Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro (citazioni)
Dio ci dona il suo tempo
Iniziamo oggi, con la prima Domenica di Avvento, un nuovo Anno liturgico.
Questo fatto ci invita a riflettere sulla dimensione del tempo, che esercita
sempre su di noi un grande fascino.
Tutti diciamo che "ci manca il tempo", perché il ritmo della vita
quotidiana è diventato per tutti frenetico. Anche a tale riguardo la Chiesa ha
una "buona notizia" da portare: Dio ci dona il suo tempo. Noi abbiamo
sempre poco tempo; specialmente per il Signore non sappiamo o, talvolta, non
vogliamo trovarlo. Ebbene, Dio ha tempo per noi! Questa è la
prima cosa che l’inizio di un anno liturgico ci fa riscoprire con meraviglia
sempre nuova. Sì: Dio ci dona il suo tempo, perché è entrato nella storia con
la sua parola e le sue opere di salvezza, per aprirla all’eterno, per farla
diventare storia di alleanza. In questa prospettiva, il tempo è già in se
stesso un segno fondamentale dell’amore di Dio: un dono che l’uomo, come ogni
altra cosa, è in grado di valorizzare o, al contrario, di sciupare; di cogliere
nel suo significato, o di trascurare con ottusa superficialità.
Tre poi sono i grandi "cardini" del tempo, che scandiscono la
storia della salvezza: all’inizio la creazione, al centro
l’incarnazione-redenzione e al termine la "parusia", la venuta finale
che comprende anche il giudizio universale. Questi tre momenti però non sono da
intendersi semplicemente in successione cronologica. Infatti, la creazione è sì
all’origine di tutto, ma è anche continua e si attua lungo l’intero arco del
divenire cosmico, fino alla fine dei tempi. Così pure
l’incarnazione-redenzione, se è avvenuta in un determinato momento storico, il
periodo del passaggio di Gesù sulla terra, tuttavia estende il suo raggio
d’azione a tutto il tempo precedente e a tutto quello seguente. E a loro volta
l’ultima venuta e il giudizio finale, che proprio nella Croce di Cristo hanno
avuto un decisivo anticipo, esercitano il loro influsso sulla condotta degli
uomini di ogni epoca.
Il tempo liturgico dell’Avvento celebra la venuta di Dio, nei suoi due
momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di
Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto
uomo per la nostra salvezza. Ma il Signore viene continuamente nella nostra
vita. Quanto mai opportuno è quindi l’appello di Gesù, che in questa prima
Domenica ci viene riproposto con forza: "Vegliate!" (Mc 13,33.35.37).
E’ rivolto ai discepoli, ma anche "a tutti", perché ciascuno, nell’ora
che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza.
Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei
propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e
fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso.
Icona dell’Avvento è la Vergine Maria, la Madre di Gesù.
InvochiamoLa perché aiuti anche noi a diventare un prolungamento di umanità
per il Signore che viene.
Maria, vergine dell’attesa
Se andiamo alla ricerca di un motivo esemplare che possa ispirare i nostri
passi, e dare agilità alle cadenze del nostro cammino in questo periodo che ci
separa dal Natale, dobbiamo assolutamente rifarci alla Madonna. Lei è la
Vergine dell'attesa, la Vergine dell'Avvento, la Madre dell'attesa.
Lo sapete che nel Vangelo, prima ancora che ci venga detto il suo nome,
viene riferito un fremito d'attesa che ardeva nella sua anima? San Luca, prima
ancora di dirci che «il suo nome era Maria» (Lc 1, 26), ci dice un'altra cosa:
«In quel tempo l'angelo Gabriele venne mandato ad una ragazza promessa sposa ad
un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide» (Lc 1, 26-27).
«Promessa sposa», cioè fidanzata! Noi sappiamo che la parola fidanzata
viene vissuta da ogni donna come un preludio di tenerezze misteriose, di
attese. Fidanzata è colei che attende. Anche Maria ha atteso; era in attesa, in
ascolto: ma di chi? Di lui, di Giuseppe! Era in ascolto del frusciare dei suoi
sandali sulla polvere, la sera, quando lui, profumato di vernice e di resina dei
legni che trattava con le mani, andava da lei e le parlava dei suoi sogni.
