? Gli esegeti parlano di Sondergut, ossia del “bene proprio”) per gli episodi che solo Luca riporta. Il Vangelo secondo Luca sarebbe così composto: “da una metà di Marco, da un quarto di Q e da un quarto di Sondergut” (p.286).
Riprende alcune parabole (dandogli un significato o una morale molto poco edificante, convincente e pertinente). Ricorda i tempi in cui ha scritto del caso Romand (un caso di cronaca nera particolarmente brutale: Romand ha passato una vita a mentire a tutti. Quando la verità rischia di venire a galla, preferisce sterminare la sua famiglia piuttosto che affrontare il disonore). Da questa storia ha tratto un romanzo, L’Avversario. Romand si è convertito.
“Con Cristo, uno può aver sterminato la famiglia, essere stato il peggiore farabutto del mondo; niente è perduto. Per quanto in basso siate caduti, lui verrà a prendervi, se no non sarebbe Cristo.
La saggezza del mondo dice: comodo così” (p.296)

IV parte: Luca (Roma, 60-90)
Riprende la storia di Paolo, ancora prigioniero (ma in modo light) nella residenza del governatore Felice che riesce finalmente a mandarlo a Roma. Qui c’è Nerone (che nei primi anni aveva fatto una buona impressione al popolo). Aveva accanto a lui Seneca e molti “amici” ebrei. La pazzia di Nerone prende presto il sopravvento. Nel frattempo arriva Paolo, prigioniero, ma abbastanza libero di affittarsi per due anni un appartamentino e ricevere visite. Gli Atti terminano con queste informazioni. E poi? Il finale è andato perduto? L’arrivo di Paolo a Roma è la vera conclusione della sua vita? Non vuole raccontare il seguito perché non fa onore ai romani?
Di questo periodo ci restano alcune “lettere della prigionia” attribuite a Paolo. Sappiamo che a Roma arriva anche Pietro, accompagnato da Marco (con cui Luca mantiene dei contatti?), che in Giudea tutto è precipitato con l’uccisione di Giacomo e dispersione di buona parte della comunità cristiana. Che sia sempre Luca l’autore della lettera di Giacomo? Scritta in sua memoria e in suo onore? Questa lettera, osteggiata da Lutero, entrò per un pelo nel Canone.
Non vi entrarono invece le apocrife lettere che Paolo e Seneca si sarebbero scambiate. E qui inizia una disanima sconcertante sul giudizio negativo che Gesù avrebbe della sessualità (cfr. p.324).
Perché nessun documento cristiano parla dell’incendio di Roma del 64? I cristiani vennero dichiarati colpevoli di “odio per il genere umano” e tra le vittime troviamo proprio Paolo e Pietro. Tutti i protagonisti scompaiono. Tutti tranne Giovanni che, secondo la tradizione, scriverà oltre al suo Vangelo anche il libro dell’Apocalisse. Di lui non viene data una immagine positiva da Luca e da Marco. Solo il suo Vangelo esalta la sua figura. 
Lo troviamo, forse, ad Efeso, con la madre di Gesù che gli è stata affidata dal figlio stesso, anziano e venerato. Luca può essersi spinto fin là per conoscerlo? 
E’ il tempo della guerra giudaica (che scoppia ne 66). Tranne i galli, nessun popolo aveva mai osato ribellarsi ai romani. Ma questi sono guidati da Nerone che muore in “tournée” in Grecia nel 68, non prima di aver affidato al generale Vespasiano (detto “il mulattiere”) di soffocare la rivolta guidata da Flavio Giuseppe che cerca un compromesso, ma, non trovandolo, riesce a fuggire dalla Gerusalemme assediata e passare dalla parte avversaria.
L’Apocalisse sarebbe stata scritta in quegli anni burrascosi. Chi sono i bersagli delle violentissime maledizioni lanciate alle sette Chiese dell’Asia? L’autore non ha dubbi: sono Paolo e i suoi discepoli. 
Luca torna a casa, a Filippi. Qui ha molto da raccontare ai suoi concittadini: lui, uomo mite e ragionevole, ha collezionato avventure e conoscenze che lo rendono importante e la gente si riunisce per ascoltarlo.
