Le malattie spirituali della Chiesa di Roma e l'intervento del Papa a San Giovanni



Ancor più dell'intervento del Papa (che ha risposto ad alcune domande - che non aveva avuto tempo di leggere prima - e ha letto un rapporto "formale"), sono stato colpito dalla lucidità e profondità della relazione che don Paolo Asolan, docente di Pastorale alla Lateranense, ha fatto sintetizzando i dati giunti dalle parrocchie romane sulle malattie spirituali che le affliggono. Ecco la sua sintesi:
Per abbozzare una sintesi del cammino compiuto durante la Quaresima dalle parrocchie, ci può forse aiutare una ripresa del tema delle malattie spirituali, ponendole in analogia con quelle corporali, le quali sono sempre la rottura dell’equilibrio funzionale in un organismo.
Per l’organismo che la Comunità Cristiana è (ed è chiamata ad essere), l’equilibrio funzionale buono é dato dalla reciprocità costitutiva della sua vita ad intra (= il suo impegno di edificazione della Comunità) e ad extra (= la sua missione e il suo servizio al mondo). Papa Giovanni, nel radiomessaggio dell’11 settembre 1962, disse che compito del Concilio doveva essere quello di affrontare entrambe queste sfide. Papa Francesco, con Evangelii Gaudium, ci chiede di strutturare l’ad intra alla luce dell’ad extra: cioè in chiave missionaria, perché la Chiesa vive – e comprende se stessa – per la missione, per la diaconia al mondo.
Di fatto, l’obiettivo ultimo delle domande era quello di evidenziare cosa frena in noi il dinamismo evangelizzatore.
Proviamo qui a collocare le malattie emerse/diagnosticate riconoscendole come rottura di questa reciprocità e di questo rapporto organico, che porta al cattivo funzionamento dell’organismo stesso.
Ci rifacciamo, sommariamente e solo per essere meglio illuminati a comprendere che passi di guarigione prevedere da qui in avanti, alle quattro possibili cause di una malattia, che si presenta
* o per la presenza di qualcosa “in più” nell’organismo (batteri, sostanze estranee, virus, lo stesso ossigeno assunto in quantità eccessiva…)
* o per l’assenza di qualcosa che é “in meno” rispetto alle esigenze del buon funzionamento dell’organismo (sottraendo ossigeno, sangue, enzimi… come avviene per carenza di elementi vitali come acqua, cibo, vitamine…)
* o per malattie autoimmuni (quando per difendersi da qualcosa, l’organismo produce risposte immunitarie anomale dirette contro componenti dell’organismo stesso, determinando alterazioni funzionali, come nel diabete o nelle sclerosi…)
* o per decadimento funzionale (quando uno o più sistemi nell’organismo vengono meno alla propria funzione: Alzheimer, demenza…).
La ricchezza di dati e di osservazioni è, grazie a Dio, proprio una ricchezza, irriducibile in poche pagine. Tuttavia, appare chiaro l’emergere di alcune costanti nelle risposte, che ci mettono di fronte ad un primo discernimento comunitario, entro il quale – pur con le dovute specificità – si riescono ad individuare alcune precise chiamate dello Spirito Santo alla conversione pastorale.
Una tale classificazione suppone le sei malattie sulle quali si era chiamati a verificarci (pessimismo, esclusione, etc), ma vorrebbe cercare già di individuare alcune radici. La rassegna è in ordine non ragionato.
A)- Presenza di qualcosa “in più” nell’organismo (batteri, sostanze estranee, virus, lo stesso ossigeno assunto in quantità eccessiva…):
- il benessere economico (anche relativo: ci sono situazioni di disagio economico crescente) e i soldi ottundono la vita spirituale in generale, cioè una vita che tiene nel suo orizzonte ciò che è immateriale. Il fattore economico (come anche la convenienza o la produttività) si sono largamente insediati come matrici di giudizio, al posto della fede e del Vangelo. Questa causa, peraltro, un grande senso di inutilità e di stanchezza (la stanchezza è lo stato d’animo più ricorrente), che viene dagli scarsi risultati pastorali nell’immediato.