Maria viene presentata come la donna che attende. Fidanzata, cioè. Solo
dopo ci viene detto il suo nome. L'attesa è la prima pennellata con cui san
Luca dipinge Maria, ma è anche l'ultima. E infatti sempre san Luca il pittore
che, negli Atti degli apostoli, dipinge l'ultimo tratto con cui Maria si
congeda dalla Scrittura. Anche qui Maria è in attesa, al piano superiore,
insieme con gli apostoli; in attesa dello Spirito (At 1, 13-14); anche qui è in
ascolto di lui, in attesa del suo frusciare: prima dei sandali di Giuseppe,
adesso dell'ala dello Spirito Santo, profumato di santità e di sogni.
Attendeva che sarebbe sceso sugli apostoli, sulla chiesa nascente per
indicarle il tracciato della sua missione.
Maria, Vergine e Madre dell'attesa
Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine
dell'attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell'attesa: si presenta
in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito. Vergine in attesa,
all'inizio. Madre in attesa, alla fine. E nell'arcata sorretta da queste due
trepidazioni, una così umana e l'altra cosi divina, cento altre attese
struggenti. L'attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L'attesa di adempimenti
legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L'attesa del
giorno, l'unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo
figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L'attesa dell'«ora»:
l'unica per la quale non avrebbe saputo frenare l'impazienza e di cui, prima
del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli
uomini. L'attesa dell'ultimo rantolo dell'unigenito inchiodato sul legno.
L'attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia.
Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare
all'infinito.
Con la lampada accesa
E noi oggi di che cosa parliamo se non di Avvento, di attesa? Voi
promettete fede al Signore e con i vostri sospiri, con i vostri sentimenti, con
le vostre attese, ricevete le tenerezze misteriose che vi riserva: vigilanti,
così come si vive il periodo del fidanzamento, con il tripudio interiore.
Un giorno le nozze dell'Agnello le celebreremo tutti quanti. Saremo tutti
invitati, tutti protagonisti. Verrà questo giorno!
Nei tempi gelidi che stiamo vivendo, nell'appannamento dei nostri
entusiasmi e nella tristezza dei nostri peccati, non possiamo sentirci mancare
il coraggio, al punto da non annunciarvi queste cose con forza, per quanto
possano sembrare lontane, utopiche. No, non sono utopie, sono invece i luoghi
dove noi realizzeremo veramente la nostra felicità, il nostro bene. Questo vi
annunciamo oggi!
Le ragazze che sono davanti a me, sono anche un po' l'icona di quello che
dovremmo essere: con l'abito bianco, con la lampada accesa, in attesa;
disponibili non soltanto a tenere la lampada accesa, ma anche a conservare una
riserva sufficiente di olio nei recipienti, al punto che quando qualcuno ci
rivolge quella preghiera così implorante e così umana che dice: «Dateci del
vostro olio, perché le nostre lampade si spengono!», noi possiamo rispondere
non come le vergini prudenti: «No, perché non basta ne a noi ne a voi» (Mt 25,
9), ma: «Sì, vogliamo correre il rischio che non basti ne a noi ne a voi».
A voi che oggi non fuggite per la tangente dell'irreale, ma fate una scelta
di concretezza, vorrei dire: «Amate il mondo e siate disponibili a dare l'olio
alle lampade del mondo, perché anche il mondo possa attendere e possa vivere
l'attesa».
La vera tristezza
Oggi non si attende più. La vera tristezza non è quando ti ritiri a casa la
sera e non sei atteso da nessuno, ma quando tu non attendi più nulla dalla
vita. E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento,
ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di
passaggio. Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i
giochi sono fatti. E nessun'anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci
saranno più ne soprassalti di gioia per una buona notizia, ne trasalimenti di
stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia
umana: tanto, non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere. La vita,
allora, scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro
magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile,
senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco. Attendere: ovvero
sperimentare il gusto di vivere. Hanno detto addirittura che la santità di una
persona si commisura dallo spessore delle attese. E forse è vero.
Oggi abbiamo preso, invece, una direzione un tantino barbara: il nostro
vissuto ci sta conducendo a non aspettare più, a non avere neppure il fremito
di quelle attese che ci riempivano la vita un tempo: quando, non so, aspettavi
profumi di mosti, o il cigolare dei frantoi o il grembo di tua madre che si
incurvava sotto il peso di una nuova vita, o i profumi dei pampini, degli
ulivi, o il profumo di spigo, di mele cotogne. Forse sto scappando anch'io per
le tangenti del sogno, però - dite la verità - è così standardizzata la nostra
vita, è così incastrata nei diagrammi cartesiani che c'imprigionano e ci
stringono all'angolo, che non sappiamo più aspettare. Intuiamo tutti che
abbiamo una vita prefabbricata, per cui ci lasciamo vivere, invece di vivere.
