Il "CREDO" di Salvini e il dibattito su Avvenire
La campagna elettorale della Lega ha scelto come slogan la parola "Credo" e ha tappezzato le città con questa scritta. Commenta su Avvenire il teologo don Giuseppe Lorizio che "Si fa presto a dire "credo", ma non senza conseguenze". Ha ribattuto su Avvenire lo stesso Salvini distinguendo un credo religioso (in Qualcuno) da uno laico (in qualcosa). Prima di riportare gli articoli ecco il commento breve di Avvenire posto a conclusione dell'intervento di Salvini:
Giuseppe Lorizio, nostro prezioso collaboratore, è un grande teologo e nel suo profondo commento, gentile senatore Salvini, ha anche e soprattutto ricordato che affermare 'credo', ovunque ma in particolare in un Paese di straordinaria tradizione cristiana come l’Italia, è espressione che reclama coerenza e non resta mai senza conseguenze, anche laiche, cioè civiche e civili. In particolare – aggiungo – in ordine all’accoglienza e alla tutela rispettosa della vita, che sia 'produttiva' o imperfetta o malata, assediata dalla guerra o al suo ultimo termine, nascente o migrante. È qui che si sostanzia quel «primato della persona umana» che lei richiama e che è un’idea-guida solidale davvero importante, esigente e a volte anche benedettamente scomoda. (mt)
LORIZIO:
Vedere la parola «credo» sui manifesti elettorali di una o più città è certamente singolare e interessante. Del resto, non è difficile pensare che dietro la scelta di un leader politico attento agli umori dei molti, in questo caso Matteo Salvini, vi sia un’accurata indagine sul sentire del popolo, composto di eventuali elettori. Anche per questo non possiamo non interrogarci sul senso del credere e della sua semantica nell’oggi della storia.
L’accezione è senz’altro duplice. Nel linguaggio diffuso può sembrare che, se qualcuno afferma di credere in qualcosa, in fondo stia semplicemente esprimendo la propria opinione sul tema. Gianni Vattimo racconta che interpellato da Gustavo Bontadini, il quale gli chiedeva se credesse, rispose immediatamente e semplicemente «credo di credere» (di qui un suo libro). Allora ci chiediamo: quella che segue il verbo alla prima persona è una filastrocca di opinioni, che attendono di essere vagliate nel confronto pubblico e nel dialogo politico? Oppure si tratta di una professione di fede in senso squisitamente teologico?
Nel testo si afferma che si tratta di una 'fede laica', ma anche in questo caso si può evocare il senso del 'credere' non come mera opinione, ma come adesione certa e assoluta a una serie di verità o princìpi o valori. Ed è qui il punto cruciale. Se quando dico «credo» intendo un affidamento incondizionato, allora la domanda diventa: in chi o in che cosa credo? La fede biblica, e in particolare neo-testamentaria, rivolge la propria adesione non a un cosa, come una serie di progetti e intenzioni, princìpi e valori, ma a un Chi. Si tratta di un rapporto interpersonale: io-tu. E per il credente cristiano si tratta del proprio rapporto con Gesù di Nazareth. Per questo possiamo parlare di un credere forte e di un credere debole.
E, sempre per questo, si tratta della prima persona che afferma di credere. Diventa così interessante pensare, anche nel nostro problematico contesto socio-politico, che la fede in senso forte può essere indirizzata solo a una persona (per noi il Dio di Gesù Cristo), laddove la fede in senso debole (ossia come opinione) può rivolgersi anche a delle tesi, a dei programmi a delle scelte empiriche. Allora se un leader politico sostiene sul verbo credere una serie di opinioni proprie e della sua parte, la sfida si esprime in termini di un rapporto-dibattito razionale su quelle scelte nel contesto in cui esse si propongono. E qui entra in campo la «ragione storica e politica», che tutti siamo chiamati ad esercitare, onde configurare la nostra opinione in rapporto alle prossime elezioni. Pertanto, non si può in alcun modo intendere un 'credo' politico in senso religioso o cristiano. E fin qui ci siamo espressi su quella che in teologia si denomina la fides qua creditur, cioè l’atto di fede.
Certamente diventa fondamentale la fides quae creditur, ossia i contenuti di tale atto di fede. In senso forte e cristiano il verbo credere va riferito alla persona di Gesù, in senso debole e laico a quello per cui un soggetto gioca la propria esistenza nell’impegno intramondano e sociale. Confondere i due ambiti può risultare estremamente pericoloso e fuorviante. Anche in questa circostanza ci viene incontro un passaggio, suggestivo e insieme profondo, del famoso Racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ëv, dove all’imperatore universale, che domanda ai cristiani: «Cosa posso fare ancora per voi? Strani uomini!
