Il dio di Cazzullo
Una feroce critica di Davide Brullo all'editorialista del Corriere della Sera, Aldo Cazzullo, che "professa l'ateismo come panacea contro le guerre". Lo segnala don Luigi Epicoco nella sua pagina facebook dicendo:
Ho una stima immensa per DAVIDE BRULLO, vi avviso però che nella profondità delle sue parole non troverete equilibrismi e carezze ma cruda, fastidiosa e autentica verità. Davide Brullo è un intellettuale che ha il tatto di Giovani Battista e la diplomazia di Geremia.
La critica segnalata in risposta a quanto Aldo Cazzullo scrive: "Non basta che Dio esista serve che si occupi di noi".
Lo so, lo riconosco – occuparsi di Aldo Cazzullo significa ammainare bandiera bianca, arrendersi al delirio dell’ovvio. Coltivato nel tepore da pollaio delle grandi testate, trogolo dei guru, Cazzullo è giornalista tiepido, tenue, grigio e scrittore pressoché inutile. Il suo talento – degno di studio – è quello di pettinare la pancia del lettore. Dice a tutti – con la supponenza antipatica del muezzin del giornalismo – ciò che tutti vogliono sentirsi dire; Cazzullo è il Lancillotto del ‘buon senso’, il cattivo gusto del popolo italico, il muratore dell’ovvio, un estremista della banalità.
L’ultima, per dire, l’ha detta sabato scorso, nello spazio del “Corriere” dedicato alle lettere dei lettori. Un tizio scrive a Cazzullo, Babbo Natale dei giornalisti, se non “sia ormai necessario mettere in dubbio il credo da cui i fanatici religiosi traggono giustificazione dei propri atti e violenze”, riferendosi all’“islam radicale” e alla ‘guerra santa’ che Putin vorrebbe bandire contro i fondamentalisti islamici. Cazzullo, ovviamente, non risponde – altrimenti gli tocca pigliare posizione sull’islam. “Sentir parlare di ateismo e di deismo quasi mi commuove”, attacca, l’illuminista da comò, il Robespierre in poltrona. Poi se la prende con il cristianesimo, che “predica la resurrezione della carne”, e sull’ipotesi che esista “un Dio misericordioso”, “che si occupi di noi”. Stando ai fatti, alla cronaca demente dei giorni, il Dio cristiano non esiste: la vita è una merda, il male imperversa, il debole soffre. Il buon senso – desumo – ci obbliga a essere atei. Che idiozia. Cazzullo dà lezioni di teodicea come si fanno le parole crociate o si concia una barzelletta per gli ospiti: proprio la sua visione ipocritamente irenica, che spaccia il relativismo come panacea per tutti i mali e il benessere globale come scopo ultimo, è quella che ha provocato, negli ultimi decenni, le guerre più sporche, bastarde e devastanti della storia.
La logica da desktop di Cazzullo non lo fa uscire dal metrocubo del suo vocabolario: che cavolo intende con misericordia, con immortalità dell’anima, con creatura? Commisurando ogni concetto alla propria misera esperienza, che miseria, il divino giornalista non può capire che l’uomo agisce spinto dall’assurdo e dal prodigio, che si prodiga verso l’innominabile, che sa sacrificarsi per la parola deposta in una notte insonne ai piedi della Croce, e che proprio in questo è il culmine della vita, furibonda, eccezionale, folle. Cameriere delle passioni basse, servo del giusto mezzo, del buon gusto, teologo adatto ai palazzinari del già detto, Cazzullo dovrebbe leggere Dostoevskij per capire che l’ateismo è omicida, che se togli il Nazareno dall’orizzonte è lecito, per il fatuo bene di molti, uccidere il vicino di casa, eleggere la ghigliottina al posto dell’altare. Dovrebbe leggere Lev Šestov, Cazzullo, per capire che bisogna abbattere l’idolo della ragione, che siamo incistati in un verminaio di contraddizioni, che “le nostre evidenze sono solo suggestioni, come la nostra vita… che non è vita, ma morte”, per urlare e guaire e usare la cravatta come fosse una fionda, e godere & soffrire. Invece, al suo lettore consiglia di leggere “Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi”, a sostegno delle proprie ipotesi, è tutto dire.
A proposito di fisime letterarie – appropriate al frustrato, a chi vive la vita frusta di chi non sta nel centro dell’azzardo, favorito dal fango e dal coraggio –, qualche giorno fa Cazzullo ha cazzeggiato ancora intorno al fatto che “tra le tante cose che abbiamo dato al mondo non c’è il romanzo”. Secondo Cazzullo – che della storia dell’arte ha fatto un haiku marxista – “nel campo della pittura non abbiamo rivali, tranne forse gli olandesi”, mentre la nostra letteratura “non ha un peso paragonabile, sempre parlando di romanzi, a quello dei francesi e dei russi; per tacere dell’enorme produzione di letteratura fantastica dei britannici”. Intruppato nel qualunquismo, nel paddock dell’arte come statistica, Cazzullo sguazza nel nulla. L’arte non è il campionato di calcio: uno straordinario pittore mi ha spiegato, un giorno, perché Diego Velázquez è il pittore più rivoluzionario della storia; alcuni scommettono sul genio romanzesco di Thomas Mann, Robert Musil e Hermann Broch, altri sulle sorti progressive dell’epos americano, da Melville e Hawthorne a Philip Roth; altri ancora sul profluvio dei narratori latinoamericani. Restiamo, sempre, nel tenore del gusto, nella stasi della statistica, quando basta uno, estemporaneo, imprevisto, a far saltare il banco dei saltimbanchi del buon senso. Ma questo, Cazzullo, cardinale della ragione, idolatra della correttezza, eresiarca dell’happy hour, non può saperlo. A lui basta sfottere il Manzoni – “Tutti siamo affezionati a Manzoni; ma già a Mentone e a Capodistria non leggono il romanzo cui dedicò la vita”; stesso concetto idiota già passato sugli schermi cazzulliani un paio di mesi fa: “la notorietà di Leopardi e Manzoni (per citare due autori amatissimi) si ferma a Mentone e a Capodistria”; direi che la notorietà di Cazzullo manco arriva a Mentone, vada a fare le ferie a Capodistria leggendosi lo Zibaldone, va là… Sfugge, all’ingenuo Cazzullo, che il successo di un romanzo, spesso, è consustanziale a quello della nazione di chi lo ha scritto: si tratta di guerra dell’immaginario, l’aspra lotta delle idee. Eppure, i racconti di Verga sono più audaci e vivaci di quelli di Raymond Carver, e abbiamo un lotto di scrittori – Mario Pomilio, Giuseppe Berto, Giovanni Testori, Pier Paolo Pasolini, Alessandro Spina, Guido Piovene, Goffredo Parise, Gesualdo Bufalino… – che fanno un mazzo ad altri, più venduti, premiati, sponsorizzati. Siamo, piuttosto, un paese che sputa in faccia ai propri scrittori, che di norma lavorano in austera autarchia, fuori dai mondi pittati della gente ‘che conta’. Di recente, tra l’altro, i mondi anglofoni, da tempo deliziati da Grazia Deledda e Natalia Ginzburg (che va forte anche nel mondo sudamericano), stanno scoprendo – al posto di Elena Ferrante, un bluff – il genio profetico di Guido Morselli.