Nel dibattito sull’accoglienza dei migranti – in specie quelli recenti sulla nave Aquarius, ma in realtà sempre –
sembrano avere spazio sui media e fra gli “intellettuali” solo due fronti in totale contrapposizione, quello dei “razzisti” e quello degli “anti-razzisti”: l’uno accusa l’altro e ogni estremo dà forza all’altro.
Che così si distribuiscano i social è ancora comprensibile, anche se inaccettabile, ma
quando sono i media e gli “intellettuali” a cavalcare la contrapposizione, la modalità dei fronti contrapposti diviene irresponsabile e gravissima.
Infatti,
a qualunque amante sia dei migranti sia dei paesi ospitanti, come a qualunque vero esperto di immigrazione e integrazione, appare evidente che solo una posizione intermedia è vera: si tratta di decidere di accogliere, ma facendo bene i conti con le risorse che si hanno, soffermandosi sui progetti di integrazione che si è in grado di mettere in atto, sulle opportunità di lavoro che si è in grado di offrire.
Il governo di centro-sinistra Gentiloni aveva ben capito, ben prima che salissero al governo leghisti e grillini, che senza dedicare risorse ingenti ai progetti di integrazione successivi al salvataggio in mare e alla prima accoglienza, senza contrastare l’immigrazione irregolare, senza una politica di internazionale di sviluppo delle nazioni meno abbienti, senza stabilire un tetto annuale di migranti da accogliere, privilegiando così rifugiati e persone maggiormente bisognose, l’accoglienza sarebbe stata un
bluff.
Le vicende della tendopoli di San Ferdinando – a fianco della quale è stato ucciso Soumaila, che reperiva materiale per baracche che esistono ormai da più di 8 anni –
sta lì a testimoniare le conseguenze di una prima accoglienza non seguita da veri processi di integrazione.
Minniti e Pinotti, nel precedente governo di centro-sinistra, con il pieno appoggio del premier Gentiloni e del segretario Renzi,
hanno perseguito una politica che è stata contemporaneamente di accoglienza e di contrasto dell’immigrazione.
Con Minniti, infatti, il numero dei passaggi in mare è stato sensibilmente diminuito con un preciso lavoro di politica internazionale e, contemporaneamente, da Pinotti sono state inviate truppe italiane in Niger per salvaguardare i migranti dalla mafia locale araba e africana, allo scopo contemporaneo di rallentarne il passaggio.
La politica di contrasto dell’immigrazione caratterizza al momento qualsiasi paese d’Europa, non solo la Polonia o l’Ungheria. Solo l’Italia, a motivo della sua cultura e della sua posizione geografica, pur essendo poverissima di progetti e di risorse investite per l’integrazione di medio e lungo periodo,
è totalmente sbilanciata a favore dell’accoglienza.
Il resto d’Europa, dalla Svezia, alla Francia, alla Spagna, alla Danimarca è, invece, totalmente sbilanciata sul blocco delle frontiere, al punto che, di fatto, qualsiasi attraversamento di esse è impossibile.
Non solo l’Europa.
Anche i paesi più ricchi del mondo arabo (dall’Arabia Saudita, al Qatar, al Kuwait, a differenza di quelli poveri come la Giordania), i paesi asiatici (dalla Birmania alla Cina), e nazioni come il Canada,
sono totalmente chiusi all’accoglienza.
L’Italia è, in questo momento,
sola.
Anche il governo Conte non potrà, ben al di là delle roboanti dichiarazioni, che accogliere, ma al contempo dovrà, come il governo precedente di centro-sinistra, mettere in atto misure di contrasto dell’immigrazione irregolare.
Tanto è vero che,
mentre all'Aquarius, con 629 migranti a bordo, è stato impedito di attraccare, contemporaneamente, lo stesso giorno, il 13 giugno 2018,
alla Diciotti, con 932 migranti a bordo, è stato consentito l'attracco nel porto di Catania,
nel silenzio ideologico dei quotidiani dell'una e dell'altra parte.
Papa Francesco ha ben compreso queste dinamiche, soprattutto a partire dal suo viaggio in Svezia nel quale le autorità svedesi hanno condiviso con lui le loro perplessità riguardo alle modalità di accoglienza fin qui attuate:
«
Non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare.
