Il coronavirus e gli anziani da "proteggere" (secondo Toti)
Ha fatto scalpore e ha indignato il tweet del 1/11 del governatore della Liguria, Giovanni Toti:
«Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid 19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate».
Parole, secondo il governatore, "malamente estrapolate", forse "maldestre" ("scritte male da un collaboratore"), ma difese ad oltranza perché metterebbero in luce un aspetto centrale del dramma della pandemia: il virus miete vittime soprattutto tra gli anziani. Proteggiamoli tenendoli (obbligatoriamente?) a casa e coloro che producono vadano avanti con la propria vita.
Insieme ai governatori di Piemonte e Lombardia, Toti ha avanzato la proposta di limitare gli spostamenti degli over 70 per evitare un lockdown generalizzato. Risponderebbe mia madre (85 anni): "se mi chiudete in casa muoio". Non è forse una ipotesi di ghetto per coloro che non producono?
Commenta Annachiara Valle su Famiglia Cristiana:
Insieme con il Sars cov2 c’ è un altro virus che sta venendo allo scoperto. Quello di una cultura che considera le persone soltanto in base alla loro prestanza, efficienza, forma fisica, produttività. L’ "infortunio linguistico", se vogliamo chiamarlo così, del presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti che twitta «solo ieri tra i 25 decessi della Liguria 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate», ha in realtà sintetizzato quello che via via sempre più persone vanno affermando. E cioè che per permettere ai giovani di continuare movida e vita quotidiana come se nulla fosse, gli anziani e le persone fragili andrebbero “tutelate” chiudendole in casa e impedendo loro ogni forma di mobilità. Tralasciando l’ incostituzionalità che avrebbe un simile provvedimento (per altro già sottolineata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando la discussione si era affacciata nel primo lockdown) colpisce quanto stia attecchendo questa cultura dello scarto. Una cultura per cui le persone fragili, tanto più se in là negli anni sono considerate un peso, un costo, un freno per chi vuole continuare a correre senza limiti. Risuonano le parole di papa Francesco che, nel giorno dei Santi Pietro e Paolo, come già aveva fatto tante volte in passato, aveva chiesto di pensare ai «tanti anziani che sono lasciati soli dalla famiglia come se fossero materiale di scarto. La solitudine degli anziani è un dramma del nostro tempo».
Anziani che sono invece preziosi come memoria, come radice, come saggezza, come testimonianza di quell’ amore che passa tra le generazioni. Che ci ricordano, sono sempre parole del Papa, «che la vecchiaia è un privilegio, non una malattia». Un Paese che sa stare al passo con gli ultimi, che riconosce il valore di ogni vita umana, anche di chi ha un handicap, una malattia, una condizione che lo rende vulnerabile, è un Paese che salvaguarda la vita di tutti. Tutelare chi ha, per età, condizione fisica, materiale, culturale, una qualunque fragilità significa mettere in sicurezza la società nel suo insieme. E, seppure in seguito alle aspre polemiche che ne sono seguite il governatore ha fatto inserire dal suo staff un commento che spiega che le parole di Toti sono state fraintese, il dibattito in realtà serpeggia in alcuni strati della popolazione. Un pericolo, quello di abbandonare le persone più fragili con la scusa di volerle “tutelare”, che ci farebbe perdere il contatto con gli affetti più cari e con la nostra umanità. Con il rischio di tornare a invocare la rupe Tarpea (come pure qualcuno ha fatto anche di recente per i disabili) o il monte Taigeto da cui secondo la leggenda gli spartani facevano precipitare i neonati deformi o troppo deboli. La pandemia dovrebbe insegnarci che non si può barattare la vita di un nonno con la “libertà” di bere uno spritz. Che per tutelare i più fragili (e ciascuno di noi può esserlo in qualche fase della sua vita o persino senza saperlo) dobbiamo saper rinunciare, almeno per un po’ , a ciò che non è essenziale. Sapendo che l’ unica cosa che conta è la vita umana, ogni vita umana. E che non possiamo vivere in un mondo dove «si scartano gli anziani con la pretesa di mantenere un sistema economico "equilibrato", al centro del quale non vi è la persona umana, ma il denaro. Siamo tutti chiamati a contrastare questa velenosa cultura dello scarto! Noi cristiani, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, siamo chiamati a costruire con pazienza una società diversa, più accogliente, più umana, più inclusiva, che non ha bisogno di scartare chi è debole nel corpo e nella mente, anzi, una società che misura il proprio "passo" proprio su queste persone».
Eugenia Roccella scrive invece su Avvenire: "No al muro tra generazioni. Oltre Covid e devastante individualismo":
Chiudere gli 'anziani' in casa – non solo gli over settanta, ma forse anche gli ultrasessantenni e persino gli ultracinquantenni – e lasciare che gli altri vivano la vita di sempre, senza più smart working e smart learning, e con i bar, i ristoranti, i cinema, i teatri, e tutte le attività aperte.
