Alla prima domanda risponde Valerio Mauro, docente di Sacramentaria:
... non abbiamo un
resoconto degli avvenimenti di stampo giornalistico, ma una narrazione di fede,
che, sia pure in tempi quasi contemporanei agli avvenimenti, nasce dalla fede
in Gesù e si rivolge a credenti.
Il racconto della passione e
resurrezione di Cristo è il primo nucleo della narrazione evangelica che
affiora dalla memoria degli apostoli, testimoni oculari della vita di Gesù, dal
giorno del suo battesimo nel Giordano. La morte di Gesù, quindi, si presenta
come la conclusione di un’esistenza dedicata alla proclamazione del Regno di
Dio in una modalità inattesa e sconvolgente per quell’epoca. Ma non solo per
quell’epoca: lo «scandalo» della proposta di Gesù continua ancora oggi.
Qualcosa, però, possiamo dire,
raccogliendo alcuni particolari dalla narrazione evangelica che sono confermati
dalla ricerca storico-critica. I sinottici (cioè gli evangelisti Marco, Matteo
e Luca che seguono un profilo molto simile nel raccontare gli avvenimenti della
vita di Gesù) danno spazio alla consegna di Gesù al tribunale del Sinedrio per
essere giudicato colpevole di «bestemmia» o «blasfemia»...
la sostanza dell’interrogatorio ha un fondamento
attendibile, soprattutto nell’accusa rivolta a Gesù di essersi proclamato
Messia e di voler «distruggere il tempio»...
La bestemmia di Gesù è la
pretesa di incarnare la figura del Figlio dell’uomo, che avrebbe giudicato il
mondo. Questa pretesa è rafforzata dall’aver messo «in discussione la funzione
e il valore del tempio in rapporto al novum che egli stava
annunciando e compiendo nella sua persona e con la sua opera» (S. Dianich, Il
messia sconfitto, p. 75). In effetti, Gesù aveva messo in questione tutta
l’articolazione religiosa che ruotava intorno al tempio di Gerusalemme...Davanti al Sinedrio si svolge un primo
processo che conduce alla richiesta da parte delle autorità religiose ebraiche
perché l’autorità romana pronunci una condanna a morte (cf Gv 18,31).
...per l’autorità romana una
motivazione prettamente religiosa non sarebbe stata ritenuta sufficiente per
una condanna capitale. L’accusa che Pilato è costretto a prendere in
considerazione è l’aspirazione di Gesù ad essere un messia re. Il dialogo
fondamentale fra Gesù e Pilato ruota intorno a questa pretesa, che diverrà poi
la motivazione della condanna, come sarà scritto sul titulus della
croce: Gesù Nazareno, Re dei Giudei. Pilato si trova di fronte una persona che
appare una minaccia per la pax romana, che si fondava anche su buoni rapporti
con le autorità religiose ebraiche.
Il suo agire fu dovuto a
motivazioni politiche, di conservazione della stabilità sociale nella provincia
affidata al suo governo. E di fatto il messaggio evangelico, senza attaccare
direttamente l’autorità politica, proclama una signoria di Dio che mette in
forte discussione un determinato esercizio dell’autorità politica, quale quello
dell’epoca. La predicazione e l’agire di Gesù, dunque, appaiono anche ad una
ricostruzione storica fortemente innovativi rispetto alla mentalità dell’epoca,
sia religiosa che politica. Il messaggio delle beatitudini, il rapporto diretto
con Dio, la proclamazione del Regno offerto a tutti, uniti alla singolarità
della propria autoconsapevolezza, conducono Gesù ad essere considerato
colpevole di blasfemia da parte dell’autorità religiosa ebraica e di sedizione
da parte dell’autorità politica romana. Il supplizio della croce, infine, lo
identifica come un uomo del basso popolo, giudicato colpevole dei più gravi
crimini.
...Come ricorda il
Catechismo della Chiesa Cattolica, il grido del popolo perché «il suo sangue
ricada sopra di noi e sui nostri figli» (Mt 27,25) è una «formula di
ratificazione» e non implica una responsabilità sugli Ebrei di ogni tempo e
luogo (CCC 597). Gesù stesso dalla croce chiede perdono per i suoi crocifissori,
perché «non sanno quello che fanno» (Lc 23,34), richiesta presa sul serio dalla
Chiesa degli apostoli nella sua primitiva predicazione (At 3,17). La fede
cristiana è limpida nell’affermare che Cristo è morto per i peccati
dell’umanità ed è stato risuscitato secondo le Scritture (cf 1Cor 15,3s)...
