Eucarestia. INDEGNI DELLA CENA DI GESU' MA SEMPRE ACCOLTI (E. Bianchi)
di Enzo Bianchi, Jesus, novembre 2016
Uno dei temi più incandescenti nell’odierno dibattito ecclesiale è quello relativo a chi possa prendere parte alla tavola eucaristica. L’attuale disciplina cattolica a riguardo è rigorosa: né i non cattolici – se non in casi particolari – né quelli che vivono contraddizioni pubbliche al Vangelo possono parteciparvi. Da questa norma si ricava l’esclusione di chi vive nel peccato e si ricorda che già Paolo ammoniva i cristiani di Corinto a vigilare sulla loro celebrazione eucaristica, perché se non sapevano discernere il corpo di Cristo avrebbero mangiato e bevuto la propria condanna (cfr. 1Cor 11,28-29). Questa istanza va presa sul serio: per l’Apostolo chi non discerne il corpo del Signore nei poveri, nelle membra del corpo di Cristo, non mangia la cena del Signore, disprezza la Chiesa di Dio e fa arrossire i poveri.
Ma l’esortazione di Paolo non va intesa come un divieto rivolto a chi è indegno moralmente, perché tutti i cristiani sono e restano peccatori, anche quando si accostano all’Eucaristia. Non si tratta di una dignità che dipende dall’essere irreprensibili, ma di un discernimento (diákrisis) del corpo del Signore nella realtà quotidiana. Chi va alla cena del Signore si sente indegno fino all’ultimo momento («Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa…»), vi si accosta come un peccatore che confida nella misericordia di Dio, è convinto che l’Eucaristia non sia un premio per i buoni, ma un sostegno per i deboli e un viatico per i peccatori (come ha affermato già Benedetto XVI prima di Francesco).
Al riguardo, non possiamo dimenticare che la tavola del Signore, inaugurata da Gesù nell’Ultima cena, annoverava dei commensali non certo degni: vi partecipavano Giuda, che l’aveva tradito; Pietro, che l’avrebbe rinnegato poco dopo; gli altri apostoli che, consapevoli dell’ora di Gesù, discutevano tra loro su chi fosse il più grande e che, per paura, l’avrebbero tutti abbandonato. Come Gesù non aveva disdegnato di sedere alla tavola dei peccatori, così la sua tavola è luogo di accoglienza di tutti, degni e indegni, spazio di inclusione in vista della comunione nella quale la santità del Signore Gesù incontra il peccato dei discepoli e si diffonde in loro, purificandoli. Per questo offre loro il calice del suo sangue versato proprio per loro («per voi», dice esplicitamente) e per le moltitudini in remissione dei peccati.
Del resto, questa è la coscienza della grande tradizione della Chiesa indivisa, come mostra il dialogo che precede la comunione eucaristica tra il presbitero e il popolo nella liturgia bizantina: «Le cose sante sono per i santi». Fanno eco due tra le innumerevoli testimonianze patristiche, una orientale e una occidentale: «Non astenetevi dalla comunione ai santi misteri, non privatevi dell’eucaristia per esservi macchiati del peccato» (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche V,23); e «Ogni volta che tu bevi al calice, ricevi la remissione dei peccati e ti inebri di Spirito» (Ambrogio di Milano, I sacramenti V,3,17).
L’Eucaristia è davvero la tavola del dono, della gratuità dell’amore che non deve essere meritato: anche nell’accesso a questa tavola Gesù fa cadere i muri, abbatte le barriere tra puri e impuri, annulla le divisioni. Ma a una condizione imprescindibile e assoluta: che chi va a questa tavola vi acceda come un mendicante e sia consapevole dell’azione che compie e del grande dono che riceve. Non adeguata è la domanda: «C’è qualcuno tra di noi che si sente degno?». Chiediamoci piuttosto: «C’è qualcuno che, discernendo il corpo e il sangue del Signore, ha sete di essere salvato?». Perché la tavola del Signore è pronta e lui stesso ci invita: «Venite a me, stanchi e oppressi, malati e peccatori, e io vi darò la vita!».
