La libertà e il bisogno di regole
Siamo
cresciuti nell’illusione di una conquistata libertà sessuale offerta dalla
rivoluzione del sessantotto: “amore libero” e “vietato vietare” (una
contraddizione in termini) erano gli slogan ricorrenti. Ora siamo più liberi di
vivere l’amore e la sessualità? Cosa significa essere liberi? La libertà non è
la possibilità di fare qualsiasi cosa io desideri: questa è utopia. Noi siamo
influenzati dai nostri istinti e dai nostri sentimenti, dai nostri limiti
fisici e psichici, dalla responsabilità assunta nei confronti di altre persone,
dai limiti spazio temporali, dalla cultura e dalla società… Influenzati, ma non
determinati.
Molti vi diranno che essere liberi significa fare quello che si vuole.
Ma qui bisogna saper dire dei no. Se tu non sai dire di no, non sei libero. La
libertà non è poter sempre fare quello che mi va: questo rende chiusi,
distanti, impedisce di essere amici aperti e sinceri. La libertà, invece, è il
dono di poter scegliere il bene:
questa è libertà. E’ libero chi sceglie il bene, chi cerca quello che piace a
Dio, anche se è faticoso[1].
“Libero
è chi sa dire sì” a qualcosa di grande per la quale vale la pena impegnarsi e
impegnare la propria vita sapendo dire dei no a ciò che può allontanarmi,
distrarmi, indebolirmi nel realizzare quello che ho nel cuore. Per
esemplificare: se voglio imparare a suonare la chitarra devo impormi dei tempi
per esercitarmi e dire dei no a mille tentazioni che mi spingerebbero a fare
ben altro piuttosto che faticare esercitandomi. Dico dei no, perché ho detto prima
un si più grande. Per questo l’uomo ha bisogno di regole e di leggi, ma anche
di darsi delle regole (e, magari, una “regola di vita”) per convivere
positivamente e pacificamente con sé stesso e con gli altri. Il mondo degli
affetti e della sessualità è sicuramente quello che ci tocca più profondamente
e nel quale le nostre scelte sono più influenzabili da istinti e pulsioni
interiori o indotte, spesso sconosciute a noi stessi. Chi non riconosce di
avere in sé spinte contraddittorie e spesso nocive che con difficoltà gestisce?
Per questo la gestione dell’affetto e della sessualità richiede norme e
sanzioni che ci aiutino a regolare e controllare le nostre pulsioni e
relazioni. Un tempo erano sufficienti le regole socialmente condivise, il cui
controllo era effettuato dalla famiglia di origine, dai vicini di casa, dalla Chiesa,
dalla scuola o dal mondo del lavoro, tutti fondamentalmente uniti
nell’approvare e far rispettare tali norme. Non osservarle avrebbe causato la
critica, la disapprovazione, l’ostilità causando vergogna, gogna e paura da
parte dell’individuo. Quante ingiustizie si potevano subire, ma anche quanti sbagli
si riuscivano ad evitare. Siamo più liberi che nel passato, ma siamo veramente
liberi? In realtà continuiamo a gestire la spinta
sessuale solo in parte consapevoli delle maree e degli influssi che ci agitano,
navigando su barchette troppo spesso male equipaggiate e con il timone che
procede senza una guida sicura. La nostra bussola, seguendo la similitudine, è
offerta dalla Parola di Dio che ci indica la direzione giusta per giungere alla
meta agognata: la felicità, la realizzazione della nostra vita affinché sia una
vita piena e, per questo, eterna. La Chiesa, guidata dalla Parola di Dio e
dallo Spirito, offre indicazioni preziose che sono oggi spesso disattese e
ignorate, in quanto considerate vetuste, sorpassate dai mezzi tecnologici che
ci offrono servizi “moderni”, e mete alternative, paradisi che presto si
rivelano artificiali e vuoti, luoghi d’incanto che, passata la sbornia, si
rivelano per quello che sono: falsi e nocivi.
I precetti e le norme morali tranquillizzano l’essere
umano che ha paura dell’incertezza, ma soprattutto possono funzionare come le
indicazioni stradali: se hai una meta, ti conviene seguirle per non andare
fuori strada e ritrovarti dove non volevi andare. Sono argini che aiutano la
nostra vita a defluire verso l’approdo, evitando che maree improvvise ci
facciano uscire dall’argine creando danni incalcolabili.
Le norme richiedono anche sanzioni o “punizioni” per
gli eventuali trasgressori: la paura di incorrere in tali sanzioni rinforza la
nostra volontà a rispettare tali regole. Anche la Chiesa aveva un ruolo
importante e la minaccia di essere esclusi dalla salvezza e destinati ad una
vita dannata nell’inferno dei supplizi aveva ampia efficacia. Dio era considerato
un giudice implacabile, imparziale e onnisciente, descritto a volte come un
occhio che ti osserva continuamente, e dal cui sguardo e giudizio non ci si può
nascondere: a Lui non sfuggono le
malefatte e punisce le intemperanze con castighi terreni e poi eterni.
