Sul futuro del cristianesimo: dibattito a più voci su Avvenire


Il dibattito era stato rilanciato su Avvenire il 23 ottobre da Luca Diotallevi («Lasciamo alle spalle la “cristianità”. Ora la via stretta del cambiamento»), voce cui si erano aggiunte quelle di don Giuseppe Lorizio, Roberto Cipriani, il vescovo Antonello MuraSimone Morandini, don Simone Mignozzi e Marco Vergottini.

Prosegue con questo intervento del 13 dicembre di Luigino Bruni il confronto sul futuro del cristianesimo, in Italia e non solo:

Fede. I giovani e le famiglie accanto ai celibi: una nuova via per il monachesimo

Un cambiamento d’epoca come quello in corso suggerisce cambiamenti coraggiosi per incarnare la vita monastica in forme nuove. Una proposta per la vita contemplativa, presenza sempre più esigua.

Il monachesimo è stato nel Medioevo il fenomeno culturale ed economico più rilevante in molte regioni europee. Non avremmo – o sarebbero molto più povere – la farmacia naturale, la grande biodiversità eno-ganostronomica, la silvicultura, molte innovazioni tecniche e tecnologiche, la cultura del lavoro, le scuole e i libri, senza i monasteri e le abbazie. Un’importante componente dell’economia europea è maturata e cresciuta dentro i monasteri e nelle loro lunghe filiere esterne, senza dimenticare la fittissima rete di fiere che si svolgevano quasi sempre nei piazzali delle abbazie che garantivano quella fides (fede e fiducia) necessaria per i mercati di ieri, e forse di oggi. L’Ora et labora è stata anche un’anima culturale, economica e sociale dell’Europa. La prima unione europea fiorì da una costellazione di abbazie e monasteri, maschili e femminili, dove si custodivano la fede cristiana, la civiltà classica, e si innovava su quasi tutti gli ambiti della vita.

Molte di quelle antiche istituzioni sono ancora presenti nei Paesi europei, nonostante uno scenario religioso e civile profondamente mutato nell’ultimo mezzo secolo. Le abbazie e i monasteri sopravvivono, con le loro bellissime chiese e altri edifici e terreni annessi, ma la vita al loro interno si sta progressivamente spegnendo. Ci sono ancora, qua e là, comunità monastiche che sperimentano nuove primavere di creatività e vocazioni, ma sono luminose eccezioni in una notte oscura. Dati demografici alla mano, tra un paio di decenni circa il 90% degli attuali monasteri europei saranno vuoti. Il loro futuro è affidato al mercato, se qualche multinazionale vi vede un buon investimento; il resto finirà a qualche rara istituzione pubblica particolarmente lungimirante (e ricca) che li trasformerà in musei, e ciò che non incontrerà l’interesse né del pubblico né del privato finirà e basta. È questo dunque l’unico destino? Forse no.

La situazione è tanto grave quanto sottovalutata. Non riguarda tanto, soltanto o primariamente la sorte degli immobili e dei patrimonio: il centro della questione è teologico e spirituale, non economico – l’economia, nella vita religiosa, somiglia alla spia rossa nel cruscotto delle auto: è la prima ad accendersi in una “crisi”, ma si spegne solo sistemando il “motore”. In questi anni ho avuto modo di accompagnare diverse realtà monastiche, tutte in difficoltà per carestia di futuro, accentuata dalla ricchezza di passato. Emerge la difficoltà di immaginare scenari veramente diversi da quelli conosciuti finora (ogni crisi profonda è crisi dell’immaginazione del futuro), insieme all’esperienza, spesso, di un non adeguato ascolto da parte delle istituzioni ecclesiali che, certo con buone intenzioni, rispondono al loro grido di aiuto con il Codice di diritto canonico e con i documenti per la vita monastica e consacrata, chiaramente scritti in e per un mondo che ormai quasi non esiste più; anche perché in una parte della Chiesa è ancora vivo il ricordo dei tempi passati quando i monasteri erano forti e potenti. Che fare allora? 

Nei tempi di cambiamento d’epoca i piccoli aggiustamenti al margine, o il gradualismo, non solo non funzionano ma sono la strada perfetta per scontrarsi contro un muro. C’è bisogno di una rifondazione profonda e celere della vita monastica (e in generale della vita consacrata religiosa), maschile e femminile.

Facciamo un ragionamento laterale, un sorta di esercizio allegorico. Immaginiamo un’impresa che a metà Novecento aveva iniziato a costruire impianti di sci sull’Appennino, dapprima in Romagna, poi via via in Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo. Aveva costruito un impero. Da qualche anno è arrivato il cambiamento climatico: sempre meno neve, sempre più neve artificiale, più costi, meno profitti, meno dipendenti di qualità che si spostano sulle Alpi. Le crescenti perdite sono il risultato di questa policrisi, che è già diventata anche malessere lavorativo e crescita dei conflitti. Cosa può fare questa azienda? Può chiudere, certamente; può anche provare ad andare avanti ancora qualche anno sparando neve con i cannoni tenendo le mani alzate verso il cielo affinché le temperature non siano troppo alte. Ma può fare anche qualcos’altro: può decidere di usare le sue ultime risorse per tentare un cambiamento radicale. Prendere atto che il clima del mondo è cambiato, e non tornerà indietro; vincere quindi la nostalgia dei bei tempi, smettere di maledire il mondo cattivo che ha generato il riscaldamento globale, e poi orientare il desiderio verso il futuro. E poi, in una bella mattina, iniziare a trasformare i vecchi impianti in una rete di parchi ecologici, con programmi formativi nei boschi, camminate, bici, molto sport e cultura ecologica, magari investendo sulla formazione dei bambini e su ristoranti e alberghi a impatto zero. Certo, anche questo imprenditore si chiederà: il mercato ci sarà? Troverò nuovi soci e lavoratori di qualità?