Alla seconda risponde, in maniera forse troppo perentoria e provocatoria, Alberto Maggi, biblista:
Gesù Cristo è morto per i nostri peccati. È questa la
risposta che si dà normalmente a quanti chiedono come mai il Figlio di Dio
abbia finito i suoi giorni nella forma più infamante per un ebreo, il patibolo
della croce, la morte dei maledetti da Dio (Gal 3,13).
Gesù è morto per i nostri peccati. Non solo per i nostri, ma anche
per quegli uomini e donne che lo hanno preceduto e quindi non lo hanno
conosciuto, e perfino per tutta l’umanità che verrà. Se è così, è
inevitabile che guardando il crocefisso, con quel corpo che è stato torturato,
piagato, rigato da fiotti e grumi di sangue, quei chiodi che squarciano la
carne, quelle spine infilzate nella testa di Gesù, chiunque si senta in
colpa… il Figlio di Dio è finito sul patibolo per i nostri peccati! Sensi
di colpa che rischiano di infiltrarsi come un tossico nel profondo della psiche
umana, diventare irreversibili al punto da condizionare per sempre
l’esistenza dell’individuo, come ben sanno psicologi e psichiatri ai quali non
manca il lavoro con persone religiose devastate da scrupoli e turbamenti.
Eppure basta leggere i vangeli per vedere che le cose stanno diversamente. Gesù è stato assassinato per gli interessi della casta sacerdotale al
potere, terrorizzata dall’idea di perdere il dominio sul popolo, e soprattutto
di vedere svanire la ricchezza accumulata a spese della credulità delle
persone.
La morte di Gesù non è dovuta soltanto a un problema teologico, ma
economico. Il Cristo non era un pericolo per la teologia (nell’ebraismo erano molte
le correnti spirituali che competevano tra esse ma che erano tollerate dalle
autorità), ma per l’economia. Il delitto per il quale Gesù sarà
eliminato è l’aver presentato un Dio completamente diverso da quello imposto
dai capi religiosi, un Padre che ai suoi figlioli non chiede, mai, ma che
dona, sempre. La florida economia del tempio di Gerusalemme, che ne faceva la
banca più sicura di tutto il Medio Oriente, si reggeva sulle imposte, sulle
offerte, e soprattutto, sui rituali per ottenere – a pagamento – il perdono di
Dio. Era tutto un commercio di animali, di pelli, di offerte in denaro, frutta,
grano, tutto per l’onore di Dio e le tasche mai sature dei sacerdoti, “cani
avidi, che non sano saziarsi” (Is 56,11).
Quando
gli scribi, le massime autorità teologiche del paese, ritenute il magistero
infallibile della Legge, vedono Gesù perdonare i peccati a un paralitico,
immediatamente sentenziano: “Costui bestemmia!” (Mt 9,3). E i
bestemmiatori dovevano essere subito uccisi (Lv 24,11-14). L’indignazione degli
scribi può sembrare una difesa dell’ortodossia, in realtà è volta a
salvaguardare l’economia. Per il perdono dei peccati, infatti, il peccatore
doveva andare al tempio e offrire quel che il tariffario delle colpe
prescriveva, secondo l’entità del peccato, elencando dettagliatamente quante
capre, galline, piccioni o altro offrire in riparazione dell’offesa al Signore. E
Gesù invece perdona, gratuitamente, senza invitare il perdonato a salire al
tempio per portare la sua offerta.
