30 anni fa moriva il vescovo don Tonino Bello. L'omelia del card. Zuppi



Il 20 aprile 1993 si spegneva a 58 anni il vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi. 
Un anniversario che ci ricorda una persona eccezionale, cantore (e lottatore) per la pace, per la dignità di ogni essere umano e per Cristo. Un vescovo-fratello, don Tonino Bellodal 2021 dichiarato venerabile.

Lo ricorda Settimana news riproponendo un bell'articolo del gesuita p. Bartolomeo Sorge: "La Chiesa del grembiule". 

Sempre in ambito gesuitico un articolo per La Civiltà Cattolica del 2018: "Un vescovo fatto vangelo".

Oggi lo ricorda Avvenire con l'articolo:  "Trent’anni senza «don» Tonino Bello. La sua profezia di pace scuote ancora" e Vaticanews con "Don Tonino Bello, trent'anni dopo. Gli altri e gli ultimi, "volti da accarezzare".

Il 20 aprile il cardinale Zuppi ha celebrato la Messa commemorativa nella cattedrale di Molfetta. Questa è la sua omelia

Sento tanta emozione e gioia nel presiedere l’Eucarestia in questa Cattedrale. I luoghi aiutano a comprendere la storia e le persone. Queste mura antiche ci trasmettono ancora la voce del venerabile don Tonino Bello, mai scontata e per nulla “paludata”, nutrita dalla Parola di Dio. Ciascuno sentiva quelle parole indirizzate quasi intimamente alla propria coscienza. Parlava in modo diretto alle persone vicine, tutte, con il nome e i volti e al mondo intero, fratello universale. “Abbiate il cuore vicino e i battuti lontani”, diceva.
Trenta anni. Come non commuoverci nel ripensare al suo volto scavato e sofferente eppure luminoso e trasfigurato dall’amore in occasione del suo viaggio a Sarajevo, seme di pace e per certi versi suo testamento di amore? E come non provare l’inquietudine che lo portava a non accettare l’inedia ma a seminare comunque pace, soprattutto oggi che viviamo scenari ancora peggiori nella drammatica guerra che si combatte in Ucraina e negli altri pezzi di conflitti che tutti ci commuovono e impongono una scelta? Don Tonino lo faceva “avendo in corpo l’occhio del povero” ovvero delle vittime. Cambia tutto se guardiamo il mondo e noi stessi con questo occhio, che è quello di Cristo. “La pace più che un vocabolo è un vocabolario”, diceva, ricordando che il fiume della pace si nutre di affluenti e sfocia in estuari che hanno nomi impegnativi e profondi come disarmo, economia di giustizia, salvaguardia del creato, legalità e democrazia, diritti umani, nonviolenza, partecipazione, rispetto delle persone, beni comuni. Tutt’altro che irenismo!
Non nascondo, però, che provo anche la necessità di chiedere perdono a don Tonino. Lo so. Lui si schermirebbe e si metterebbe lui per primo a farlo per sé. Perdono perché abbiamo frainteso la sua voce evangelica, esigente come è il Vangelo che chiede amore vero e non surrogati; che coinvolge tutto, non quello che avanza o finché ci va; amore sporco della vita e anche del nostro peccato, ma amore senza furbizie, calcoli, ecclesiasticismi, strumentalità, ideologie. Caro don Tonino: tu non avevi paura di essere strumentalizzato perché eri libero come chi è pieno di Cristo, tanto che chi provava a farlo finiva per seguirti! Caro Tonino, qualche volta la tua voce l’abbiamo accolta con fastidio o sufficienza, con paternalistica commiserazione come se fossero tue intemperanze, esagerazioni utili per qualche azione dimostrativa ma non scelte che coinvolgevano la Chiesa intera, di campo, di prospettiva. Tutti salvavamo il tuo buon cuore ma spesso bollandolo di ingenuità o come troppo di parte. Non facevi sconti a te stesso e agli altri e ricordavi che l’amore per Dio e per il nostro fratello più