La Chiesa non è un’azienda, lo sappiamo. Neanche i monasteri lo sono, anche se, storicamente, hanno svolto funzioni di risposta a bisogni sociali ed economici, non solo spirituali – nel Medioevo, Vallombrosa in Toscana o Aderbode nelle Fiandre erano qualcosa di simile alle nostre Harvard o Mit: entrandovi non si restava attratti tanto dal sacro (ce n’era moltissimo fuori), ma dalle biblioteche, dallo scriptorium, dalle vigne, dalle farmacie. Il passaggio dagli impianti di sci ai parchi ecologici nel campo della vita monastica significherebbe iniziare a pensare che il carisma monastico possa oggi incarnarsi in qualcosa di diverso dal passato, perché il “clima spirituale” del mondo è cambiato davvero. 

Iniziare a includere nei monasteri famiglie, giovani, persone di ogni età e stato civile, non come “ospiti” ma come “abitanti” ordinari, per provare a continuare in un modo nuovo il carisma del monachesimo, e quindi farlo vivere. Per immaginare qualcosa del genere ci sarebbe bisogno di una rivoluzione copernicana. Innanzitutto iniziare a distinguere lo stato di vita (matrimonio, celibato) dalla vocazione monastica, quindi credere che il carisma monastico sia eccedente rispetto al celibato o alla consacrazione che finora l’ha caratterizzato. Oggi il binomio manachesimo/celibato, che quando nacque nel Medioevo aveva il suo senso, appare per molti versi un'eredità inadeguata per salvare l’esperienza e il carisma del monachesimo. Nei monasteri ci potranno sempre essere persone celibi, ma la sfida è superare l’associazione esclusiva tra il celibato e il monachesimo.

In realtà, se scaviamo ancora più in profondità, ci accorgiamo che la sfida è ancora più radicale. Lo scopriamo se proviamo a rispondere a questa domanda: perché l’essenza del monachesimo – comunità, preghiera, liturgia, lavoro, contemplazione, Parola – deve essere un monopolio di una élite di celibi e vergini? Perché non estendere l’eredità spirituale di san Benedetto, sant’Agostino, san Bruno, santa Teresa d’Avila anche a laici, a famiglie, giovani e anziani? Il nostro tempo, che somiglia molto a quello romano quando nacque il primo monachesimo, ha tutte le condizioni per una nuova primavera del carisma monacale. Ma c’è bisogno di una democratizzazione del monachesimo. La comunità, la contemplazione e la mistica possono diventare esperienze popolari, aperte potenzialmente a tutte le condizioni di vita, perché sono parte del repertorio di base di ogni persona. Possiamo allora iniziare a immaginare monasteri, antichi e nuovi, dove al nucleo di celibi si aggiungano, con pari dignità e diritti, altre persone, diverse eppure uguali. Luoghi pieni di umanità, di bambini, di vita a tutto tondo. Superare quindi, sul piano teologico e antropologico, l’antica idea di una superiorità spirituale-etica del celibato sugli altri stati di vita. Anche perché – detto per inciso – la stessa enorme questione femminile nella Chiesa cattolica non si risolverà finché esisterà una gerarchia sacrale tra le diverse vocazioni e tra i ministeri. L’arrivo di diverse persone accomunate dalla stessa vocazione monastica, porterà inevitabilmente a cambiamenti delle forme di governance, delle prassi concrete, delle responsabilità, e la sfida sarà la fedeltà creativa al grande passato insieme all’apertura allo spirito che soffia nel tempo presente. Esistono già nuove comunità monastiche che stanno tentando qualcosa di simile; si tratta ora però di immaginare una riforma generale del monachesimo tradizionale che consideri simili esperimenti come faccende ordinarie e non come eccezioni al margine (guardate spesso con sospetto).

Un discorso specifico va poi fatto per gli anziani. Oggi, e ancor più domani, ci sono molti anziani, sia famiglie che single (vedovi, separati), che vorrebbero trascorrere gli anni dell’invecchiamento attivo in un contesto comunitario e spirituale, come risposta a una autentica vocazione – ne conosco alcuni. Ma non per vivere in case di riposo ospitate nei locali del monastero, bensì come membri ordinari e attivi, che trascorrono in monastero uno, due o più decenni della loro esistenza matura, insieme a tutte e tutti gli altri. Sono convinto che il “mercato”, i “bisogni” e i “lavoratori” (vocazioni) ci siano, ma sono ancora latenti, quindi vanno scovati e attivati. Certamente c’è una crescente domanda di spiritualità in Europa che, purtroppo, sta incontrando quasi sempre un’offerta sbagliata, da parte di sette emozionali, meditazioni fai-date, o neo-sciamanesimi. La grande tradizione monastica può ancora tentare un nuovo incontro con lo spirito del nostro tempo. Ci sarebbe “solo” bisogno di una nuova capacità di rischiare, di maggiore pensiero teologico, di generosità da parte degli ordini monastici, di più desiderio di futuro, di tantissima fiducia negli esseri umani, di un granello di senape di fede – ingredienti che il Vangelo ha sempre avuto, e ha ancora.

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