“Perdonate e
sarete perdonati” (Lc 6,37) è infatti lo sconvolgente annuncio di Gesù: appena
due parole che però rischiano di destabilizzare tutta l’economia di
Gerusalemme. Per ottenere il perdono da Dio non c’è più bisogno di andare al
tempio, di portare delle offerte, di sottostare a riti di purificazione, nulla
di tutto questo. No, basta perdonare e si viene immediatamente perdonati… E
l’allarme cresce, i sommi sacerdoti e gli scribi, i farisei e i sadducei sono
tutti inquieti, sentono franare il terreno sotto i piedi, finché, in una
drammatica riunione del sinedrio, il massimo organo giuridico del paese, il
sommo sacerdote Caifa prende la decisione. Gesù va ammazzato, e non
solo lui, ma anche tutti i discepoli perché non è pericoloso solo il Nazareno,
ma la sua dottrina, e fintanto ci sarà un solo seguace capace di propagarla, le
autorità non dormiranno sonni tranquilli (“Se lo lasciamo continuare così,
tutti crederanno in lui…”, Gv 11,47). E Caifa per convincere il sinedrio dell’urgenza
di eliminare Gesù non si rifà a temi teologici, spirituali, no, il sommo
sacerdote conosce bene i suoi, quindi brutalmente tira in ballo quel che sta a
loro più a cuore, l’interesse: “Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che
è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo…” (Gv 11,50). Gesù
non è morto per i nostri peccati e tantomeno perché questa fosse la volontà di
Dio, ma per l’avidità dell’istituzione religiosa, capace di eliminare chiunque
intralci i suoi interessi, fosse pure il Figlio di Dio: “Costui è
l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità” (Mt 21,38). Il vero
nemico di Dio non è il peccato, che il Signore nella sua misericordia riesce
sempre a cancellare, ma l’interesse, la convenienza, l’avidità, che rendono gli
uomini completamente refrattari all’azione divina.
Infine la riflessione di Franco Mosconi sul Venerdì Santo:
Il drammatico supplizio della croce ha spesso indotto i predicatori del passato a insistere in modo eccessivo sugli aspetti cruenti della passione di Gesù. Da questa predicazione sono derivate immagini, rappresentazioni popolari e alcune devozioni in cui si esasperava la violenza dei colpi della flagellazione ed il sadismo dei soldati.
I Vangeli si muovono in tutt’altra prospettiva. Sono molto sobri nel raccontare gli orrendi tormenti inflitti a Gesù. Il loro obiettivo non è impressionare o commuovere i lettori, ma far comprendere l’immensità dell’amore di Dio che si è rivelato in Cristo. I Vangeli non si attardano sulle sofferenze perché la passione che presentano non è quella del patire, ma la passione d’amore.
Vorrei mettere in luce l’ambigua persistenza di un modello doloristico che pone nella sofferenza la ragione della salvezza dell’uomo. Ci sono diverse variazioni su questo tema. Le più classiche sono quelle che interpretano la sofferenza di Cristo come prezzo versato per il riscatto dell’uomo, o come una soddisfazione offerta a Dio per la riparazione delle offese dei peccati umani.
Gesù non ci ha salvato perché ha sofferto, ma perché ha continuato ad amare, a perdonare, a rivelare la misericordia di Dio mentre gli uomini lo conducevano alla morte. Quindi in Cristo il peccato è punito, ma la redenzione non viene dalla punizione inflitta da Dio al suo Cristo, bensì dall’amore del Padre per il suo Figlio sofferente.Occorre liberare la redenzione da ogni meccanismo di punizione. La terminologia relativa al castigo per il peccato non si adatta bene all’azione di Dio. La redenzione è un atto positivo attraverso il quale Gesù immette nella storia una nuova modalità di affrontare la vita e la morte.
Egli predicava che l’odio si vince amando, che la violenza si controlla portandola serenamente, che il male si sconfigge avvolgendolo di bene, mettendo in moto, cioè, dinamiche di vita, opposte a quelle diffuse dal male. Questo era il progetto di Dio a cui Gesù si era impegnato di rimanere fedele. E quando la bufera dell’odio e della violenza lo ha travolto, non si è sottratto, ma ha continuato ad amare e a perdonare, compiendo così la volontà del Padre
Gesù ha insegnato a investire il male con dinamiche positive in modo da annullare le spinte disgregatrici per diffondere, all’opposto, energie vitali. La passione di Cristo non è quindi il luogo della punizione divina, ma l’ambito che la misericordia di Dio apre al futuro dell’uomo quando questi resta fedele all’amore, all’ “amatevi come io vi ho amato”.
Non siamo più noi che andiamo a Dio nella nostra tribolazione, è Dio che viene a noi nella nostra tribolazione.
La croce è la parola che ci dice fino a dove è arrivato questo venire di Dio verso di noi: fino al nostro inferno, fino alla nostra assenza di Dio, fino a svuotare l’inferno. Gesù l’ha svuotato sulla croce.