"Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso" (A. Maggi)
Come racconta su ilLibraio.it il biblista Alberto Maggi, da sempre gli uomini (anche nella Chiesa) si lamentano del presente, esattamente come oggi, e fantasticano con nostalgia di un bel tempo passato... Ma si può vivere serenamente l'oggi e andare incontro fiduciosi al futuro, confidando in quel Gesù che assicura: “Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso" (Mt 6,34)
“Di questi tempi” oppure “al giorno d’oggi” sono espressioni che precedono sempre qualcosa di negativo, sia che si parli dei giovani come della politica, della famiglia, del lavoro e così via (la moda d’oggi, le canzoni di oggi). Si rimpiangono i “bei tempi”, che sono sempre quelli “di una volta”, mai del presente, con tutto il corollario di nostalgia per tempi felici, paradisiaci, che non torneranno più, come la moda di una volta, le canzoni di una volta, la gioventù e persino la vecchiaia, che non è più quella che era, perché in passato i vecchi, ovviamente quelli “di una volta”, erano modelli di saggezza e di sapienza.
Se però si va a ritroso nel tempo, alla ricerca di quando, in che epoca, i tempi erano stati buoni, positivi, si vede, sorprendentemente, che da sempre gli uomini hanno vissuto con disagio il presente (“non si va più avanti”), hanno avuto paura del futuro (“dove andremo a finire”) e hanno guardato con nostalgia al passato (“eh, una volta sì che…”). Così si corre il rischio di trascorrere la propria vita senza scorgere il bello che invece c’è e che solo le generazioni successive scopriranno con rimpianto.
La storia dimostra che migliaia di anni fa ci si lamentava della moda, del traffico e della gioventù esattamente come si fa oggi. In un papiro egizio di ben cinquemila anni fa si legge: “Nemmeno i tempi sono più quelli di una volta. I figli non seguono più i genitori” e in un frammento d’argilla babilonese di tremila anni fa è scritto: “Questa gioventù è guasta fino al midollo; è cattiva, irreligiosa e pigra. Non sarà mai come la gioventù di una volta. Non riuscirà a conservare la nostra cultura”.
Nel settimo secolo a.C., il profeta Michea si lamentava che “il figlio insulta suo padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera” (Mi 7,6). Platone, circa quattro secoli prima di Cristo, deplora il padre che “si abitua a rendersi simile al figlio e a temere i figlioli, e il figlio simile al padre e a non sentire né rispetto né timore dei genitori, per poter essere libero… I giovani si pongono alla pari degli anziani e li emulano nei discorsi e nelle opere, mentre i vecchi accondiscendono ai giovani e si fanno giocosi e faceti, imitandoli, per non passare da spiacevoli e dispotici” (Rep. VIII, 562‑563).
Marziale, poeta spagnolo del primo secolo, vissuto a Roma, si doleva che in questa città, diventata troppo grande, era faticoso vivere e non si sopportavano più i rumori del traffico (Epigr. XI, 57,5). Nel secondo secolo, il poeta Giovenale si lamentava anche lui dei mali di Roma, del rumore, dei profughi (!), della delinquenza, del costo della vita e rimpiangeva i bei tempi del passato: “Felici i padri dei nostri bisavoli! Beati i tempi dei re e dei tribuni quando bastava a Roma una prigione” (Sat. III, 302‑314).
Anche nella Chiesa, che pure era stata chiamata dal Cristo a essere la testimone visibile della buona notizia e ad avere piena fiducia nell’azione del suo Signore, la visione negativa del presente era comune in larghi settori della stessa. Basti pensare al focoso Pietro l’Eremita, il quale predicando la necessità della prima crociata, nel 1095, diceva: “Il mondo sta attraversando un periodo tormentato. La gioventù di oggi non pensa più a niente, pensa solo a se stessa, non ha più rispetto per i genitori e per i vecchi; i giovani sono intolleranti di ogni freno, parlano come se sapessero tutto. Le ragazze poi sono vuote, stupide e sciocche, immodeste e senza dignità nel parlare, nel vestire e nel vivere”. Gli ultraconservatori hanno sempre vissuto le novità del presente come un pericolo. Forse i nostalgici odierni si ritrovano d’accordo con questo fosco quadro del mondo contenuto nell’affermazione del Sinodo dei vescovi italiani riuniti a Pistoia nell’anno 1794: “In questi ultimi secoli si è prodotto un generale offuscamento sulle verità di maggiore importanza, che riguardano la religione e che sono a base della fede e della dottrina morale di Gesù Cristo” (Cost. Auctorem Fidei, Denzinger, 2601). Eppure il papa di allora, Pio VI, condannò come eretica questa visione pessimistica, nonostante che i tempi fossero veramente brutti: Pio VI è uno dei pochi papi che hanno sperimentato la prigionia e che, travolto dalla grande bufera della Rivoluzione francese, morì deportato.
Secoli fa, quindi, si lamentavano del presente esattamente come oggi e fantasticavano di un bel tempo passato… quando appunto a Roma una prigione bastava e avanzava! La scontentezza con la quale si guarda e si vive il presente si è proiettata anche nella spiritualità e ha esercitato il suo influsso in certe devozioni intrise di pessimismo, così contrarie alla pienezza della gioia desiderata e augurata da Gesù (Gv 15,11; 17,13). Già nell’Antico Testamento s’insegnava che sragionano quanti pensano che “la nostra vita è breve e triste”, perché “non conoscono i misteriosi segreti di Dio” (Sap 2,1.22). È proprio il non conoscere il disegno di Dio quel che ha trasformato la vita da dono del Signore in penoso esilio. Tuttavia la storia dell’umanità, per usare le parole di Ireneo di Lione, “non è quella di una penosa risalita dopo una caduta, bensì un cammino provvidenziale verso un futuro pieno di promesse” (Adv. Haer., lib. IV, 38). Il racconto della creazione (Gen 1-3), al quale tante volte ci si rifà come ad un paradiso perduto, non è il rimpianto per un eden irrimediabilmente scomparso, ma una profezia per il mondo da realizzare che gli uomini sono chiamati a costruire. L’essenza stessa della creazione è di essere nuova e di manifestarsi sempre in una maniera inedita, mai ripetitiva. Per questo il Vangelo si apre con un invito ad aprirsi al nuovo, a non mettere il vino nuovo negli otri vecchi, ma “vino nuovo in otri nuovi” (Mt 9,17), altrimenti, mette in guardia Gesù, “nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: il vecchio è gradevole!” (Lc 5,39). La dinamica della vita è quella di “ricondurre i cuori dei padri verso i figli” (Lc 1,17) e non quello dei figli verso i padri (Ml 3,24). È il vecchio che deve aprirsi ed accogliere il nuovo, non il contrario.
Lasciando da parte un passato che è bello solo perché è passato, quindi in parte dimenticato o idealizzato, si può vivere serenamente il presente e andare incontro fiduciosi al futuro, confidando in quel Gesù che assicura: “non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso” (Mt 6,34).