piccolo sono la stessa cosa e che se manca uno manca anche l’altro. Un’ultima richiesta di perdono, come si deve fare tra uomini veri come tu sei stato e ci hai insegnato ad essere. Perdono quando imitiamo la tua parola senza viverla, la svuotiamo rendendola verbalismi compiaciuti, mentre per te era fare parlare la vita perché in essa scorgevi il volto di Cristo, quello che cercavi con profonda sete d’amore davanti al tabernacolo e nell’Eucarestia e che riconoscevi nel volto dei tuoi, suoi, nostri fratelli più piccoli. Ci hai messo in guardia dal riporre il grembiule nell’armadio dei ‘paramenti sacri’, perché “stola e grembiule sono il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale”. Non componevi frasi ad effetto ma descrivevi la poesia di amore della vita, da mistico che penetrava la realtà, divorato dall’amore per Dio e per il tuo prossimo che volevi fosse anche il nostro. Davi fastidio e purtroppo il problema diventava la tua voce e non il nostro fastidio! Ecco perché ti chiedo perdono.
Abbiamo ascoltato Pietro che con chiarezza evangelica proclama: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (cfr. At 5,29). Chi obbedisce a Dio è libero dalla mentalità comune, dal vero pensiero unico che è l’individualismo che fa obbedire solo al proprio io e finisce schiavo di tante idolatrie che diventano dipendenze. Chi piega le ginocchia per pregare le piega per servire e mai per ripiegarsi su sé stesso! E noi non siamo fatti per vivere per noi stessi. Chi obbedisce a Dio in realtà ama se stesso e gli uomini, perché obbedisce alla  passione che cerca l’ultima pecora perduta e alla misericordia che spinge a  correre incontro al figlio che torna. E anche a quella parte di noi che si perde! Non obbedisce a Dio il fratello maggiore! Chi obbedisce a Dio sta alla larga, come ammoniva don Tonino, dal Potere, dal Prestigio e dai Prodigi. Tre parole chiave, opposte a quelle che hanno guidato la sua vita: Preghiera, Poveri e Pace.
Pietro annuncia il cuore del messaggio cristiano: Gesù umiliato e ucciso (abbassato) sulla croce è stato risuscitato (innalzato) da Dio. In lui c’è salvezza! Lui solo è la salvezza! Pietro è pieno dello Spirito, donato da Dio a quelli che gli obbediscono. Don Tonino lo ricordava a tutti. Per lui «tutta la Chiesa grondante di Crisma è un popolo di Profeti. Di annunciatori. Di evangelisti. Di scaricatori di speranze. Di portatori di lieti annunci. Di custodi di una parola esplosiva, che non può essere “trattata”, controllata, disinnescata, addormentata dalle astuzie umane. La Chiesa è un popolo di profeti, non di pavidi, di ritualisti, di reazionari, di preoccupati che la Parola possa rivoltarsi come un boomerang anche contro chi la pronuncia» (Scritti, vol. II, p. 26-27). Era la sua personale franchezza, la parresia, come evidenziava, «stile di chi, in piedi, a faccia alta pur senza protervia, parla apertamente e con piena libertà di linguaggio del suo incontro con Dio, alla cui Parola si sente ormai irrevocabilmente consacrato» (Scritti, vol. II, p. 160). Questa è possibile solo a chi obbedisce a Dio e per questo ama gli uomini con la libertà dell’amore. Diceva: «Senza peli sulla lingua, cioè. Senza smorzare le finali, per amore di quieto vivere. Senza mettere la sordina alla forza prorompente della verità. Senza decurtare la Parola, per non recare dispiacere a qualcuno.» (Scritti, vol. V, p. 131). E in un’altra occasione, proprio riferendosi a Pietro che parla insieme agli Undici, afferma: «Questa è la parresia: alzarsi in pedi, avere il coraggio di parlare, insieme con gli altri, non come battitori liberi […]. Il coraggio consiste soprattutto