- l’ipertrofia del soggetto, che stenta a viversi come persona-in-relazione, e che considera gli altri, il prossimo, come una relazione esterna e non necessaria. Non c’è coscienza e spesso nemmeno esperienza della necessità di appartenere al popolo di Dio per conoscerLo e essere partecipi della pienezza della vita. La dimensione sociale e comunitaria è tutta da ricostruire e rieducare, sia nella vita ecclesiale che in quella civile. La partecipazione dei singoli appare legata al sentire personale e alla compiacenza (verso i preti-guru), e così sembrano irrilevanti Gesù Cristo e la Chiesa.
- eccessivo senso di appartenenza nei confronti della propria comunità e/o esperienza di fede. Vi sono due conseguenze: il dramma (presente in tutte le schede!) di una mancanza di comunione davvero preoccupante. Si tratta forse della malattia più segnalata: le varie realtà ecclesiali non si sentono parte di un tutto (la parrocchia o la diocesi) e questo è a sua volta alla radice delle divisioni e della inconsistenza pastorale di molte proposte. La seconda conseguenza è che la missione o la formazione cristiana sono pensate come mera ripetizione della propria, consegnata ai più giovani, senza quindi una vera conoscenza di chi essi siano e di che cosa abbiano bisogno, di quale sia il contesto nel quale ora si trovano. Una prefettura segnala con una certa insistenza il problema costituito dal Cammino Neocatecumenale, a causa del quale questa frattura sembra essere particolarmente dolorosa.
- eccessivo numero di iniziative pastorali, molto frammentate e non organicamente pensate (“inutile moltiplicazione delle attività”), che non danno continuità (“si passa da un incontro all’altro senza meditarne i contenuti, da una proposta all’altra senza rimanerne coinvolti”). In alcuni casi, troppa programmazione (efficientismo), per cui lo spazio per la gratuità e il non preventivabile rimane scarso o del tutto assente. Ciò comporta una certa defigurazione del ministero pastorale, ridotto a volte a ruoli di pura gestione e coordinamento, senza che si viva una paternità/generatività spirituale. Più in generale, si registra una centratura ancora troppo decisiva sul prete in ordine alle attività pastorali, intese sempre come attività ad intra.
- in generale una malattia comune praticamente a tutte le schede è quella della frenesia, cioè di una gestione del tempo vissuto come un tiranno, che non consente altro che una vita alienata e lontana dal Signore e dai fratelli. L’organizzazione del tempo riempito di cose da fare è avvertito come una delle radici degli infiniti disagi ecclesiali, familiari e più in generale esistenziali. Ci si chiude alla bellezza e alla gratuità delle relazioni, che richiedono invece tempo.
- troppa connessione tecnologica e troppa immersione nei nuovi media rendono marginali l’annuncio verbale o scritto del Vangelo, l’appartenenza in carne e ossa alla comunità cristiana, il gusto di imparare la sapienza della fede (il sapere è dedotto da Google). La pervasività di questi mezzi concorre all’irrilevanze di autorevolezza della parola della fede. Le figure in autorità non sono quelle dei testimoni della fede o dei genitori, ma quelle enfatizzate dai media. Troppo sapere e troppe informazioni hanno preso il posto del Vangelo.
- troppe Messe e troppo schiacciamento sulle Messe anziché sull’evangelizzazione. La Messa non può continuare ad essere l’unica offerta pastorale. Al prete continuano ad essere richieste tante Messe e tanti adempimenti gestionali.
- una paura inibente di incontrare realtà difficili (i giovani “lontani”, ad esempio) o anche soltanto nuove. Questa paura determina un’eccessiva chiusura difensiva nelle attività intraecclesiali, e una sostanziale lontananza dalle questioni sociali, politiche o amministrative, non sentite come parte della missione del cristiano.