Che volete da me? Io non lo so. Ditemelo dunque voi stessi, o cristiani abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi, condannati dal sentimento popolare; che cosa avete di più caro nel cristianesimo?», lo starec Giovanni, «simile a un cero candido», rispose: «Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel Cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità. Da te, o sovrano, noi siamo pronti a ricevere ogni bene, ma soltanto se nella tua mano generosa possiamo riconoscere la santa mano di Cristo. E alla tua domanda che puoi fare tu per noi, eccoti la nostra precisa risposta: confessa, qui ora davanti a noi, Gesù Cristo Figlio di Dio che si è incarnato, che è risuscitato e che verrà di nuovo; confessalo e noi ti accoglieremo con amore».
Il grande imperatore aveva un progetto certamente condivisibile e profondamente umanitario, ma tale da annientare le differenze e richiedere un atto di fede incondizionato verso la propria persona. Ma proprio onde evitare ogni possibile deriva populista, sarà bene che, mentre leggiamo sulle facciate delle nostre città la parola «credo», cerchiamo di distinguere i diversi significati e le diverse condizioni che questo verbo propone a tutti noi.
SALVINI:
Caro direttore,
Giuseppe Lorizio commentando il manifesto della Lega #credo ('Avvenire' del 14 agosto), ha posto una distinzione fra due forme del credere: un credere 'forte', che si può rivolgere unicamente a un 'Chi', ovvero a Dio creatore, e un credere 'debole' in progetti, intenzioni, princìpi e valori. Io preferisco parlare invece di un credere teologico, che per un liberale e democratico può esprimersi, se credente, solo verso la divinità, e un credere laico. Credere, nella lingua italiana, significa 'ritenere vera una cosa', insomma essere persuasi della sua verità. Persuasione a cui si arriva per esperienza o per ragione non per rivelazione.
E qui sta la differenza fra il credo religioso e quello laico. Come si afferma chiaramente nel manifesto, si è in presenza di un atto di fede laica, non in un 'Chi', ma in un 'qualcosa'. Sgombrato dunque il campo da ogni possibile confusione, i passaggi decisivi sono a mio avviso due. Innanzitutto il recupero, ragionato ed esperienziale, di certezze. In una società liquida, sfiduciata, corrosa di relativismo, e infine sempre negativa, è importante tornare a 'credere' in qualcosa. È insieme l’ottimismo della ragione e della volontà. Credere è dunque l’opposto di dubitare. È voglia di fare, di costruire, di operare per ridare coesione alla nostra società, per rilanciare l’Italia, partendo da valori chiari, sentiti, vissuti concretamente.
E allora il punto decisivo è capire se si condividono i valori a cui ci si affida per ricostruire una res publica. E qui non posso che citare alcuni passaggi a mio avviso decisivi del nostro manifesto: «Credo nella bella politica e nel bello della democrazia, credo nella libertà, nella giustizia sociale, e nel merito, credo che la persona venga sempre prima dello Stato, credo che tutti gli Italiani vadano tutelati a partire dai più fragili, credo nel valore del rispetto e dei doveri che danno senso ai diritti, nella giustizia giusta, in una sanità che non lascia indietro nessuno, in una scuola che prepari davvero al lavoro, in pensioni dignitose, nella difesa dell’Italia: l’immigrazione è positiva quando è legale e controllata, e milioni di donne e di uomini stranieri che vivono in Italia e arricchiscono le nostre comunità ne sono un esempio».
Ovviamente questi valori vanno poi vissuti coerentemente. Aggiungo: credo nel valore della vita, da preservare dall’inizio alla fine. Credo nel ruolo fondamentale dei Centri di aiuto alla vita, che da decenni in tutta Italia aiutano ragazze e donne a diventare mamme; credo nella lotta a ogni genere di droga; credo nel ruolo fondamentale di associazioni, parrocchie e comunità locali (dove governiamo cerchiamo di sostenere queste realtà in ogni maniera possibile). Se il relativismo ha contribuito a corrodere la società occidentale, ritornare ad avere fiducia in valori e obiettivi alti è a mio avviso il presupposto per la rinascita del nostro Paese.
Ed è questa la sfida che deve coinvolgere credenti e non credenti: riconoscersi in un sistema di valori condiviso per recuperare quel senso di unità fra i consociati, nel segno del primato della persona umana, abbandonando la 'brutta' politica fatta di odio, maldicenza, sospetti, insinuazioni, insulti. Una politica che riparta, in definitiva, da un gesto di fiducia, ovvero un atto laico di fede: credere nel prossimo e nel nostro Paese.