nel coinvolgere gli altri a parlare» (Scritti, IV, p. 65). La parresia è tutt’altra cosa che gonfiare le parole con la retorica; è il contrario del dichiarazionismo o del protagonismo ed è intimamente legata alla comunione. Don Tonino aveva il gusto della comunione. Per lui le parole “camminare” e “insieme” erano inseparabili e rendevano ragione l’una all’altra: non c’era altro modo di camminare se non insieme e non c’era altro motivo di stare insieme se non per camminare. La Chiesa non è fatta per essere stanziale, per chiudersi nell’autocontemplazione, ma per camminare nelle strade degli uomini. Se restiamo stanziali finiamo inevitabilmente per discutere su chi è più grande e il servizio diventa cercare la considerazione personale e non dare considerazione al prossimo! La Chiesa non è un’agenzia di beneficenza, una Organizzazione non Governativa (Ong), ma il Corpo di Cristo, un soggetto che è costituito, nelle sue membra, dai poveri, potremmo dire in gran parte – poveri che non sono da intendere solo in senso materiale, ma anche morale e spirituale – e li aiuta a entrare nel mistero di Cristo”. Don Tonino ha prefigurato una chiesa sinodale tant’è che la sua prima lettera pastorale è stata il frutto di una scrittura collettiva in cui tutte le presenze della comunità erano state invitate a ripensarsi e a riscriversi: “Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi”. È la Chiesa del Concilio Vaticano II, il cui paradigma è sempre l’antica storia del Samaritano che porta a guardare con “simpatia immensa i bisogni umani”, come la definì Paolo VI. L’antica storia del Samaritano (cfr. Lc 10,25-37) è stata il paradigma della spiritualità di don Tonino Bello. È stato un cultore dell’uomo, senza alcun riduzionismo antropologico, perché era un uomo, un padre, un fratello, un vescovo, tutto centrato su Gesù Cristo e sul suo vangelo. È la grande lezione di don Tonino, che non ha smesso di affidarsi allo spirito di Dio. Ha sempre invitato ad avere uno sguardo “dal cielo”, come abbiamo ascoltato nel Vangelo di Giovanni, quello che permette di essere della terra chiamando “fratello” uno che per gli altri era solo Massimo, ed era solo un ladro; definendo “basilica minore” Giuseppe che per tutti era l’ubriaco; chiedendo perdono al fratello marocchino, rappresentante di tutti gli immigrati che il nostro perbenismo non riesce ad accogliere.
Questa sera il ritornello del Salmo responsoriale ci ha fatto pregare così: “Ascolta, Signore, il grido del povero”. Sembra il rovescio della medaglia del motto episcopale di don Tonino: “Ascoltino i poveri e si rallegrino”. Grazie don Tonino, fratello vescovo, padre senza paternalismi e fratello pieno di cuore e amicizia. Benedici ancora una volta questa Chiesa che ti ha avuto come pastore intelligente e guida appassionata e che tu hai amato fino alla fine. E benedici, ti preghiamo, ogni seme di bene, ogni anelito di pace, ogni scheggia di speranza nascosti nel cuore di ciascuno di noi. In questo tempo di tanta oscurità donaci di essere scintille di amore e di luce, che trasfigurano le ferite e le rendono luoghi di resurrezione. Nella domenica prima di morire, dettando il tuo testamento spirituale, dicevi: «È il giorno del Signore. Ed è bellissimo». Grazie perché hai vissuto e ci continui ad insegnare a vivere questa bellezza, tutta umana e tutta di Dio, donata senza misura dallo Spirito che “dà in mano ogni cosa a chi lo cerca” perché diventiamo uomini del cielo. E la nostra ala trovi sempre anche la tua a ricordarci che siamo fatti per volare e che tutti possiamo farlo con Cristo.




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