Qual è il pericolo quando un migrante non viene integrato? Si ghettizza, ossia entra in un ghetto. E una cultura che non si sviluppa in rapporto con l’altra cultura,
questo è pericoloso. Il più cattivo consigliere per i Paesi che tendono a chiudere le frontiere è la paura, e il miglior consigliere è la prudenza»
[1].
O ancora rispondendo agli studenti dell’Università Roma Tre:
«Come si devono ricevere i migranti, come si devono accogliere?
Primo, come fratelli, sorelle, umani. Sono uomini e donne come noi. Secondo, ogni paese deve vedere di quale numero è capace di accogliere. È vero, non si può accogliere se non c’è possibilità, ma tutti possono fare qualcosa. E poi non solo accogliere, ma
integrare, ricevere: imparare la lingua, cercare lavoro, una abitazione, che ci siano organizzazioni per integrare»
[2].
In questi passaggi il papa mostra, dal suo punto di vista, il duplice sguardo che deve avere una politica di accoglienza dei migranti tesa a non creare ghetti, ma a promuovere una vera integrazione, realistica e profetica.
Non si tratta quindi di citare versetti favorevoli e contrari allo straniero nella Bibbia. Sarebbe un saltare a piè pari la laicità e l’elaborazione di una politica sui migranti attualmente inesistente in Italia, come quando si brandiva il Vangelo contro il divorzio dicendo: «Gesù ha detto “L’uomo non separi ciò che Dio ha unito”, quindi “no” al divorzio», senza affrontare la dimensione giuridica e sociale del problema.
Si tratta allora di un vero lavoro di elaborazione politico e sociale e precisamente:
-
di avere proposte concrete per accrescere i posti di lavoro,
- di avere idee per
contrastare la malavita africana, arabo-islamica ed europea,
- di avere
progettualità per integrare culturalmente chi giunge in Italia,
- di avere capacità giuridica per
modificare le leggi iper-garantiste per rendere possibile l’immediata assegnazione al lavoro di chi giunge in Italia perché si senta di essere in grado e di dover contribuire al proprio sostentamento non vivendo solo di elemosina poiché questa intristisce e svilisce la propria dignità,
- di avere capacità di
elaborare un piano che stabilisca quote di migranti che siano compatibili con le reali possibilità di lavoro che il paese avrà a disposizione
- di decidere
se ha senso far attraversare il deserto e il mare o se non sia meglio costruire corridoi umanitari che permettano alle quote stabilite di migranti di essere accompagnate senza l’obbligo di raggiungere l’Italia con tragitti dominati dalle mafie africane e arabe,
- di
ritrovare forza politica internazionale per trainare un’intesa con l’Europa – al momento assolutamente reticente – perché il peso delle migrazioni non ricada interamente sull’Italia
- di
coinvolgere nel processo le nazioni arabo-islamiche, asiatiche, nord e sud-americane, ancor più reticenti delle nazioni euopee, perché anche i paesi del Nord del mondo come l’Arabia Saudita, il Qatar, il Kuwait, la Cina, ecc. divengano accoglienti e permettano una siddivisione del carico dei migranti.
- di
privilegiare il sostegno allo sviluppo dell’economia nei paesi d’origine e incoraggiare le chiese dei paesi d’Africa nel loro sforzo di non lasciar partire i giovani.
Note al testo
[1] Conferenza Stampa di Papa Francesco nel volo di ritorno dalla Svezia, il 1/11/2016, durante il volo di ritorno da Malmö.
