Omelia per la XVI domenica del T.O. (anno A): "Il grano e la zizzania"
Dopo la parabola del seminatore e la sua spiegazione, eccone
un’altra riguardante sempre la semina. Ma se nella prima l’accento cadeva sui
diversi terreni nei quali cadeva il buon grano, qui invece l’attenzione va
all’oggetto della semina: buon seme o cattivo seme.
Gesù racconta un’altra parabola
diventata talmente celebre da aver trasformato il significato della parola “zizzania”:
non solo pianta simile al frumento, ma senza frutto (che anzi, produce una
farina tossica), ma sinonimo di dissenso subdolo. “Mettere zizzania” significa
creare ostilità tra le persone in modo subdolo e maligno.
vengono esposte le possibili tentazioni Nel capitolo 13 del vangelo di Matteo, troviamo
tre parabole, che sono la risposta a tre possibili tentazioni della comunità dei credenti in ogni
tempo. Sono le parabole del “Regno” …
espressione tipica di Matteo che si riferisce a quella società alternativa
dove, anziché accumulare per sé, si condivida generosamente con gli
altri, dove anziché comandare, si serva, e dove anziché salire per
emergere sugli altri, si scende mescolandosi con gli altri. Questo è il Regno
dei cieli: piccolo, nascosto, mescolato, che non si impone, che sa attendere,
che accetta il silenzio e la morte.
La prima tentazione è quella di formare delle comunità di puri, di eletti che
allontanano gli imperfetti.
Il bene e il male,
buon seme ed erbe cattive si sono radicati nella mia zolla di terra: il mite
padrone della vita e il nemico dell'uomo si disputano, in una contesa infinita,
il mio cuore. E allora il Signore Gesù inventa una delle sue parabole più belle
per guidarmi nel cammino interiore, con lo stile di Dio. (E. Ronchi)
Cosa fare quando il mondo si
presenta ambiguo, buono solo in parte, venato di male, con una non trascurabile
quantità di effetti collaterali distruttivi?
Nella
parabola in questione la prima ipotesi è che ci sia un errore all’origine:
«Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo?». Può essere che il male in cui
ci si imbatte sia seminato da Dio? Ecco la risposta: «Un nemico ha fatto
questo!». C’è il nemico. C’è la tentazione. Non si può pretendere di fare qualcosa di
fruttuoso senza essere sottoposti alle insidie dell’avversario. Certo che
ci sono problemi se ci si mette a fare qualcosa di buono! Un matrimonio ha le sue insidie, il lavoro ha la sua gramigna,
l’educazione dei figli ha le sue dolorose involontarie incomprensioni,
l’edificazione della comunità cristiana ha il suo portato di parassitismo
religioso.
La
zizzania non è volontà di Dio, non è semina di Dio, ma è opera di opposizione
sempre presente quando compaia un’opera importante e santa.
Allora compare la proposta
classica: «Vuoi che andiamo a
raccoglierla?». Togliere il problema, sradicare il male quando appare,
eliminare i disturbi. L’ipotesi
perfezionista che trasforma le opere buone in incubi ansiosi, dove in pochissimo tempo non c’è più da fare il bene ma da evitare
il male come missione principale. E così la vita spirituale si imposta tutta sulla negazione, sul purismo, su
quel che non si deve fare. E ci si dimentica della vitalità del bene.
Emerge così un cristianesimo
della negazione, del divieto, dell’intolleranza, del moralismo, più che della
gioia di aver scoperto la presenza di Qualcuno che ci ama nonostante i nostri
difetti e che ci aiuta a sognare e a costruire un mondo migliore che non ha
fine.
Ma il Padrone non è ansioso,
non gli dà noia che le cose siano insidiate: per Lui il bene è l’unica cosa
che conta. La sua strategia è volta a non perdere nessuna parte del buon
seme – le stonature di sottofondo non spengono la bellezza
della melodia, ed è quel che conta.
C’è un tempo per la
distinzione: al momento della mietitura il grano imbiondisce e la zizzania,
anche se somiglia al grano, resta ineluttabilmente verde.
Il bene e il male si
riconoscono all’esito, alla fine, quando arrivano gli angeli,
perché sono gli inviati di Dio che fanno la selezione, non gli uomini. Solo Dio
sa di aver nascosto il suo lievito nella storia, e quel che deve lievitare,
lieviterà. Solo a Dio appartiene il giudizio. (F. Rosini)
Risponde così anche all’intolleranza nei confronti del male
presente negli altri tipica dell’uomo: vediamo nell’altro il male prima del
bene e non sopportiamo le sue imperfezioni. Dimentichiamo così che nell’altro
(come del resto in noi) non c’è solo quel male, quella imperfezione che non
riusciamo a tollerare, ma c’è molto bene che deve maturare. Siamo chiamati a
lasciar maturare il bene che è presente nell’altro (e che è seminato da Dio)
più che abbracciare le armi per estirpare il male che c’è negli altri. Chi ti
ha chiamato giudice?
Dio ti chiama a far maturare il
bene più che a combattere il male, a lasciare che Lui agisca in noi più che noi
agire per Lui. È Lui il protagonista, noi – troppo spesso – siamo gli ostacoli
al suo disegno. Preoccupiamoci semmai di non essere seminatori di zizzania,
figli del Maligno che godono nel vedere gli altri discutere e inimicarsi. Siamo
figli di Dio se operiamo per la pace, per la concordia, per l’unione, per il
servizio. Scegliendo cosa
essere: o grano, pane che alimenta, benedizione per gli altri, o zizzania,
pianta tossica che avvelena e che dà la morte.
Non siamo al mondo per essere immacolati, ma incamminati; non
per essere perfetti, ma fecondi. Il bene è più importante del male, la luce
conta più del buio, una spiga di buon grano vale più di tutta la zizzania del
campo.
Questa la positività del Vangelo. Che ci invita a liberarci
dai falsi esami di coscienza negativi, dal quantificare ombre e fragilità. La
nostra coscienza chiara, illuminata, sincera deve scoprire prima di tutto ciò
che di vitale, bello, buono, promettente, la mano viva di Dio continua a
seminare in noi, e poi curarlo e custodirlo come nostro Eden. Veneriamo le
forze di bontà, di generosità, di tenerezza di accoglienza che Dio ci consegna.
Facciamo che queste erompano in tutta la loro forza, in tutta la loro potenza e
bellezza, e vedremo la zizzania scomparire, perché non troverà più terreno.
(E. Ronchi)
La seconda tentazione che la comunità
subisce, lo vediamo lungo
tutto il vangelo, è quella della mania
di grandezza: «Il regno dei cieli è
simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo
campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più
grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli
del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
La terza e ultima tentazione è quella dello scoraggiamento. La comunità cristiana è piccola, il lavoro da fare è tanto, e c’è il rischio di scoraggiarsi. Allora Gesù, per questa tentazione, dice un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina…». La comunità cristiana non deve spaventarsi di fronte all’enormità del lavoro, ma deve mescolarsi con la realtà esistente per poi trasformarla, e Gesù lo garantisce.