Oggi la Chiesa, al pari delle altre istituzioni, ha
perso il suo potere e la sua autorevolezza: sembra una vecchia nonna che
propone cose di altri tempi, incapace di adeguarsi al nuovo, di comprendere che
il mondo è cambiato. Quanti sono ancora disposti ad ascoltare un’istituzione
che ti fa sentire ancora più in colpa o la cui voce è sopraffatta da voci più
forti e più suggestive? Una voce che usa un linguaggio incomprensibile,
astratto, lontano dalla vita concreta? Eppure di
passi la Chiesa ne ha fatti tanti e ci ha restituito il volto autentico di Dio
che non è il giudice implacabile e un po’ cinico che condanna i nostri errori,
ma un padre e una madre che ci ama e non smette di amarci per il fatto che noi
ci comportiamo male. “Dio ci ama così come siamo, e nessun peccato, difetto o
sbaglio gli farà cambiare idea”, così twittava papa Francesco il 31 luglio
2016. E un lettore subito commentava: “E il giudizio di Dio? Attenti: così si
giustifica ogni peccato!”. Certo, come ama ripetere Enzo Bianchi, la
misericordia di Dio è scandalosa, non ci offre indicazioni rigide e chiare di
cosa è lecito e cosa è illecito[2].
Ci lascia in balia della nostra libertà e delle nostre fragilità perché le
prende sul serio. Ci offre indicazioni, leggi, norme perché possiamo imparare a
vivere liberi e felici. Tutto questo spaventa i cristiani affezionati a formule
rigide, chiare, più stringenti e meno ambigue: seguire norme precise ci
tranquillizza, ci fa sentire buoni e migliori di chi non le osserva, ci rende
intransigenti con gli altri, pronti a puntare il dito, sentendoci in diritto di
condannare chi sbaglia. Non era questo l’atteggiamento di molti farisei
aspramente criticato da Gesù, perché lontano dalla logica della carità?
La
famiglia, da parte sua, si trova spesso frantumata, disorientata, a volte
ferita e comunque imbevuta di relativismo (“solo io posso decidere qual è il
mio bene e quale il mio male”). Non riesce più ad essere un baluardo che indica
e fa rispettare norme e limiti: oggi si tende a lasciare che il bambino, in
nome del rispetto e della libertà, decida da solo con cosa si vuol vestire,
cosa mangiare, cosa fare, con chi giocare… La conseguenza è un aumento
dell’ansia del bambino che ha bisogno di indicazioni e limiti, ma non li trova
più da nessuna parte, e si trasforma in un piccolo tiranno, un bamboccione che
usa ogni tecnica a sua disposizione per imporsi sui genitori. Questi, inoltre,
vivono di sensi di colpa perché lavorano tutto il giorno e sono presi da altri
pensieri e da altre passioni a cui non rinunciano più facilmente: come
compensare il bambino, il proprio “tesoro” (anche in senso economico,
considerato l’investimento che richiede mantenerlo), da queste mancanze? Come
non cedere alle sue urla, alle sue richieste spasmodiche, alla lagna, alla
minaccia di essere, a causa dei genitori, infelice se privato dell’oggetto del
desiderio? Come contrastare la tendenza consumistica privando il proprio figlio
di capi firmati, giocattoli costosissimi, tecnologia all’avanguardia che tutti
gli altri hanno e di cui si vantano considerando degli “sfigati” coloro che ne
sono privi?
Non
ci si può aspettare una grande collaborazione dalla scuola, la quale si limita
– quando va bene - ad insegnare il rispetto degli altri e già fatica a fare
questo. Del resto quali adulti oggi non invidiano la bellezza e la vitalità dei
giovani, come se la felicità fosse legata solo a tali condizioni e ormai a loro
negata? Quale modello offrono ai giovani, quale futuro possibile, adulti che
cercano in tutti i modi di scimmiottare i giovani? Il teologo Armando Matteo ha
scritto un piccolo saggio dal titolo: “Tutti
muoiono troppo giovani”. La tesi è che, in seguito ai progressi della
medicina che ha offerto una longevità di massa, ci si pensa tutti giovani e
immortali. O meglio: si cerca spasmodicamente di vivere come giovani e di non
pensare mai alla morte. Quando questa inevitabilmente interviene a mettere fine
al nostro delirio di onnipotenza, si muore troppo giovani, “ingiustamente”,
vittime di una “disgrazia” imprevista. Se “la mortalità, ovvero la coscienza
della propria morte, è stata per lungo tempo una buona base per una certa
moralità di intenzioni e di atti concreti”[3],
la sensazione di immortalità sembra consentire di vivere ogni propria
aspirazione senza doverne rendere conto a nessuno.