[2] Papa Francesco nell’incontro con gli universitari di Roma Tre, 17/2/2017. Parlando nel corso della conferenza stampa nel volo di ritoprno dalla Colombia il 10/9/2018, ha detto ancora: «Io sento il dovere di gratitudine verso l’Italia e la Grecia, perché hanno aperto il cuore ai migranti. Ma
non basta aprire il cuore. Il problema dei migranti è, primo, cuore aperto, sempre. E’ anche un comandamento di Dio, di accoglierli, “perché tu sei stato schiavo, migrante in Egitto” (cfr Levitico 19,33-34): questo dice la Bibbia. Ma un governo deve gestire questo problema con la virtù propria del governante, cioè la prudenza. Cosa significa? Primo: quanti posti ho? Secondo: non solo riceverli, ma anche integrarli. Integrarli. Io ho visto esempi – qui, in Italia – di integrazione bellissimi. Quando sono andato all’Università Roma Tre, mi hanno fatto domande quattro studenti; una, l’ultima, che ha fatto la domanda, io la guardavo [e pensavo]: “Ma questa faccia la conosco…”. Era una che meno di un anno prima era venuta da Lesbo con me nell’aereo. Ha imparato la lingua, e siccome studiava biologia nella sua patria ha fatto l’equiparazione e ha continuato. Ha imparato la lingua. Questo si chiama
integrare.
In un altro volo – quando tornavamo dalla Svezia, credo – ho parlato della politica di integrazione della Svezia come un modello, ma anche la Svezia ha detto, con prudenza: “Il numero è questo; di più non posso”, perché c’è il pericolo della non-integrazione. Terzo: c’è un problema umanitario, quello che Lei diceva. L’umanità prende coscienza di questi lager, lì? Delle condizioni di cui Lei parlava, nel deserto? Ho visto delle fotografie… Ci sono gli sfruttatori… Lei parlava del governo italiano: mi dà l’impressione che stia facendo di tutto per lavori umanitari, per risolvere anche il problema che non può assumere...
Ma [riassumendo]: cuore sempre aperto, prudenza, integrazione e vicinanza umanitaria.
E c’è un’ultima cosa che voglio dire, e vale soprattutto per l’Africa. C’è, nel nostro inconscio collettivo, un motto, un principio: “L’Africa va sfruttata”. Oggi a Cartagena abbiamo visto un esempio di sfruttamento, umano, in quel caso [quello degli schiavi]. E un capo di governo, su questo, ha detto una bella verità:
“Quelli che fuggono dalla guerra, è un altro problema; ma per tanti che fuggono dalla fame, facciamo investimenti lì, perché crescano”. Ma nell’inconscio collettivo c’è che ogni volta che tanti Paesi sviluppati vanno in Africa, è per sfruttare. Dobbiamo capovolgere questo:
l’Africa è amica e va aiutata a crescere. Poi, gli altri problemi, di guerre, vanno da un’altra parte. Non so se con questo ho chiarito».
Le cronache quotidiane, le scelte del governo populista, le resistenze nelle comunità cristiane fanno emergere la questione immigrati fra le più urticanti e difficili da gestire. La difficoltà non è solo italiana, ma europea.
I vescovi francesi hanno deciso di investire un’attenzione particolare sul tema. Davanti ai rifugiati, i cattolici transalpini sono fra loro più conflittivi e polarizzati, ma anche tendenzialmente più ambivalenti e disponibili dell’insieme della popolazione francese.
Nasce da qui una ricerca promossa dal Servizio nazionale per la pastorale dei migranti, dal Secours catholique, da Terre solidaire e dal Servizio gesuita per i rifugiati, affidato a More in Common (iniziativa internazionale per contrastare le polarizzazioni sociali) e realizzato dall’istituto di ricerca Ifop: Perceptions et attitudes des catholiques de France vis-a-vis des migrants, giugno 2018. In vista di un’azione pastorale per l’accoglienza nelle comunità cristiane da avviare nell’autunno prossimo.
Polarizzati e disponibili
Polarizzati, ma ambivalenti: il dato è comune all’insieme della popolazione, ma è ancora più profilato nei cattolici. Due gruppi alle estremità (valgono il 21% e il 15%) pro e contro, mentre la maggioranza è inquieta e incerta. Un terzo dei praticanti è attraversato dall’insicurezza culturale, con la sgradevole percezione di un islam invadente e incomprimibile.
Tuttavia, la generosità dei cattolici nei confronti degli immigrati è nettamente superiore a quella della popolazione in genere e, nel suo insieme, il 61% dei fedeli rifiuta la chiusura delle frontiere e scommette (per il 71%) in una possibile integrazione grazie al lavoro. In generale, più la fede è vissuta con tranquillità nel contesto della modernità più cresce la disponibilità a giudicare e vivere il problema con moderazione e fiducia.
