XI domenica del tempo ordinario (anno B)
Gesù ama parlare in parabole del "Regno di Dio" che sta crescendo in maniera quasi impercettibile, ma con un dinamismo che non dipende dagli uomini, neanche da coloro che lo hanno accolto e con esso collaborano.
In altre occasioni chiarisce che il "Regno di Dio" non è di questo mondo, o meglio non è come i Regni o i Governi di questo mondo: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». (Mc 10,42-45).
Parla di Regno per richiamare il fatto che Lui sia il Re: Re che non pretende sacrifici, ma lui stesso si offre in sacrificio, che non pretende di essere servito, ma si mette al nostro servizio...
Dio regna lì dove lo si accoglie, dove ci si sforza di fare la sua volontà (e domenica scorsa Gesù ci ricordava che chi fa la volontà di Dio è per lui fratello, sorella e madre), dove si vive - come in una famiglia "sana" - nell'amore reciproco, secondo il suo comandamento nuovo di amarci gli uni gli altri come lui ha amato noi.
Il regno di Dio, forse non è inutile ricordarlo, non è uno Stato che si affianchi a quelli esistenti, non è un'impresa o un'associazione come ce ne sono tante, di carattere economico, culturale, sociale. Il regno di Dio si trova là dove singoli uomini orientano a Dio la propria vita, e così facendo concorrono a orientare il mondo. In proposito, le due brevi parabole intendono affermare che la semina e la crescita del Regno si devono alla libera iniziativa di Dio, e solo Lui ne conosce le dinamiche; solo lui sa perché nasce e cresce più qui che là, più in un certo tempo che in altri, se presto o quando maturerà. E l'uomo deve avere pazienza; come il contadino non può affrettare la crescita di quanto ha seminato, così il cristiano può desiderare intensamente, con le migliori intenzioni, che il suo Signore sia conosciuto e accolto da tutti, ma deve umilmente sottomettersi a un progetto di salvezza di cui non è l'autore né il realizzatore. E' Dio che chiama: chi, quando e come, Lui solo sa; Dio ci invita a collaborare, ma non sappiamo come, quando e verso chi Egli valorizzerà il nostro impegno.Dio che tutto può, nulla compie senza la nostra collaborazione: dunque questa è importante, ma l'iniziativa parte da Dio. Nella sua parola c'è un dinamismo tale che, se viene accolta, essa cresce e porta frutto.
Se ne deduce, da parte di chi ha accolto in sé il Regno e si rende disponibile a promuoverlo in altri, la necessità di evitare atteggiamenti incongrui. Periodicamente si pubblicano statistiche, sul numero dei cristiani nel mondo (intendendo i battezzati), su quanti partecipano alla Messa festiva, su quanti celebrano il matrimonio religioso e così via: ma sarebbe sbagliatissimo dedurne il livello di diffusione del regno di Dio: Lui soltanto legge nelle coscienze, Lui soltanto sa. Altrettanto errati sono due opposti estremismi, in cui è facile cadere. Da un lato un certo quietismo, molto vicino al fatalismo: poiché tutto dipende da Dio, è inutile che ci diamo da fare; possiamo solo aspettare. Dall'altro lato una sorta di efficientismo, che porta a organizzare, prevedere, moltiplicare opere e programmi, come se l'attuazione del Regno dipendesse dall'impegno umano. Certo, è un dovere darsi da fare; ma guai se questo andasse a scapito di altri valori, quali la preghiera, l'umiltà, la fiducia in Colui nelle cui mani sta tutto il mondo e chi lo abita.
"Così è il regno di Dio: piccola realtà, ma che ha in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Il contadino non può fare davvero nulla: deve solo seminare il seme nella terra, ma poi sia che lui dorma sia che si alzi di notte per controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui" (E. Bianchi).
Questo messaggio è un messaggio di speranza, poiché, adottando una prospettiva umana, potremmo dubitare del trionfo del regno di Dio. Esso si scontra con tanti ostacoli. Esso è qui rifiutato, là respinto, o, in molti luoghi, sconosciuto del tutto. Noi stessi costituiamo un ostacolo alla realizzazione del regno di Dio con la nostra cattiva volontà e con i nostri peccati. È bene dunque che sappiamo che, a poco a poco con una logica che non è quella umana, con un ritmo che a noi sembra troppo lento, il regno di Dio cresce. San Paolo, che era ispirato, percepiva già i gemiti di tale crescita (Rm 8,19-22). Bisogna conservare la speranza (Eb 3,6b). Bisogna ripetere ogni giorno: “Venga il tuo regno!”. Bisogna coltivare la pazienza, quella del seminatore che non può affrettare l’ora della mietitura (Gc 5,7-8). Bisogna soprattutto non dubitare della realtà dell’azione di Dio nel mondo e nei nostri cuori. Gesù ci dice questo poiché sa che il pericolo più grande per noi è quello di perdere la pazienza, di scoraggiarci, di abbandonare la via e di fermarci. Noi non conosciamo né il giorno né l’ora del nostro ingresso nel regno o del ritorno di Cristo. La mietitura ci sembra ancora molto lontana, ma il tempo passa in fretta: la mietitura è forse per domani.