Quest’ipotesi, che circola da un po’ di tempo, ma finora solo timidamente, è approdata sulle prime pagine dei giornali, grazie a un ponderato studio dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale, al quale si è poi aggiunta un’ipotesi analoga, elaborata su 'lavoce.info' da tre studiosi: Favero, Ichino e Rustichini.
Questi ultimi sono i più radicali: orari di accesso ai negozi rigidamente separati per chi ha più o meno di 50 anni, vietati pranzi in famiglia e ogni forma di commistione generazionale. I giovani che abitano con ultracinquantenni potrebbero essere forniti di voucher per ristorante e albergo, al fine di interrompere la 'rischiosa' convivenza, lasciando genitori e nonni alla propria solitudine. Tutto questo, si dice, per tutelare gli 'anziani'.
Ma si intravede dietro lo scopo sbandierato la volontà di alleggerire la sanità pubblica e di tornare alla normalità lavorativa ed economica nel modo più semplice: togliendo di mezzo, come un ostacolo ingombrante e fastidioso, le persone fragili e statisticamente più a rischio. Un po’ la ricetta iniziale di Boris Johson: salutare i 'cari vecchietti', e tirare diritto. Sappiamo com’è finita. E lo stesso premier britannico, già scosso dal contagio subito personalmente e duramente, ha proclamato un mese di parziale lockdown nel Regno Unito. Sono, quelli che viviamo, tempi di insicurezza e di spaesamento. Il Covid-19 non solo fa paura, ma fa saltare certezze accumulate in decenni di benessere e tranquillità.
Dal dopoguerra a oggi il mondo occidentale non ha più attraversato eventi angosciosi come conflitti bellici, carestie e pandemie; ha costruito un welfare rassicurante, e vissuto uno sviluppo economico e tecnologico impetuoso. Le nuove generazioni sono cresciute nella cultura dei diritti individuali, che sembravano destinati ad allargarsi ogni giorno di più. Abbiamo coltivato l’illusione che, sia pure nel disagio prodotto da una lunga crisi economica, il nostro stile di vita, orientato a consumare esperienze ed emozioni oltre che beni concreti, sarebbe durato indefinitamente. Trovarsi improvvisamente chiusi in casa, privati di cinema, ristoranti, teatri, concerti, spettacoli ed eventi di ogni genere, è stata una dura sorpresa, ed è apparso a molti, soprattutto ai giovani, come un insostenibile sacrificio. Il sociologo Luca Ricolfi lo ha spiegato con chiarezza: «La nostra è una società moderna, che della società moderna possiede il tratto fondamentale: la divinizzazione dell’individuo e dei suoi diritti» a scapito del bene comune; «il rispetto dell’autorità e la capacità di affrontare rinunce sono tratti normali, se non costitutivi, delle società tradizionali, ma sono merce rarissima nelle società moderne».
Se il primo lockdown è stato subìto ma anche accettato, stretti come eravamo nella morsa della paura e con le immagini di morte che ci assediavano, il secondo lo è molto meno. L’estate, e i messaggi sbagliati, ci hanno fatto credere che il virus fosse in via di esaurimento, e che comunque si era trattato di una parentesi che potevamo archiviare. Ora invece si comincia a capire che non è così, che il vaccino non è la soluzione mitica che ci immaginavamo, che dovremo convivere con il contagio ancora a lungo. Le reazioni di rabbia e rifiuto, e non solo di chi è economicamente danneggiato, cominciano a vedersi nelle strade e nelle piazze. A questo si aggiunge un coro di opinionisti che ripete che sono i giovani i più colpiti dalle misure di contenimento sociale, è a loro che si chiedono sacrifici e rinunce. Come se i giovani dovessero essere esentati da qualunque sacrificio e rinuncia, come se dovessero essere protetti dalla consapevolezza che la vita non è sempre facile né priva di problemi e sofferenze.
È anche su questa falsa coscienza che è cresciuta l’emergenza educativa, sull’idea che la vita sia qualcosa da consumare e non da costruire. Tocca a noi insegnare ai nostri figli e nipoti che la vita è anche altro, che i modelli di felicità possibili sono molti, che si può ricavare gioia anche dalla rinuncia, dal bene degli altri, dalla solidarietà, dall’amore oblativo. All’apericena, la birretta con gli amici, il weekend sulla neve, si può rinunciare senza problemi se questo serve al bene di tutti.
Chiudere le persone fragili (o presunte tali) in casa, abbandonarle alla solitudine per vivere e produrre fingendo di «essere sani in un mondo malato», vuol dire illudersi che il mercato possa funzionare comunque e far declinare quelle persone più o meno anziane e giudicate a rischio, togliere loro deliberatamente anche poche e prudenti occasioni di compagnia e condivisione, così preziose per chi non è più giovane. Quando si afferma che muoiono 'solo' gli ultrasettantenni o che, comunque, i vulnerabili sono soprattutto gli ultracinquantenni, magari con più patologie, come se queste constatazioni riducessero il danno, la logica brutale dell’eutanasia ha già vinto. La cura della fragilità, la difesa della vita sono parole vuote se non si traducono in scelte concrete, di vera solidarietà.