Vi è un diffuso pessimismo sulla situazione del paese a cui l’elezione di Macron ha solo parzialmente posto rimedio. Esso è legata a un giudizio negativo sulla globalizzazione. Il 48% ritiene che il paese debba difendersi dai suoi effetti negativi. Fra i più sofferti, viene in evidenza la domanda di identità culturale. Per il 47% essa sta scomparendo (contro un identico gruppo che afferma il contrario), e il richiamo alle radici cristiane del paese (54%, e il 69 % dei praticanti) ne è la conseguenza. In particolare per quelli che dubitano della compatibilità fra islam e valori repubblicani.
I cattolici sono tendenzialmente benevoli verso gli immigrati, convinti (per il 66%) che senza di essi molti mestieri rimarrebbero deserti. Il lavoro può fare la differenza: lo crede il 71 % dei cattolici di contro al 44% della popolazione. La loro opinione torna a combaciare con quella generale nella valutazione circa i “privilegi” di cui gli immigrati godrebbero da parte dei servizi assistenziali. Non condividono la chiusura delle frontiere, ma per il 58% ritengono che il paese non abbia le risorse per accogliere tutti, né l’obbligo di farlo.
I ripetuti appelli di papa Francesco hanno un impatto positivo. Li condividono il 61%. Se solo il 24% ritiene l’islam incompatibile con la fede e la cultura repubblicana, due su tre percepiscono la sua crescita con inquietudine. Le reti associative cattoliche e le parrocchie garantiscono una netta differenza positiva rispetto agli aiuti concreti: mentre nella popolazione si mobilità uno su tre, fra i cattolici è uno su due.
Quanto conta Francesco?
L’indagine ha visto il coinvolgimento diretto dei protagonisti più esposti sul terreno, appositi gruppi di discussione e un successivo seminario nazionale di valutazione.
L’inchiesta ha diviso l’intero spettro del cattolicesimo francese (il 53% della popolazione) in cinque diversi gruppi, da sinistra a destra: cattolici multiculturalisti (21%: giovani, di sinistra, diplomati), liberali (24%: giovani-adulti, buon livello di reddito, macroniani), cattolici culturalmente insicuri (22%: adulti-anziani, reddito medio, donne), nazionalisti secolarizzati(18%: adulti, formazione medio bassa, non praticanti), nazionalisti (15%: pensionati, di destra, nelle campagne).
Un posto particolare sul tema dell’immigrazione è quello di papa Francesco, supportato con convinzione dall’episcopato. Ha fatto dell’ospitalità e dell’accoglienza una delle cifre del suo pontificato. Non senza dissensi.
L. Dandrieu, direttore di Valeurs actuelles, parla di un «universalismo che spinge l’amore per l’altro fino al disprezzo per i propri» e un informatore noto come H. Tincq denuncia lo spostamento a destra del cattolicesimo francese nonostante il papa, una «nuova intransigenza cattolica». E tuttavia è indicativo che, fra i giovani del sondaggio, il 72% sia d’accordo con il suo invito ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare i nuovi venuti. Nonostante le reticenze e le polarizzazioni, i suoi appelli raccolgono il 61% del popolo credente. Ha soprattutto una funzione di contenimento verso i cattolici conservatori, contribuendo al loro posizionamento più moderato, spostandoli verso il polo dell’ospitalità.
«Francesco sembra aver contenuto le reticenze: in una inchiesta realizzata nel settembre 2015 per La Croix e Pelerin, il 58% dei cattolici praticanti approvavano l’appello del papa a mobilitarsi di fronte alla crisi dei migranti e ad accogliere in ciascuna parrocchia cattolica d’Europa una famiglia di migranti. Nella nostra inchiesta lo sostiene il 63%. In particolare l’evoluzione è notevole fra i non praticanti. Il 61% nella nostra inchiesta approva l’appello del papa, contro il 40% del 2015». Difficile immaginare che il magistero dei vescovi avrebbe avuto effetti così positivi, senza il diretto impegno del pontefice.