B)- Assenza di qualcosa che é “in meno” rispetto alle esigenze del buon funzionamento dell’organismo (sottraendo ossigeno, sangue, enzimi… come avviene per carenza di elementi vitali come acqua, cibo, vitamine…)
- il deficit più segnalato è senz’altro quello della conoscenza, della fraternità e della comunione tra di noi. Non c’è scheda che non registri in termini preoccupati una mancanza di familiarità, di senso di appartenenza. Gruppi e realtà ecclesiali vengono descritti sempre come chiusi tra di loro, tranne forse le eccezioni rappresentate dai gruppi caritativi. Ogni realtà pare procedere in ordine sparso: per contrasto lo si costata anche dall’entusiasmo che gli incontri di verifica hanno suscitato in chi ci ha partecipato, quasi che l’esperienza del pregare insieme e del parlarsi al di fuori del solito gruppo di appartenenza fosse il dono (o la realtà) cercata e non mai trovata.
- manca una prospettiva diocesana che faccia unità: si intuisce in più schede che il servizio dell’unità dev’essere sovra-parrocchiale e anche sovra-prefettizio. Questo servizio dovrebbe porsi in termini sussidiari e non sostitutivi o concorrenziali con le attività e i servizi che già svolgono le parrocchie. Si sente l’esigenza di avere degli obiettivi comuni, che ci facciano camminare insieme.
- alcune schede segnalano una sorta di endemica mancanza di simpatia/fraternità tra preti. E questo si vede.
- manca il tempo per l’impegno nelle attività pastorali (anche in quelle che pure saprebbero necessarie) e la cura delle relazioni: c’è un certo analfabetismo affettivo, un’incapacità di offrire amicizia (specie ai giovani)
- mancano tempi di preghiera (qualcuno aggiunge: “manca chi insegni a pregare”) e più a fondo ancora, mancano tempi di formazione sul/al Vangelo. L’esigenza della formazione di fede è molto segnalata: sia come intelligenza della fede stessa, sia di tutti quegli aspetti culturali e sociali che fanno l’ambiente umano nel quale viviamo e che appare respingere o ritenere inutile la fede e Gesù Cristo. C’è consapevolezza di non saper trarre dalla fede e dal Vangelo le risposte e gli orientamenti per la vita in un contesto come il nostro, fattosi plurale, indifferente e qualunquista. Manca nella nostra coscienza di fede un’antropologia cristiana davvero integrale. Non appare nelle schede l’idea che il cammino di fede consista in una formazione permanente, che dura tutta la vita: a parte alcune parrocchie, nelle quali questa scelta è stata fatta e ha portato buoni frutti e un risveglio anche nella partecipazione.
Mancano analisi kairologiche (cioè fatte dal punti di vista della fede e con categorie di fede) del territorio che organizzino una risposta comune tra parrocchie di uno stesso territorio.
- manca spesso un ricambio di responsabili delle attività: sia generazionale (siamo in presenza di strutture pastorali in genere costituitesi alcuni decenni fa: quando le generazioni che le hanno iniziate non ci saranno più, probabilmente spariranno anche le attività) che di durata (molte schede segnalano la radice delle malattie spirituali comunitarie nel fatto che alcuni laici siano da sempre responsabili di alcuni settori, e questo genera dei feudi – con tutte le rivalità del caso).
- mancano i poveri come parte della comunità e non solo come destinatari dei servizi caritativi. Bisogna aggiungere che la prassi caritativa è una delle realtà di cui tutti sono grati.
- in alcune comunità la mancanza dei giovani è un problema grave.
- mancano rapporti con l’Amministrazione circa i problemi cittadini che ci si trova a dover affrontare: siamo un popolo e invece ci comportiamo come un club privato. Manca l’offerta di una piattaforma di dialogo/confronto comune sui problemi che ha la gente. E se queste piattaforme ci sono, non partecipiamo.
- in alcune parrocchie (specie del settore Nord) manca la presenza fisica dei parrocchiani, che sono pendolari. La povertà territoriale incide anche sulla composizione della parrocchia e sulle attività che essa può fare.