Una «pro-vocazione»
Oggi l'Avvento c'impegna invece a prendere la storia in mano, a mettere le
mani sul timone della storia attraverso la preghiera, l'impegno e starei per
dire anche l'indignazione: indignatevi un po', fratelli e sorelle! Indignatevi,
perché abbiamo perso questa capacità; anche noi sacerdoti, anche noi vescovi,
non ci sappiamo più indignare per tanti soprusi, tante ingiustizie, tante
violenze... Tutto quello che viviamo ora, qui, non è solo una simbologia.
Vorrei dirvi, cari fratelli, che questi ragazzi, Antonio e Stefano e poi
Barbara e Francesca e Lorella e Miriam, devono diventare per noi una
provocazione, uno scrupolo, una spina di inappagamento, messa nel fianco della
nostra vita, un'icona, una «pro-vocazione», una chiamata da parte di chi sta un
po' più avanti. Con i gesti anche paradossali delle scelte audaci, ci stimolano
ad essere uomini dell'attesa come Maria; ci spingono a non diffidare mai dei
sogni, per essere capaci sempre di annunciare al mondo rovesciamenti da troni e
innalzamenti dello stereo, come Maria, donna dell'attesa, che ha aspettato
questa ricollocazione sui troni della giustizia per tutti coloro che, invece,
vivono nel fetore delle stalle e nel sopruso degli egemoni, che schiacciano
sempre la gente.
Attesa, attesa, ma di che? Che cosa aspettiamo?
Aspettiamo prima di tutto un cambio per noi, per la nostra vita spirituale,
interiore, e poi avvertiamo che stiamo camminando su speroni pericolosi, su
rocce che possono farci ruzzolare da un momento all'altro. Forse abbiamo
assunto un modo non proprio allineato alla logica delle beatitudini.
Attesa quindi di rinnovamento per noi, attesa di rinnovamento per la storia
dell'umanità. Attesa di cambi interiori della nostra mentalità: non siamo
ancora capaci di pronunciare una parola forte per dire che la guerra è iniqua,
che ogni guerra è iniqua! Ancora ci stiamo trastullando con i concetti della
guerra giusta o ingiusta, o della difesa...
Abbiamo nelle mani il Vangelo della non violenza attiva, il codice del
perdono, ma siamo ancora cristiani irresoluti, che camminano secondo le logiche
della prudenza carnale e non della prudenza dello Spirito. Siamo gente che
riesce a dormire con molta tranquillità, pur sapendo che nel mondo ci sono
tante sofferenze. Sopportiamo facilmente che, all'interno della nostra città, col
freddo che fa, le stazioni siano assediate da terzomondiali o da persone che
vivono allo sbando, che non hanno più progetti.
Macché fidanzamento, che sogni, che attese di sandali, che profumi di
vernice o di santità! Molta gente odora soltanto della tristezza dei propri
sudari.
Fratelli e sorelle, vergini fidanzate, provocate questa gente! Oggi ci sono
tante fotografie per voi, tanti lampeggiamenti di flash; sarebbe molto bello
che ognuno di voi, con il suo obiettivo allargato, imprimesse la provocazione
di un'attesa di cieli nuovi e terre nuove. Anche tu, Stefano, che ti accingi ad
entrare nel consesso presbiterale; e tu, Antonio, che ci sei già entrato, che
sei già lettore e annunci la parola di Dio e da oggi tocchi anche le patene, le
pissidi: tocchi quello che sarà il corpo vivente del Signore. Questo contatto
con i vasi sacri, col grano fatto pane, con l'uva fatta vino, ti mette in
rapporto con il cosmo, con questa realtà materiale, toccabile, perché il regno
di Dio viene costruito non con i fumi delle nostre utopie ma con le pietre che
vengono scavate nelle cave della storia, della terra. Scommetto che anche il
pane che si mangia nel cielo è intriso delle acque della nostra terra e del
grano che viene prodotto dai nostri campi!
Buona attesa, dunque. Il Signore ci dia la grazia di essere continuamente
allerta, in attesa di qualcuno che arrivi, che irrompa nelle nostre case e ci
dia da portare un lieto annuncio!
(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova,
Messaggero, 2007, 45-54).