La politica che usa la religione (Trump, Salvini e tanti altri)
Da Jair Bolsonaro (Brasile) a Vladimir Putin e a Victor Orban (Ungheria), da Jeanine Áñez (Bolivia) a Santiago Abascal (Spagna). Senza dimenticare Matteo Salvini. Simboli e parole della fede hanno cittadinanza nella vita pubblica ma non per essere strumentalizzati ed esibiti "contro". Bibbie, rosari, icone, candele, "marce per Gesù": storie recenti che hanno fatto discutere. La riflessione di Iacopo Scaramuzzi che ha dedicato al fenomeno una ricerca pubblicata da Emi ("Dio? In fondo a destra").
Serve il grandangolo, anziché lo zoom, per raccontare la foto di Donald Trump con la Bibbia in mano. Di fronte al dilagare in tutti gli Usa delle violenze innescate dall’omicidio di George Floyd, l’uomo afroamericano soffocato da un poliziotto a Minneapolis, il presidente degli Stati Uniti si è votato alla religione. Prima si è fatto fotografare, la Bibbia in mano, davanti alla chiesa episcopaliana di St John, poi si è recato al santuario nazionale di Washington dedicato a Giovani Paolo II per farsi ritrarre con la first lady Melania accanto alla statua di Giovanni Paolo II. Due photo opportunity che nascondono più di quel che mostrano. Mostrano un capo di Stato che illustra plasticamente il suo desiderio di «legge e ordine» ricorrendo ai simboli religiosi cristiani. Nascondono, o almeno ci provano, la strumentalità dell’operazione.
Le foto non possono nascondere che per organizzare la messa in scena l’area davanti alla chiesa era stata sgomberata poco prima a colpi di gas lacrimogeni dai dimostranti che la occupavano pacificamente. Non possono tacitare le sonore proteste con cui l’iniziativa del presidente è stata accolta dalla stessa chiesa episcopaliana (Trump ha usato la Bibbia «come sfondo per un messaggio antitetico agli insegnamenti di Gesù e delle nostre chiese») e dall’arcivescovo di Washington Wilton D. Gregory (Giovanni Paolo II « sicuramente non approverebbe l’uso di gas lacrimogeni e di altri deterrenti volti a silenziare, disperdere o minacciare queste persone solo per avere l’occasione di una fotografia di fronte a un luogo di preghiera e di pace»).
Le photo opportunity di Trump non possono nascondere, ancora, che il cristianesimo a stelle e strisce rischia una strumentalizzazione frutto di una metamorfosi profonda del Paese. I flussi migratori dal Sudamerica, i mutati tassi di natalità e il calo della pratica religiosa hanno trasformato il panorama sociale. Il 1993 è stato l’ultimo anno in cui gli «Wasp» (White, anglo-saxon, protestant) sono stati maggioranza nel Paese. L’elezione del primo presidente afro-americano, Barack Obama, nel 2009, e la sentenza della Corte suprema che ha riconosciuto i matrimoni tra persone dello stesso sesso (2015), hanno caricato nella destra cristiana una rabbia diffusa. La crisi economica mondiale, esplosa a Wall street, ha fatto da detonatore. I cristiani bianchi hanno votato in massa Donald Trump nel 2016, considerato, come ha scritto Robert Jones nel saggio «The End of White Christian America», «l’ultima chance» di invertire il cambiamento del paesaggio etnico, religioso e culturale. E poco importa che Donald Trump non sappia citare correttamente mezzo versetto della Bibbia, poco importa che sia probabilmente il presidente più immorale della storia degli Stati Uniti, poco importa che ha spiegato di non essere interessato al perdono di Dio perché non ha di che scusarsi. Dalle nomine alla Corte suprema al blocco dell’immigrazione dai Paesi musulmani, dal divieto di transgender nell’esercito al taglio ai fondi per l’interruzione di gravidanza, ha realizzato l’agenda evangelical. Un settore dell’elettorato prezioso. Tanto più ora che, in vista una recessione causata dalla pandemia di coronavirus, la sua rielezione a fine anno non è più scontata. L’inquilino della Casa Bianca sa intercettare le ansie del suo paese. Che in passato invocava Dio perché benedicesse l’America (God bless America!), ora lo invoca perché difenda gli Stati Uniti dal declino.Il declino, la paura di perdere il benessere acquisito, i timori nei confronti di una società secolarizzata, pluralista, multiculturale, accomunano molti paesi. Cavalcati da politici sovranisti dei diversi angoli del globo. Che – è l’immagine complessiva che le photo opportunity di Trump non mostrano – ricorrono ai simboli del cristianesimo per dare alle loro scelte un sapore di eternità.
Da alcuni anni il revival religioso, e in particolare cristiano, è un’arma politica. Vladimir Putin in Russia si è convertito all’ortodossia per dare un contenuto ideale al vuoto creato dal crollo dell’Unione sovietica. Porta sempre con sé una piccola croce, non salta una messa, bacia le sacre icone, si scaglia contro i valori occidentali. In Ungheria Victor Orban ha battezzato la svolta autoritaria, accelerata con il coronavirus, «democrazia cristiana illiberale». In Spagna Santiago Abascal, leader del partito nazionalista Vox, ha rispolverato il cattolicesimo nazionale dal sapore franchista. In Bolivia la presidente Jeanine Anez aveva ostentato la Bibbia in Parlamento ben prima di Trump. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, ha iniziato la sua scalata al potere facendosi battezzare, telecamere al seguito, nel fiume Giordano, come Gesù. Ricorre ai versetti della Bibbia per rivestire di valore mistico i sacrifici chiesti dalla sua agenda neoliberale, partecipa alla «marcia per Gesù» per attaccare gli omosessuali. E quando ha consacrato il paese a Maria, non ha scelto la Madonna meticcia di Aparecida, patrona del paese, ma quella – bianca, ovviamente – di Fatima. Alla Vergine di Fatima ha fatto riferimento anche Matteo Salvini, quando ha affidato il Paese, e il proprio successo elettorale, al «cuore immacolato» di Maria, così come ha baciato il rosario e giurato sul Vangelo in campagna elettorale o ha dedicato i decreti sicurezza di quando era ministro dell’Interno alla Madonna di Medjugorje. Giorgia Meloni non è da meno quando si definisce orgogliosamente «cristiana» o rivendica la tradizione del presepe.
Non conta che molti di questi leader abbiano una vita familiare a dir poco distante dall’ideale propugnato dalla Chiesa, non conta che non accettino il magistero dei Papi sull’accoglienza ai migranti e siano poco interessati anche a quello sulla famiglia e la bioetica, non conta che non pregano il rosario che ostentano o che in piena pandemia invochino a gran voce le chiese piene ma quando finisce il lockdown non corrano a messa. L’uso e l’abuso di simboli, parole, riferimenti cristiani è piuttosto un segnale di fumo destinato ad un elettorato smarrito dalla globalizzazione e dalla crisi economica, una rassicurazione a buon mercato a chi teme il futuro ed ha nostalgia di un piccolo mondo antico, dove non mancavano le processioni e le devozioni popolari. Il cristianesimo è ridotto ad una vecchia foto di famiglia, sbiadita e confortevole. La fede c’entra poco o niente. Quel che conta è una foto da mostrare mentre si bacia un rosario o si tiene in mano la Bibbia. Fino alle prossime elezioni.