C)- malattie autoimmuni (quando per difendersi da qualcosa, l’organismo produce risposte immunitarie anomale dirette contro componenti dell’organismo stesso, determinando alterazioni funzionali, come nel diabete o nelle sclerosi…)
- il pettegolezzo, la mormorazione e la critica malevola e vigliacca; di converso, la paura paralizzante delle critiche degli altri
- il disprezzo verso altre esperienze di fede diverse dalla nostra; l’appartenenza troppo rigida al proprio gruppo, che provoca fratture e mancanza di comunione; il senso di sconfitta quando le nostre attività non hanno funzionato
- la comunicazione difettosa o addirittura mancante tra di noi; assuefazione all’indifferenza e alla solitudine, interpretate come rispetto e desiderio di non disturbare
- introversione e incapacità di fare il primo passo, di riconoscere bellezza e interesse al di fuori di noi;
- autoreferenzialità dei percorsi formativi;
- enfatizzazione degli aspetti socio-caritativi della parrocchia, ridotta a sede di servizi di questo tipo, dove la fede non c’entra
- l’attaccamento ai metodi pastorali del passato, al “si è sempre fatto così” (si perpetua un’identità, senza comprendere che lo scopo della nostra vita è fuori di noi, non nel preservare noi stessi)
- disinteresse verso le iniziative diocesane, sentite come “altro” rispetto alla pastorale della parrocchia
- per i bisogni fondamentali della vita – bisogni di senso, di luce, di riconciliazione – i cristiani vanno dallo psicologo piuttosto che in parrocchia.
D)- decadimento funzionale (quando uno o più sistemi nell’organismo vengono meno alla propria funzione: Alzheimer, demenza…).
- il coinvolgimento in parrocchia più per risolvere problemi personali (solitudine, bisogno di gratificazioni personali) piuttosto che per vivere il vangelo
- la parrocchia diventata un’azienda di servizi, che moltiplica le attività senza corrispondente crescita spirituale; questo chiudersi/limitarsi alle attività provoca stanchezza e aridità; il parroco ridotto a manager, esecutore di progetti. L’impostazione parrocchiale com’è, non sostiene la vita spirituale, né del prete né dei laici
- quando le persone vengono viste solo come risorse-lavoro
- non c’è un senso trascendente in quello che facciamo
- la consegna di noi stessi agli algoritmi che plasmano le nostre identità
- una grande stanchezza: la vita si è fatta sempre più intensa e complicata
- difficile collaborazione con i religiosi
- non c’è rapporto strutturale/strutturato con il territorio
- non si ritiene per niente utile quello che si fa
- invecchiamento/spopolamento del Centro che ha bisogno di essere pastoralmente riconfigurato
- la crisi non tocca un aspetto o l’altro della fede, ma la possibilità stessa della fede
- approccio semplicistico (culturalmente debole) alla complessità nella quale siamo immersi
- gli scandali dei pastori provocano disorientamento e allontanamento, specie dei giovani
- Alzheimer spirituale: ossia la dimenticanza della storia della salvezza, della storia personale con il Signore, del “primo amore”.
 Le risposte di Papa Francesco (da Vatican News): 
Solo il Signore può guarire
Il Pontefice, dopo aver fatto i complimenti per il lavoro svolto, risponde a braccio alle domande rivolte da mons. Angelo De Donatis, vicario del Papa per la diocesi di Roma. Quattro questioni che con verità chiedono a Francesco di illuminare la strada e guarire le malattie. Il Pontefice si sofferma sulla parola “radice”, la meta ultima che va sanata, e suggerisce un percorso: non pensare di poter guarire da soli, “serve qualcuno che mi aiuti: il primo – afferma - è il Signore”; poi cercare conforto in chi ha il carisma dell’accompagnamento spirituale, non solo un prete ma anche un laico, un anziano o un giovane. Infine leggere qualcosa che aiuti e guardare avanti:
Parlare con Gesù, parlare con un altro, parlare con la Chiesa. E credo che questo sia il primo passo. Poi, aiuterà leggere qualcosa su quell’argomento. Ma sempre guardare avanti: ma, io posso fare tutto questo. Pregare, parlare con un altro, leggere … ma l’unico che può guarire è il Signore. L’unico.La pietà popolare è il sistema immunitario della ChiesaRispondendo ad una domanda sull’individualismo che isola il corpo ecclesiale, Francesco parla del “guardarsi l’ombelico”, del guardare se stessi, del fascino delle novità che però allontanano dal cuore, dal vero centro. Il ricordo va allora a Buenos Aires con le suggestioni orientalistiche negli esercizi spirituali, il Papa parla della necessità di uno schiaffo per rientrare nella realtà, dello gnosticismo nella Chiesa e infine dell’urgenza di guardare alla pietà popolare come già profetizzava Paolo VI:
“Come possiamo andare oltre le appartenenze esclusive e rassicurarci del nostro gruppo?”. Padre, sempre esaminare questo: “Io vado con il popolo di Dio, ma migliorando, ma sempre voglio una Chiesa con popolo, una Chiesa con Gesù Cristo incarnato, un Gesù Cristo con Dio?”. Il cammino contrario. L’unico modo: la comunità ci guarisce, la spiritualità comunitaria ci guarisce.L’armonia dello Spirito Santo, il più valido aiutoSoffermandosi sul tempo che divora tutte le attività della parrocchia, Francesco ricorda che la mancanza più grande è l’armonia, domandarsi se c’è nella propria comunità e nella famiglia diocesana. Sottolinea che lo Spirito Santo che in passato ha creato il primo disordine della Chiesa, è il responsabile dell’armonia, qualcosa di non statico, perché  non è un ordine, è dinamismo, è cammino.
Ma io dirò tre punti concreti che possono aiutare a trovare questa armonia. Prima, la Persona del Signore, Cristo, il Vangelo in mano. Dobbiamo abituarci a leggere un passo del Vangelo tutti i giorni: ogni giorno un passo del Vangelo. Per entrare a conoscere meglio Cristo. Secondo, la preghiera: ma se tu leggi il Vangelo, subito ti viene la voglia di dire qualcosa al Signore, di pregare, fare un dialogo con Lui, breve … anche la preghiera … E terzo, le opere di misericordia. Con questi tre punti credo che questo senso di fastidio sparisce e andiamo verso l’armonia che è tanto grande. Ma sempre chiedere la grazia dell’armonia nella mia vita, nella mia comunità e nella mia diocesi.
Giovani che cercano radiciL’ultima domanda riguarda i giovani. Quale il grido d’aiuto che da loro si leva: gli chiedono i parroci romani. Il Papa ricordando l’esperienza del presinodo nel qual è stato prodotto un documento “bellissimo, forte e interessante”, sottolinea il pericolo dell’alienazione dalla realtà. Sottolinea la difficoltà per loro del contatto umano, del loro costante attaccamento al telefonino.
Dobbiamo fare atterrare i giovani nel mondo reale. Toccare la realtà. Senza distruggere le cose buone che può avere il mondo virtuale, perché servono, no? Ma è interessante, questo. La realtà, la concretezza.Le opere di misericordia – afferma – aiutano a renderli concreti, a trovare le loro radici attraverso il dialogo con gli anziani perché è necessario che solo guardando da dove si viene si può andare avanti.
Verità per riprendere il camminoIl Pontefice, nel suo discorso, elogia la crescita nella verità pur riconoscendo che da qui viene lo “scoraggiamento” e la “frustrazione” ma “soprattutto la consapevolezza che il Signore non ha smesso di usarci misericordia: in questo cammino Egli ci ha illuminati, ci ha sostenuti, ha avviato un percorso per certi versi inedito di comunione tra di noi, e tutto questo perché noi possiamo riprendere il nostro cammino dietro a Lui”.
Una nuova alleanzaUn non-popolo dunque chiamato ad una nuova alleanza, rivivere in noi l’Esodo, chiedersi chi è oggi il Faraone che ci rende schiavi di altri poteri e preoccupazioni, quali le schiavitù che ci hanno reso sterili.
Sarà necessario dedicare del tempo perché, riconosciute umilmente le nostre debolezze e avendole condivise con gli altri, possiamo sentire e fare esperienza di questo fatto: c’è un dono di misericordia e di pienezza di vita per noi e per tutti quelli che abitano a Roma. Questo dono è la volontà buona del Padre per noi: noi singoli e noi popolo.
