Omelia per la XXI domenica del Tempo Ordinario/B: "parola dura" o "parola di vita"?


Siamo arrivati alla conclusione del capitolo VI di Giovanni - dedicato a Gesù pane di vita - che ci ha accompagnato per diverse domeniche. La prima lettura aggiunge un'altra conclusione: quella del cammino dell'Esodo che Giosuè porta a compimento dopo la morte di Mosè. Le tribù di Israele devono decidere chi intendono seguire, se il Signore o altri dèi dei popoli vicini. Il popolo sceglie liberamente la fede in Dio e si impegna ad essergli fedele.

L'intero capitolo VI ha un procedimento concentrico: all'inizio Gesù si rivolge alla folla; all'interno di questa folla emergono in un secondo momento i Giudei, che mormorano; quindi l'attenzione si concentra sui discepoli e infine, all'interno del gruppo dei discepoli sui Dodici. Siamo invitati a personalizzare il nostro rapporto con il Signore Gesù e a confrontarci con queste due reazioni opposte: quella dei molti discepoli che mormorano «questa parola è dura, chi può ascoltarla?»; oppure quella di Pietro che esclama «Tu hai parole di vita eterna».

È una parola dura o una parola di vita? Entrambi i gruppi hanno ascoltato lo stesso discorso, eppure diametralmente opposta risulta la loro reazione, l'atteggiamento con il quale viene accolta.

60Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». 

L’abbandono della fede parte da un cuore indurito, incapace di ascoltare, porta a MORMORARE, a scoraggiarci e cedere alla pigrizia, alle facili scorciatoie, a SCANDALIZZARCI (cadere, inciampare sul cammino della salvezza); a pensare e agire secondo la CARNE (= la logica umana) fino a TRADIRE, “tornare indietro e non andare più con lui”.

61Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza62E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? 

63È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. 64Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».

La fede è frutto di grazia (dono del Padre), è frutto di libertà (libera adesione), frutto di scelta comunitaria «noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio»: Pietro sa che nella sua fede risuona la fede di altri, e nello stesso tempo sa che la sua stessa fede, pur così personale, ha bisogno di nutrirsi della fede più ampia di una comunità.

66Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. 

67Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». 

"Volete andarvene anche voi?". Il discorso di Gesù è effettivamente duro, non fa sconti, non cerca di assecondare le voglie degli ascoltatori, non indora la pillola. E questi non sono i soliti "nemici" (i giudei che cercano di incastrarlo e di eliminarlo), ma gli stessi discepoli, cioè coloro che hanno lasciato tutto per seguirlo. Che ne hanno fatto il loro maestro di vita.

Se non si accoglie il dono dell’Eucaristia, del Corpo di Cristo, se ci si allontana dal frequentare la Messa, ci si allontana da Dio stesso, dal ricevere la vita divina, eterna per accontentarsi di una vita mondana, legata ai piaceri immediati.

Tuttavia dopo l'allontanamento dei «molti», il gruppo dei discepoli non si polverizza, ma forma una comunità piccola ma salda e unanime. È quanto vive la Chiesa oggi: un calo di frequenza, una piccola minoranza, chiamata tuttavia ad aderire in maniera rinnovata e a formare una comunità unita nella fede e nell’amore.

68Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo?

“Da chi andremo?” Ciò che importa è rimanere con Gesù e si rimane in comunione con lui accogliendo con fede il dono del suo pane/corpo.

Tu hai parole di vita eterna 69e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». 

Coloro che se ne vanno mormorano di Gesù, ma senza dialogare con lui. Pietro invece si rivolge personalmente a Gesù con il tu della relazione personale: "Tu hai parole di vita eterna".

“Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Perché prima si crede con l’accoglienza del cuore, poi si conosce con l’intelligenza della mente: cuore e mente, insieme, per scegliere (e motivare la scelta) di seguire il Signore, l’unico che può comunicare lo Spirito della vita.



XX domenica del T.O.

Mangiamo per vivere (anche se a volte rischiamo di vivere per mangiare) e il condividere il pasto è un po' come condividere la vita, occasione entrare in comunione, in relazione. Per questo Gesù amava mangiare con tutti, anche (e forse soprattutto) con i peccatori: desidera condividere la sua vita, la vita di Dio, la vita eterna. Ma non basta mangiare insieme, ritrovarci – fuori di metafora – insieme a Messa: Gesù desidera farci mangiare la sua carne e il suo sangue: condividere la sua vita in pienezza, donarsi a noi, essere a noi intimo come chi ama al punto che “mangerebbe l’altro” di baci.