Intanto Vespasiano, come predetto da Flavio Giuseppe, diviene Imperatore per volontà dell’esercito. A Gerusalemme ci pensa il figlio Tito che rade al suolo la città ed estirpa così ogni volontà di rivolta.
“Fino al 70, un cristiano era una specie di ebreo” (p.362) e questi erano pacificamente accettati dai romani. Ora conviene distinguersi da loro, dai rivoltosi.
L’autore immagina Luca tornare a Roma nel 71, dopo quegli eventi, mentre Tito sfila per celebrare il trionfo su Gerusalemme. Tacito e Svetonio ci hanno tramandato la storia ufficiale; Giovenale e Marziale la storia della vita quotidiana. A quei tempi un intellettuale cercava la protezione di un aristocratico che gli garantisse un aiuto economico. Teofilo sarà il ricco sotto la cui ala si era rifugiato Luca? E’ per lui che scrive il Vangelo e gli Atti. E li ripulisce di molti riferimenti ebraici che rilegge in opposizione, come se Gesù fosse il principale ricusatore dell’ebraismo (unico modo, secondo l’autore, di guadagnarsi la stima di Teofilo).
E’ in quegli anni che comincia a circolare a Roma il Vangelo secondo Marco. E qui una lunga parentesi: nel 1995 il nostro autore viene coinvolto in una iniziativa editoriale volta a una nuova traduzione della Bibbia affidando ogni libro ad un tandem composto da un esegeta ed uno scrittore (meglio se non credente). A lui, in collaborazione con Cousin, viene affidato proprio il Vangelo di Marco. 
Luca comincia a scrivere (a Roma?) il suo Vangelo alla fine degli anni settanta e lo fa più da romanziere che da storico in senso moderno. Da qui l’introduzione di figure come Zaccaria ed Elisabetta. Copia Marco, ma ci aggiunge parti che “drammatizza, sceneggia, romanza” (p.389).
L’epilogo ci porta da Roma (90) a Parigi (2014). Presenta la figura depravata di Domiziano e accenna al Vangelo di Matteo, frutto questo di una comunità d’Oriente, più che di un singolo. Matteo è il più ecclesiastico.
Torna ancora a Giovanni e ad Efeso dove ritroviamo Giovanni il Vecchio che viene spacciato per Giovanni l’apostolo prediletto. O, se era lo stesso, ha avuto un segretario geniale (magari anche lui si chiamava Giovanni?) che ha rielaborato con profondità, acume e poesia i ricordi dell’apostolo. E’ un Vangelo intriso di filosofia greca e al contempo il più preciso sui soggiorni di Gesù in Giudea e su altri eventi che solo lui riporta.
Non resiste l’autore ad inserire un’ultima, gratuita, demolizione della Chiesa: è una setta.
“Oggi questa Chiesa è vecchia. Ha un passato pesante. Non mancano motivo per rimproverarle di aver tradito il messaggio del rabbino Gesù di Nazareth, il messaggio più rivoluzionario di tutti i tempi” (p.417).
La conclusione è delicata, aperta. Affidata al suggerimento di una lettrice che lo invita a fare l’esperienza di “lavare i piedi degli ultimi”, come ha fatto Gesù. L’occasione che coglie è offerta da una delle comunità fondate da Jean Vanier di cui ripercorre la biografia. L’esperienza che vive si intreccia con quella vissuta da Gesù con gli apostoli e, rivela, “per un attimo ho capito che cos’è il Regno” (p.427). E conclude:
“Il libro che termino ora l’ho scritto in buonafede, ma cerca di avvicinarsi a qualcosa di tanto più grande di me da far sembrare questa buonafede ben poca cosa, lo so. L’ho scritto portandomi dietro il peso di ciò che sono: un uomo intelligente, ricco, con una posizione: altrettanti handicap per chi vuole entrare nel Regno. Comunque ci ho provato. E nel momento di lasciarlo mi chiedo se questo libro tradisca il giovane che sono stato, e il Signore in cui quel giovane ha creduto, o se invece vi sia rimasto, a suo modo, fedele. Non lo so” (p.428).

[1] Quella di fingersi un peccatore nei confessionali delle Chiese, inventando i suoi peccati.
[2] Tra cui Beatrix Beck, autrice di Léon Morin, prete

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