Proseguono gli articoli che Avvenire sta pubblicando in preparazione al Sinodo sui giovani. Tra gli ultimi contributi ho trovato interessante quello della Bignardi che si chiede:
E se le critiche dei giovani costituissero l’opportunità per una conversione che renda la Chiesa migliore per tutti, più evangelica e più contemporanea?
«Penso che sia possibile avere un rapporto con Dio a prescindere dalla Chiesa... per cui non credo sia necessario dover andare in Chiesa per forza ogni domenica... oppure avere un dialogo con un parroco o confessarsi...». La posizione di questa giovane rappresenta l’opinione della maggioranza di quei giovani che continuano a ritenersi credenti e cattolici, anche se hanno abbandonato le pratiche della vita cristiana. Ed è l’opinione anche di molti degli intervistati per l’indagine dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo sul rapporto tra i giovani e la fede, da cui provengono i brani citati in questo articolo (Rita Bichi e Paola Bignardi, Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia, Vita e Pensiero, Milano 2015). Il rapporto tra i giovani e la Chiesa è difficile, teso, spesso arrabbiato. L’atteggiamento prevalente parla di scarsa fiducia, di un complessivo senso di estraneità, della convinzione che sia necessario un cambiamento profondo. La questione ecclesiale chiaramente interagisce con il modo con cui le persone si pongono di fronte alla questione religiosa. Il discorso sulla Chiesa ha un’eco diversa per il 50% di giovani che si dichiarano cattolici, rispetto all’altro 50% che si dichiara ateo o agnostico o diversamente credente. Per chi non crede, il confronto non avviene primariamente con la Chiesa, ma con il senso che ha la fede in Dio, ben sapendo che questa è mediata dalla Chiesa, dal percorso catechistico svolto nella fanciullezza, dall’ambiente che si è frequentato, dalle persone che in esso si sono incontrate...
In ogni caso, vi sono aspetti comuni ai giovani credenti e non credenti. Su questo tema le semplificazioni sono pericolose e non consentono di capire una relazione nella quale entrano molti elementi di complessità. Innanzitutto il modo con cui i giovani vivono il rapporto con le istituzioni, tutte le istituzioni, inclusa la Chiesa. Per una sensibilità fortemente connotata in senso individualistico e soggettivo, è difficile accettare quelle realtà esterne a sé che hanno proprie regole, proprie gerarchie, linguaggi e culture che non sono adattabili o modificabili a piacere. La presa di distanza da queste realtà prende per i giovani la forma della sfiducia, più che del conflitto esplicito. Così è per la Chiesa; la testimonianza di questo giovane è significativa al riguardo: «Quello che penso personalmente è che sì, ho fede, credo in Dio, però non credo più nelle istituzioni della Chiesa, penso che la fede è una cosa buona, da seguire, un pensiero da portare avanti, da tramandare ai figli, però non credo più nelle istituzioni».
La posizione prevalente in chi si è allontanato è quella che tende a escludere la Chiesa per un motivo radicale, per una ragione di principio, che si può riassumere così: cosa c’entra la Chiesa col mio rapporto con Dio? L’esasperazione dell’individualismo prevalente oggi nella sensibilità diffusa, unita a un’esperienza catechistica vissuta con disagio, ha finito con il generare una forte insofferenza verso la Chiesa. Il percorso catechistico che i giovani hanno frequentato per l’iniziazione cristiana ha lasciato in loro il sapore della costrizione; ha dato loro in molti casi delle adeguate conoscenze della vita cristiana ma non ha dato loro una comunità, non ha fatto loro sperimentare il calore delle relazioni e il piacere di frequentarle, com’è nel ricordo di questo giovane: «È stata un’esperienza, diciamo, sofferta [...], l’ho vista sempre come un’attività particolarmente noiosa. Ritengo che sia un’attività che una persona deve fare solo se effettivamente lo vuole. Mentre il catechismo rientra in tutta quella serie di formalità che si è tenuti a fare per una questione di tradizioni, di educazione... Più una spinta della propria famiglia che una scelta interiore come invece dovrebbe essere». L’allontanamento dalla pratica religiosa e dagli ambienti ecclesiali dopo la Cresima ha significato tagliare i ponti con la Chiesa in generale; in molti casi non l’abbandono della fede ma piuttosto l’approdo a una fede solitaria e privata. Con significative conseguenze sulla qualità della fede stessa, perché una vita cristiana da adulti, senza il supporto e il confronto con una comunità, la sua cultura, la sua spiritualità, il suo modo di valutare la vita, alla lunga genera una fede che, più che essere personale, è soggettivistica, 'a modo mio'.
Vi sono due serie di atteggiamenti diversi di fronte alla Chiesa: la propria parrocchia non è il Vaticano; il gruppo che eventualmente si frequenta non è la gerarchia ecclesiastica; una comunità di cui si conoscono le persone non è percepita come una fredda istituzione. La Chiesa vicino a casa e che si frequenta è guardata con maggiore simpatia e attenzione; è una Chiesa viva, di cui ci si può sentire parte per esperienza diretta. La qualità della comunità è data dalle persone che vi si incontrano; dal clima che vi si respira; dalle esperienze che è possibile vivere in essa. I giovani che hanno sperimentato una comunità dalle relazioni significative, che in essa hanno incontrato figure educative diventate importanti nella loro vita, che si sono sentiti coinvolti in un clima ecclesiale che li ha valorizzati, hanno nei confronti della Chiesa un atteggiamento più interessato e giudizi meno severi. È comune ai giovani, sia a quelli vicini che a quelli che si sono allontanati, un atteggiamento critico nei confronti della Chiesa, più distaccato in chi se ne è andato, più partecipe in chi è rimasto ma vorrebbe una Chiesa diversa, soprattutto una Chiesa più coerente, disposta a proporsi con indicazioni meno perentorie, più dialogica, più attenta alla vita di oggi. Non è detto che chi resta dia tutto per scontato, come lascia intendere la testimonianza di questa giovane: «Se il Papa dice che è sbagliata una certa cosa, non è che io l’accetto punto. Ne parlo, ne discuto, cerco di capirlo, poi chiaro che mi fido del suo giudizio. Ma questo non vuol dire che non abbia dubbi, o che non ne parli, o non cerchi di approfondire la questione».
I giovani che scelgono di restare nella Chiesa hanno attese e richieste esigenti, che vanno nella direzione di un’esperienza ecclesiale consapevole, motivata e contemporanea. La Chiesa deve mostrare ai giovani di essere Chiesa di oggi. Vorrebbero soprattutto un ammodernamento della sua cultura, delle sue indicazioni; del suo linguaggio, datato e persino incomprensibile, che attinge più a un patrimonio dottrinale consolidato nel tempo che al modo di esprimersi comune alle persone di oggi; ai giovani questo dà una percezione di vecchio che non riescono ad accettare. E poi, al di là delle singole questioni, i giovani chiedono alla Chiesa un cambio di stile: più aperto, più disposto al confronto, più interessato alle questioni della vita e del mondo di oggi... Sono convinti – tutti – che la Chiesa debba mettere mano a una grande opera di rinnovamento, richiesta molto più dai giovani che in essa sono coinvolti che da quelli che se ne sono allontanati e non si sentono più interpellati. Di fronte al Sinodo, si pone una domanda: e se le critiche e le richieste dei giovani costituissero un’opportunità per il ringiovanimento della Chiesa? Provocazioni per una conversione che potrebbe rendere la Chiesa migliore per tutti? Al tempo stesso più evangelica e più contemporanea. Questa è la vera grande sfida che il Sinodo ha davanti a sé.
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