Sapienza o stoltezza? La prima lettura ci invita a scegliere la Sapienza, impersonificata da una ricca signora che offre un banchetto. Essa afferma di abitare nei cieli, presso Dio; il quale però vuole che essa scenda in mezzo ai figli dell’uomo. Dio vuole condividere la sua Sapienza con gli uomini.

Gesù è la Sapienza discesa dal cielo. Gesù offre il vero cibo della Sapienza che è lui stesso, in maniera concreta (la sua “carne e il suo sangue”) con una certa crudezza realistica che si oppone ad ogni eccesso di spiritualizzazione.

Pensiamo anche ai vari miracoli eucaristici: gli studi parlano di un coagulo umano, di un tessuto cardiaco presente nel pane, di sangue umano di gruppo AB: realmente carne e sangue!

Se all’inizio del capitolo Gesù parlava genericamente di “cibo” e poi di “pane”, adesso parla di “carne” e di “sangue”. L’uso del termine “sangue” porta il livello della durezza del discorso di Gesù al punto massimo, come si nota dalla reazione degli ascoltatori. Gli ebrei avevano la netta proibizione di nutrirsi di carne
animale con il sangue ancora in esso, perché il sangue è la vita. Il sangue dei
sacrifici andava sparso intorno all’altare come segno che si rendeva a Dio quella vita che soltanto a Lui apparteneva. Ma ora è Dio stesso, in Cristo, che offre all’uomo il suo stesso sangue, cioè la sua stessa vita, che è vita eterna, immortale.

E se domenica scorsa i Giudei mormoravano di fronte alla pretesa di Gesù di essere il pane disceso dal cielo, mentre loro ne conoscevano la realtà umana, i suoi genitori (il suo venire dalla terra come tutti), oggi la mormorazione si aggrava e diviene un «discutere aspramente» di fronte alla pretesa ancora più forte di Gesù di dare la propria carne da mangiare per la vita del mondo.

Nutrirsi della carne di Gesù e bere il suo sangue dona l'intimità con il Verbo incarnato (6,56), il possesso della vita eterna (6,53), la risurrezione nell'ultimo giorno (6,54), l'immortalità (6,58). Chi riceve con fede il corpo e il sangue di Cristo nell'eucaristia, rimane in Gesù e questi dimora in lui (6,56).

Gesù ripete più volte l’invito a cibarsi di lui: l’insistenza indica quasi un appello, un desiderio di poter entrare in intimità con noi, di condividere con noi il suo rapporto col Padre, di farci entrare in questa intimità e vita divina.

Ma se è necessario partecipare al BANCHETTO offerto da Dio accogliendo con FEDE il CIBO prezioso che ci viene offerto gratuitamente, San Paolo ci esorta a fare la nostra parte, a rendere coerente il nostro modo di vivere: “Non comportatevi da stolti, ma da saggi”: è necessario mettersi in ascolto della volontà di Dio, cosa impossibile se siamo in preda all’alcol. Al contrario, Dio fa udire la sua voce nei cuori inebriati dallo Spirito, nella comunità unita dalla preghiera che inneggia al Signore con canti di ringraziamento e di lode.

La sapienza, sembra dire Paolo ai fedeli di Efeso, non è una dote umana, ma un dono che solo Dio può dare e che nasce sempre dall'ascolto della Parola, dall'unione fraterna costruita dall'unica lode a Dio e da una vita vivificata dallo Spirito Santo.

Ferragosto o Assunzione di Maria?

Il termine Ferragosto deriva dal latino feriae Augusti (riposo di Augusto): festività istituita dall'imperatore Augusto nel 18 a.C. La Chiesa ha cristianizzato questa (come tante altre) festa pagana. Oggi assistiamo alla ripaganizzazione di questa festa con i suoi riti e i suoi eccessi.

Ma noi siamo qui a celebrare l’Assunzione di Maria. Cioè?

Di Maria i Vangeli ci dicono poche cose: il verginale concepimento di suo Figlio, nostro Signore, la visita alla cugina Elisabetta proposta proprio oggi per mettere in evidenza la “beatitudine” di Maria, la sua umiltà, il suo amore servizievole, la sua grandezza (cose apparentemente in contraddizione, ma che esprimono come in Dio e per Dio la vera grandezza consista nell’amore concreto); altri “piccoli” episodi nella crescita di Gesù e poi la sua presenza umile, in secondo piano, silenziosa nella Chiesa nascente, con i primi discepoli, sotto la Croce (nel dolore più grande che una madre possa sperimentare) e ancora nella Pentecoste. Poi più nulla.