Nella nostra cultura capitalistica e consumistica si è inoltre
portati a cercare sul mercato il prodotto migliore che posso permettermi: ti
metti alla ricerca dell’affare e in questa ricerca non solo ti senti
legittimato a fare tanti assaggi, prove, ma anche, nel momento dell’acquisto,
se trovi qualcosa di meglio sei pronto a lasciare il vecchio per il nuovo.
Cerchi la persona che, con quello che puoi permetterti, può darti di più:
quella che per le sue caratteristiche fisiche, psicologiche o patrimoniali può
offrirti di più. E non accetti che tali caratteristiche si deteriorino o
risultino diverse da come apparivano. Da qui un amore “liquido”, fragile, “usa
e getta”.
La Hargot nota come le domande degli attuali adolescenti denotano che
c’è ancora bisogno di norme e doveri morali: “Bisogna?”, “Si deve?”, “E’
normale?”, “E’ bene o male?”. Certo è cambiato il contenuto delle domande (al
“bisogna essere sposati per avere rapporti sessuali” si è sostituito il
“bisogna avere rapporti sessuali prima di sposarsi?”), ma rimane lo stesso
bisogno di norme che ci facciano sentire normali, sani, corrispondenti alle
attese della società, accettati dai coetanei. Abbiamo bisogno di conferme, di
comprendere la nostra identità, di sentirci amabili e desiderabili: per
ottenere tutto questo possiamo arrivare ad elemosinare attenzioni, affetto,
stima. Si arriva a svendere la propria dignità, mostrandosi disponibili a
soddisfare i bisogni del compagno, nascondendo le proprie paure esibendo una
falsa sicurezza, millantando successi e conquiste. D’altra parte se
la ricerca del piacere è l’unico fine della sessualità, il corpo si riduce ad
essere solo uno strumento di godimento e la pornografia diviene il manuale di
istruzioni più idoneo per ottenere il piacere più intenso. Poco importa che ne
scaturiscano ansie da prestazione e si riduca il partner ad un oggetto di
godimento anziché un soggetto da amare. Se il
rapporto sessuale è finalizzato al solo piacere, allora è logico viverlo senza
impegni, sballandosi in una discoteca dove, attraverso un gioco di sguardi e
seduzioni, capire chi ci sta e consumare in pochi minuti quel desiderio. Se è
consenziente (ma che consapevolezza può avere una ragazzina che ha fatto uso di
droghe e di alcool?), può essere ancora più eccitante farlo in gruppo, o in
maniera violenta, come la pornografia insegna. Del resto non appartiene
all’immaginario maschile il sadismo messo in scena nei video pornografici e non
alletta milioni di donne la storia sado-maso (per quanto soft e con
venature “romantiche”) di un affascinante miliardario
raccontata con straordinario successo nella trilogia della scrittrice
inglese E. L. James[4]?
Avere uno sguardo positivo, misericordioso
delle fragilità altrui non significa rinunciare all’azione critica nei
confronti della mentalità “mondana”, delle aberrazioni propagandate come
moderne e normali dai mass-media. La Chiesa perderebbe la sua funzione
profetica se si limitasse a dare indicazioni per i suoi fedeli e non
intervenisse a denunciare il male nelle sue molteplici manifestazioni e
mistificazioni. E’ necessario mettere in evidenza i pericoli insiti nella
nostra cultura che, ad esempio, spinge e giustifica le persone a passare con
rapidità da una relazione affettiva ad un'altra, a non assumersi responsabilità
per il bene del partner e degli eventuali figli. Si crede che
l’amore, come nelle
reti sociali, si possa connettere o disconnettere a piacimento del consumatore
e anche bloccare velocemente. Penso anche al timore che suscita la prospettiva
di un impegno permanente, all’ossessione per il tempo libero, alle relazioni
che calcolano costi e benefici e si mantengono unicamente se sono un mezzo per
rimediare alla solitudine, per avere protezione o per ricevere qualche
servizio. Si trasferisce alle relazioni affettive quello che accade con gli
oggetti e con l’ambiente: tutto è scartabile, ciascuno usa e getta, spreca e
rompe, sfrutta e spreme finché serve. E poi addio. Il narcisismo rende le
persone incapaci di guardare al di là di sé stesse, dei propri desideri e
necessità. Ma chi utilizza gli altri prima o poi finisce per essere utilizzato,
manipolato e abbandonato con la stessa logica[5].
[1] Papa Francesco, omelia
per il Giubileo dei ragazzi, 24 aprile 2016
[2] Cfr. E. Bianchi, L’amore
scandaloso di Dio, San Paolo 2016.
[3] A. Matteo, op.cit.,
p.41
[4] “Cinquanta
sfumature di grigio” (2011); proseguite col nero (2012) e con il rosso
(2012). Altrettanto celebre è la sagra di After
(2014) della scrittrice statunitense A. Todd.
[5] Papa Francesco, Amoris
laetitia, n.39