Globalizzazione e identità
Un secondo tema singolare è l’islam. Se la globalizzazione apre le domande identitarie della popolazione e dei cattolici, è indubbio che l’islam ne rappresenti una parte significativa. Due cattolici su tre ritengono che l’influenza dell’islam sia sempre più forte, ma solo il 24 % lo ritiene incompatibile con la società francese. Il 47% è convinto che in esso vi siano valori similari a quelli cristiani. «La domanda culturale, prima marginale, è ormai centrale. La risposta data dai cattolici è in parte correlata alla loro percezione dell’islam: più la seconda religione di Francia suscita l’ostilità o l’inquietudine, meno si è inclini a vedere l’immigrato come un arricchimento».
Nel dibattito pubblico l’islam è legato al tema della coesione nazionale e, in tale quadro, prende spazio la teoria della «grande sostituzione» e dello scontro di civiltà. Eventi come l’assassinio di p. Hamel rafforzano l’immagine dell’islam come una minaccia.
I gruppi cattolici si dispongono frontalmente: da un lato, multiculturalisti e liberali, dall’altro, nazionalisti, secolarizzati e incerti. Questi ultimi, che rappresentano spesso l’ago della bilancia, guardano con apprensione alla pratica rigida dell’islam. «A forza di essere troppo rigidi, si cade nell’estremismo» ha commentato un giovane del gruppo.
Una nuova narrazione
Accoglienza, integrazione e identità costituiscono tre sfide connesse, molto esposte alla polarizzazione. Se l’apertura all’accoglienza è spesso dipendente dal flusso mediatico (si è convinti di una crescita di arrivi che non è reale, si parla di «effetto Calais», un agglomerato di profughi in attesa di trasferimento in Inghilterra), il tema dell’integrazione è più complesso. «Uno spostamento si è operato in proposito nell’arco di un decennio. La sfida non è più di sapere se i nuovi arrivati arriveranno a integrarsi o no: la stragrande maggioranza è persuasa che non vi arriveranno mai». Nonostante che il 45% li ritenga privilegiati in ordine agli alloggi popolari e ai servizi pubblici (contro il 43%).
Le polarizzazioni sono avvertite con qualche sofferenza dai cattolici, in particolare dai multiculturalisti e dagli insicuri. Ma la pluralità delle visioni e delle percezioni non pare insormontabile. «L’inchiesta mostra che percezioni negative non concludono sempre con attitudini di ostilità e che il livello di impegno dei cattolici non è legato solo alle proprie attitudini. Esistono punti di convergenza in favore dell’ospitalità e delle strategie possono essere elaborate per consolidare una maggioranza (pro-accoglienza), stabile nel tempo».
Si è già accennato a rilevanti atteggiamenti in cui i cattolici divergono in positivo rispetto alla popolazione: il dono economico, finanziario e di impegno rispetto ai migranti, l’attesa della funzione integrativa del lavoro, una linea normalmente più moderata e possibilista rispetto alla maggioranza, l’affermazione di non chiudere le frontiere. Ma non sono risultati acquisiti. «Se l’accoglienza dei migranti è giustificata, se la loro integrazione è auspicata e possibile, niente garantisce il loro successo. In materia i cattolici sono da convincere: una maggioranza fra loro pensano che non ci si arriverà». Esprimono, cioè, una posizione di attesa e di auspicio.
Il lavoro da fare è quello di elaborare una narrazione in grado di resistere e di sovvertire quella prevalente nei media. Un racconto che punti sui giovani, sull’efficacia già dimostrata delle buone prassi a livello parrocchiale e di associazioni, sul sostegno agli interventi pubblici.
Ciascun gruppo ha bisogno di essere preso in considerazione: per confermare gli impegnati, per rassicurare quanti temono la fine della cultura e dei valori cattolici, per rinnovare il nesso tra fede e impegno sociale. Trasformare, cioè, l’ambivalenza paurosa in ambivalenza positiva. Come ha fatto notare una signora “insicura”: «Si può avere paura dei migranti e, nello stesso tempo, avere la forza di aiutare coloro che sono nella necessità. Non c’è affatto bisogno di rinunciare a quello che si è per essere accoglienti. Basta che ciascuno faccia degli sforzi per comprendere l’altro».