Qual è stato il destino di Maria? Questa festa, di origini antiche, ma fissata con un dogma solo nel 1950, risponde alla domanda parlando di ASSUNZIONE IN CIELO, IN CARNE e in Spirito di Maria: è la sua Pasqua, la sua Resurrezione, a cui seguono tutt’ora le sue apparizioni in mezzo a noi (come a Lourdes, a Fatima e in tanti altri luoghi e tempi). Non sappiamo se sia morta o se si sia solo addormentata (gli Ortodossi festeggiano la “dormizione” di Maria), sicuramente la sua tomba è vuota, perché anche il suo corpo è in cielo.

Oltre a parlarci della grandezza di Maria, questa festa ci parla del destino di tutti noi, chiamati a Risorgere in Cristo. Ci invita a guardare al Cielo, a guardare in alto, a sperare nella Vita Eterna. Maria è la garanzia che le promesse del Figlio si sono realizzate già in Lei e che possiamo, come suoi Figli, sperare che si realizzino anche per i nostri cari e per noi stessi.

Maria Assunta in Cielo è garanzia della sua potente intercessione: è nostra Madre, è accanto a Dio, ci vuole con Lei.

Una famosa icona, mostra il cadavere di Maria e Gesù, vestito con vesti regali, che la guarda con tenerezza e al contempo tiene tra le braccia una bambina avvolta in fasce: è Maria. Perché non si muore mai, piuttosto si nasce due volte ("Siamo nati e non moriremo più", diceva la beata Chiara Corbella) e la seconda volta è per sempre. La morte non è una fine, ma un nuovo inizio e con la morte ci ritroviamo nelle braccia di Gesù. Mentre nella vita terrena era Maria che teneva fra le sue braccia Gesù bambino, ora, con la morte, è Gesù, il Figlio, che tiene in braccio la madre.

L’ASSUNZIONE IN CIELO di Maria in corpo e anima, dice una cosa simile: la morte non ha interrotto la vita di Maria, ma l'ha introdotta nella pienezza della dimensione divina. Questa festa ci viene a ricordare che, sebbene siamo fatti di terra e siamo tutti mortali, il nostro destino non è la terra, bensì il cielo, è vivere per sempre con Dio.

Per non rischiare di porre Maria su di un piedistallo che la divinizza e ci fa dimenticare la sua umanità, le letture ci richiamano alla sua esperienza terrena per la quale Lei è beata non tanto in quanto Madre di Dio, ma in quanto sua discepola fedele che ha imparato ad ascoltare la parola di Dio e a metterla in pratica. L’immagine dell’Ascensione in cielo viene richiamata in terra dalla “salita sui monti” fatta per andare a trovare la cugina Elisabetta. Abbiamo bisogno di metterci in cammino, di metterci al servizio di coloro che possono aver bisogno di noi, ma soprattutto di condividere la nostra esperienza spirituale con chi ha incontrato Dio nella sua vita. Si potrebbe quasi dire che quell’incontro è la prima immagine che i Vangeli ci offrono della Chiesa: due donne si incontrano per ringraziare il Signore del dono che hanno ricevuto. E ci insegnano anche a pregare: la preghiera è anche ringraziamento, lode a Dio per quanto ci dona, per il suo amore, il suo perdono, la sua misericordia. Nel Magnificat Maria non chiede, loda e ringrazia il Signore: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva”. Solo l’umile sa ringraziare e lodare il Signore. E lode e gratitudine danno gioia. Oggi c’è molta superbia, troppa arroganza e prepotenza in giro, che facilmente diventano contrapposizione e persino violenza. Ognuno crede di avere ragione e fa di tutto per difendere e affermare se stesso, sempre contro gli altri. Ciò avviene nella politica - e lo vediamo bene ogni giorno -, ma anche nella vita quotidiana e persino nelle nostre realtà ecclesiali. Siamo diventati incapaci di ascoltarci e trovare quell’accordo che permette di vivere insieme.

Chi è umile? Colui che sta con i piedi per terra: riconosce il proprio valore ma riconosce che è Dio a dare valore alla propria vita. Come Maria, con Maria.

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