Uscire dai noi stessi e dalle certezzeFrancesco non manca di franchezza: sa che nelle parrocchie vige una generale stanchezza, che si è persa la direzione.
Forse ci siamo chiusi in noi stessi e nel nostro mondo parrocchiale perché abbiamo in realtà trascurato o non fatto seriamente i conti con la vita delle persone che ci erano state affidate (quelle del nostro territorio, dei nostri ambienti di vita quotidiana), mentre il Signore sempre si manifesta incarnandosi qui e ora, cioè anche e precisamente in questo tempo così difficile da interpretare, in questo contesto così complesso e apparentemente lontano da Lui.E’ in questo ambito che si gioca la sfida di uscire da noi stessi, dalla “ipertrofia dell’individuo”: l’io che non diventa persona, che si isola dagli altri. Necessario uscire anche dalle certezze – “le nostre pentole”: dice il Papa – “i nostri gruppi, le nostre piccole appartenenze, che si sono rivelate alla fine autoreferenziali, non aperte alla vita tutta intera”. Bene quindi che questa situazione sia emersa e ci abbia stancato, ci spinga ad uscire grazie alla chiamata di Dio.
Occorre ascoltare senza timore la nostra sete di Dio e il grido che sale dalla nostra gente di Roma, chiedendoci: in che senso questo grido esprime un bisogno di salvezza, cioè di Dio? Come Dio vede e ascolta quel grido? Quante situazioni, tra quelle emerse dalle vostre verifiche, esprimono in realtà proprio quel grido!A Roma la rivoluzione della tenerezzaE’ qui che Francesco si fa medico, chiedendo alla sua diocesi di intraprendere un’altra tappa del cammino della Chiesa di Roma: “un nuovo esodo, una nuova partenza, che rinnovi la nostra identità di popolo di Dio, senza rimpianti per ciò che dovremo lasciare”.
Occorrerà ascoltare il grido del popolo, come Mosè fu esortato a fare: sapendo così interpretare, alla luce della Parola di Dio, i fenomeni sociali e culturali nei quali siete immersi. Cioè imparando a discernere dove Lui è già presente, in forme molto ordinarie di santità e di comunione con Lui: incontrando e accompagnandovi sempre più con gente che già sta vivendo il Vangelo e l’amicizia con il Signore. Gente che magari non fa catechismo, eppure ha saputo dare un senso di fede e di speranza alle esperienze elementari della vita.Persone anonime che interpretano il loro lavoro come un servizio, senza mandati particolari, che stanno preparando l’avvenire di Dio. Farsi nuovamente popolo:
Fenomeni come l’individualismo, l’isolamento, la paura di esistere, la frantumazione e il pericolo sociale…, tipici di tutte le metropoli e presenti anche a Roma, hanno già in queste nostre comunità uno strumento efficace di cambiamento. Non dobbiamo inventarci altro, noi siamo già questo strumento che può essere efficace, a patto che diventiamo soggetti di quella che altrove ho già chiamato la rivoluzione della tenerezza. Dare nuovi fruttiUna rivoluzione arricchita dalle sensibilità – dice il Papa – dagli sguardi, dalle storie di molti. Una umanità risanata e riconciliata con un nuovo sguardo pastorale che risponda ai bisogni dei romani, azioni “più creative e più liberanti” per i sacerdoti, per quanti più direttamente collaborano alla missione e all’edificazione della comunità cristiana.
Non abbiate paura di portare frutto, di farvi “mangiare” dalla realtà che incontrerete, anche se questo “lasciarsi mangiare” assomiglia molto a uno sparire, un morire. Alcune iniziative tradizionali forse dovranno riformarsi o forse addirittura cessare: lo potremo fare soltanto sapendo dove stiamo andando, perché e con Chi.
Non vuol dire – evidenzia  Francesco – non produrre più niente ma “innestare virgulti nuovi: innesti che daranno frutti nuovi”. 
Vedi anche: ACIstampaAgenzia SIR; Avvenire; TV2000.

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