Uno dei temi più incandescenti nell’odierno dibattito ecclesiale è quello relativo a chi possa prendere parte alla tavola eucaristica. L’attuale disciplina cattolica a riguardo è rigorosa: né i non cattolici – se non in casi particolari – né quelli che vivono contraddizioni pubbliche al Vangelo possono parteciparvi. Da questa norma si ricava l’esclusione di chi vive nel peccato e si ricorda che già Paolo ammoniva i cristiani di Corinto a vigilare sulla loro celebrazione eucaristica, perché se non sapevano discernere il corpo di Cristo avrebbero mangiato e bevuto la propria condanna (cfr. 1Cor 11,28-29). Questa istanza va presa sul serio: per l’Apostolo chi non discerne il corpo del Signore nei poveri, nelle membra del corpo di Cristo, non mangia la cena del Signore, disprezza la Chiesa di Dio e fa arrossire i poveri.
Ma l’esortazione di Paolo non va intesa come un divieto rivolto a chi è indegno moralmente, perché tutti i cristiani sono e restano peccatori, anche quando si accostano all’Eucaristia. Non si tratta di una dignità che dipende dall’essere irreprensibili, ma di un discernimento (diákrisis) del corpo del Signore nella realtà quotidiana. Chi va alla cena del Signore si sente indegno fino all’ultimo momento («Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa…»), vi si accosta come un peccatore che confida nella misericordia di Dio, è convinto che l’Eucaristia non sia un premio per i buoni, ma un sostegno per i deboli e un viatico per i peccatori (come ha affermato già Benedetto XVI prima di Francesco).
Al riguardo, non possiamo dimenticare che la tavola del Signore, inaugurata da Gesù nell’Ultima cena, annoverava dei commensali non certo degni: vi partecipavano Giuda, che l’aveva tradito; Pietro, che l’avrebbe rinnegato poco dopo; gli altri apostoli che, consapevoli dell’ora di Gesù, discutevano tra loro su chi fosse il più grande e che, per paura, l’avrebbero tutti abbandonato. Come Gesù non aveva disdegnato di sedere alla tavola dei peccatori, così la sua tavola è luogo di accoglienza di tutti, degni e indegni, spazio di inclusione in vista della comunione nella quale la santità del Signore Gesù incontra il peccato dei discepoli e si diffonde in loro, purificandoli. Per questo offre loro il calice del suo sangue versato proprio per loro («per voi», dice esplicitamente) e per le moltitudini in remissione dei peccati.
Del resto, questa è la coscienza della grande tradizione della Chiesa indivisa, come mostra il dialogo che precede la comunione eucaristica tra il presbitero e il popolo nella liturgia bizantina: «Le cose sante sono per i santi». Fanno eco due tra le innumerevoli testimonianze patristiche, una orientale e una occidentale: «Non astenetevi dalla comunione ai santi misteri, non privatevi dell’eucaristia per esservi macchiati del peccato» (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche V,23); e «Ogni volta che tu bevi al calice, ricevi la remissione dei peccati e ti inebri di Spirito» (Ambrogio di Milano, I sacramenti V,3,17).
L’Eucaristia è davvero la tavola del dono, della gratuità dell’amore che non deve essere meritato: anche nell’accesso a questa tavola Gesù fa cadere i muri, abbatte le barriere tra puri e impuri, annulla le divisioni. Ma a una condizione imprescindibile e assoluta: che chi va a questa tavola vi acceda come un mendicante e sia consapevole dell’azione che compie e del grande dono che riceve. Non adeguata è la domanda: «C’è qualcuno tra di noi che si sente degno?». Chiediamoci piuttosto: «C’è qualcuno che, discernendo il corpo e il sangue del Signore, ha sete di essere salvato?». Perché la tavola del Signore è pronta e lui stesso ci invita: «Venite a me, stanchi e oppressi, malati e peccatori, e io vi darò la vita!».